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19 set 2013

Un pisano e un fiorentino

di Luciano Caveri

Enrico Letta, pisano, sfotte Matteo Renzi, fiorentino, rinfocolando l'evidente rivalità dentro il Partito Democratico, ma diventando esempio plastico delle terribili liti che dividono le storiche cittadine della Toscana. Johann Wolfgang von Goethe, in viaggio per l’Italia, verso la fine del Settecento, scrisse: "Qui sono tutti in urto, l'uno contro l'altro, in modo che sorprende. Animati da un singolare spirito di campanile, non possono soffrirsi a vicenda". Se si prende il microscopio, questo campanilismo esiste anche nel reticolo più minuto, come sanno bene quelli che, anche nella piccola Valle d'Aosta, conoscono rivalità millenarie nell'uso delle acque fra Comuni viciniori o antiche beghe fra frazioni del medesimo paese, di cui restano ancora oggi dei cascami. Ricordo un politico ancora in auge, quando, nel corso di certe discussioni, agitava - come un'arma letale - le sezioni del suo partito della bassa Valle, come se si trattasse di una "Révolution des Socques". Fenomeno storico - lo spiego ai non valdostani - così denominato per le calzature con suola in legno, che si erano ribellati ai rivoluzionari giacobini francesi e ai seguaci autoctoni e questo avvenne in due riprese, nel 1799 e poi nel 1801. Io trovo che il campanilismo possa non essere una malattia, se instradato saggiamente in un senso d'appartenenza locale e se non diventa diffusore di rivalità inutili e mette sabbia nell'ingranaggio delle decisioni. Ma bisogna soprattutto evitare che i veleni del campanilismo gretto diventino un cavallo di battaglia di chi rifiuta l'Italia delle autonomie. Quante volte ho sentito con le mie orecchie chi equiparava federalismo e campanilismo, specie nei rari momenti in cui in Italia si parlò di come cambiare la forma di Stato, mentre oggi si parla di nuovo della sola forma di Governo. E lo si fa, relegato il federalismo a una sorta di caricatura da buttare via con certe forme di leghismo, senza rendersi conto di quanto la crisi italiana affondi le sue radici nella scelta di uno Stato centralista e di un addendo regionalista, che hanno finito per non essere né carne né pesce. Eppure, nel caos attuale, fatto di discussioni oziose, che legano ormai la Legislatura al destino di Silvio Berlusconi, il suo impero e i suoi sodali, la riforma costituzionale è una pietanza informe che serve più a distrarre dal presente, immaginando orizzonti meravigliosi di una "nuova Italia", che prima o poi rinascerà dalle proprie ceneri. Peccato!