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01 feb 2013

I sermoni alla Savonarola

di Luciano Caveri

L'attività politica, piena di difetti e che - come sui pacchetti di sigarette "nuoce gravemente alla salute" - ha qualche pregio, come quello di accentuare, nella frequentazione di molta e varia umanità, lo spirito d'osservazione. Girolamo Savonarola, predicatore del Quattrocento, morto sul rogo, è rimasto proverbiale come la figura plastica del moralista che fa la lezione agli altri, animato da un fuoco sacro che incute pure un pizzico di timore. Anche la politica valdostana ha i suoi "Savonarola". Ne ho visti passare tanti e sono insopportabili non per un fatto personale - ci mancherebbe, anch'io sono pieno di difetti - ma perché passano il tempo ad esaltare la propria figura in eccessi narcisistici contro "gli altri". Loro capiscono i poveri, sono solidali con quelli in difficoltà, sono imbevuti di sociale, hanno il Welfare che scorre nelle vene e se bevono un caffè dev'essere equo e solidale. In poche parole: sono i primi della classe e tutti gli altri sono da mettere nel banco in fondo con il cappello da asino. Aspirano al Consiglio Valle e quando lo raggiungono talvolta scambiano la dialettica democratica con i sermoni. In fondo un po' li invidio, roso come sono da mille dubbi e dalle mie inadeguatezze, mentre loro sono come crociati votati - se non hanno in contemporanea un impegno per una marcia o una petizione - al martirio. In questo esiste la particolare figura, che ho incontrato molte volte, del "cattocomunista": insomma due Chiese in un colpo solo e compatibilità non molto chiara, perché almeno per ragioni storiche stridono come se la parola composta fosse un ossimoro. Non che una parte della sinistra e cattolicesimo non possano avere fra di loro un ponte, come dimostrato in tempi lontani - era il 1961 - in un pamphlet di mio zio Sevérin Caveri, all'epoca deputato valdostano a Roma, intitolato "Christianisme et socialisme". Ma il comunismo è altra storia e chi lo evoca in modo diretto o in modo sornione oggi deve fare i conti con l'esito della storia e l'infrangersi, una ad una, delle speranze che l'utopia alla fine si realizzasse in qualche modo e da qualche parte. Invece la radice totalitaria sovrasta e annulla il bagaglio di speranze, come i federalisti hanno ben capito, professando una naturale repulsione verso ogni forma totalitaria, senza troppi e tattici distinguo e soprattutto senza fare i predicatori con annessa lezioncina morale.