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20 gen 2012

Il futuro della Lega

di Luciano Caveri

Ho già raccontato più volte del mio rapporto personale con la Lega, di cui conosco - per "colleganza" politica - i maggiori esponenti, cominciando dal leader Umberto Bossi. E' stata un'esperienza interessante assistere alla nascita e allo sviluppo di questo movimento politico, che ha oggettivamente rotto gli equilibri assestati della partitocrazia italia, creando un grande partito territoriale al Nord. Sulla loro genuità e voglia di fare posso essere buon testimone, avendo anche partecipato - nei primi anni - a congressi e incontri del partito dal quale emergeva una sincera adesione ai principi federalisti. La scelta berlusconiana, intervallata da una rottura violenta, ha cambiato profondamente la Lega che da partito di lotta si è trovato partito di Governo, attratto da quelle logiche romane da cui un buon autonomista non si deve mai fare risucchiare.

Oggi la Lega vivacchia in una logica di "opposizione part time", intervallata cioè da fughe in avanti indipendentiste e da bagni freddi di realpolitik per l'asse mai spezzato nel rapporto fra Umberto Bossi e Silvio Berlusconi. Quando il Cavaliere chiama il Senatùr c'è sempre. Ma non è tanto questo movimento ondivago che colpisce, quanto altri due elementi. Il primo è facile da riassumere: avendo avuto un ruolo di forza incredibile, superiore alla rappresentanza parlamentare, come ago della bilancia del centrodestra, la Lega avrebbe dovuto spingere di più sul federalismo, accontentandosi delle briciole del povero "federalismo fiscale". Le ragioni di questo ripiegamento hanno bisogno dei tempi della storia e forse un giorno capiremo perché su questo terreno la Lega non è stata così incisiva come avrebbe potuto essere. Il secondo elemento riguarda gli equilibri interni. L'indiscussa supremazia del "Capo", pericolosa per tutti e lo sappiamo bene anche in Valle, ha trasformato la Lega in un partito personalista e i destini degli esponenti di spicco del partito sono risultati dalle simpatie e antipatie ondivaghe di Bossi. Bastava una frase per concretizzare una maledizione che ha spinto ai margini anche grandi personalità. Oggi il carisma di Bossi si è trasformato: la sua fisicità è mutata per via della malattia e appare evidente di come la sua sia una posizione di transizione per il movimento. Da qui l'ovvio agitarsi dei suoi "colonnelli", perché si sa che le successioni significano spargimento di sangue e rischi ben noti di spaccature. Così appare patologico il bisticcio fra Bossi e Roberto Maroni, uno dei possibili successori, che - annusata l'aria - sta spingendo per evitare che la "corte" di Bossi crei una situazione di staticità nel movimento. Capita, infatti, che i capi si attornino di personaggi vari che badino più ai propri interessi che alle sorti politiche. Così va il mondo. La questione non può lasciare la Valle d'Aosta indifferente. Bossi agli esordi "proteggeva" la Valle, ricordando il legame con l'Union specie nella persona di Bruno Salvadori. Ma poi la necessità di picchiare duro sulle "speciali", scelta miope perché nella specialità vi è l'unico frammento in Italia di federalismo, ha cambiato lo scenario e rotto quel tabù con l'arrivo della Lega in Valle con il refrain, ripreso dalla Lega, dei «ricchi e privilegiati» da combattere. Ma la Lega di Bossi e specie del "dopo Bossi" resterà, qualunque sia la possibile diaspora successiva, una presenza politica da seguire, perché quando si parla del futuro del Nord - fuori dalla rappresentazione ormai caricaturale della Padania - la Valle d'Aosta, pur con le sue dinamiche, non può non esserci.