blog di luciano

La vernice non è politica

L’idea che per attirare l’attenzione su temi nodali per la nostra umanità si scelga ormai troppo spesso la strada di manifestazioni clamorose ci può naturalmente stare. Viviamo in un sistema informativo in cui chi sa gridare forte si fa sentire di più, ma penso che ci siano limiti da non valicare.
Scrive Francesco Bonami sul Foglio con riferimento a chi sceglie di sfregiare i beni culturali con vernici varie: “La domanda che il sindaco Dario Nardella ha fatto all’attivista di Ultima Generazione “Ma che cazzo fai ?!” non è cosi inopportuna e nemmeno è così semplice rispondere. E’ una domanda legittima per la quale non avrebbe dovuto nemmeno scusarsi . E’ d’altronde la stessa domanda che qualcuno avrebbe voluto fare, il 12 marzo del 2001, a quei talebani che con le mine e le cannonate buttarono giù i giganteschi Buddha della Valle di Bamiyan in Afghanistan, scolpiti dentro la montagna fra il sesto e settimo secolo dopo Cristo. Cosa c… stavano facendo e perché lo hanno fatto? Secondo me, non lo avevano ben chiaro né i talebani né i disobbedienti civili o pseudo attivisti . In entrambi i casi c’è e c’era una confusa sproporzione fra azione dimostrativa e risultato finale. I talebani consideravano i Buddha un incitamento all’idolatria, ma nel 2001 di buddisti in Afghanistan non c’era più traccia. Ultima Generazione considera Palazzo Vecchio e altri obiettivi il simbolo di un potere che contribuisce a distruggere il pianeta”.
Sembra una specie di processo imitativo che si espande con una logica perversa di chi la combina in maniera più eclatante. Cosa si pensa di fare da noi? Forse dipingere il Teatro romano o l’Arco d’Augusto ad Aosta? Magari schizzare di vernice il Cervino o coloriamo le acque del Lago blu?
Beffardo Bonami: “Paradossalmente più efficace, magari, sarebbe andare a bucare le gomme a tutte le vetture posteggiate dentro la fabbrica di qualche scuderia automobilistica, ma lì forse non troverebbero quell’emotivo pezzo di pane di Nardella, bensì dei robusti signori addetti alla sicurezza che, prima di sapere le loro motivazioni, probabilmente li riempirebbero di botte assumendosene le conseguenze cliniche e penali. Non voglio certo paragonare i gesti pseudo goliardici di Ultima Generazione alle azioni pseudo criminali dei talebani, la vernice alle cannonate. Desidero però sollevare una questione sul valore delle cose, della realtà e delle persone. Pare che quando chiesero al mullah Omar, leader supremo talebano, il perché della distruzione dei Buddha, lui rispose che quando alcuni archeologi tornarono a offrirgli molti soldi per consentire lo studio e il restauro delle sculture, pensando alle migliaia di afghani che morivano di fame, trovò immorale l’offerta degli archeologi interessati a delle cose inanimate e indifferenti alla vita umana. Ora, se questa fosse stata la vera motivazione, credo che torni complicato dargli del tutto torto. Il gesto iconoclasta mediocre o radicale che sia ci pone davanti a un dilemma, inutile perché irrisolvibile, ma reale”.
Più avanti esempi calzanti: ”Vale di più un ghiacciaio che si scioglie o un palazzo barocco del Borromini? Se per salvare le vite dei migranti che affogano o degli yemeniti che muoiono di fame si dovesse e potesse bruciare un Caravaggio, lo faremmo? E così con tante altre cose il cui valore può essere opinabile. Se un terremoto facesse venire giù Palazzo Vecchio, senza vittime s’intende, se ne potrebbe tirare su un altro, ma il lago che scompare o l’ignota persona che affoga caduta da un barcone non si possono più riportare in vita. L’11 settembre del 2001, cinque mesi dopo i fatti di Bamiyan, vennero giù le Torri Gemelle. Sembrò la fine di tutto e non è finito nulla, se non la vita di migliaia di persone. Questo per dire che a confronto con i veri disastri del pianeta e dell’umanità, terrorismo e attivismo sono, tragicamente e pateticamente, inutili. Fanno quello che fanno senza sapere perché lo fanno. La domanda è: davanti all’inutilità di questi gesti e davanti all’irreversibilità di molte tragedie noi, proprio noi, che c… facciamo?”.
Già, gesti inutili e penso pure nocivi alla “causa”, vista la legittima reazione dell’opinione pubblica in larga maggioranza verso chi sporca i beni culturali per protesta. Per questo tengo per Nardella e non per la segretaria del Pd Elly Schlein, che in TV ha detto dell'imbrattamento della facciata di Palazzo Vecchio: “Al di là del metodo scelto che posso non condividere, non dobbiamo fare l'errore di guardare troppo il dito e non la Luna. Stanno solo chiedendo di ascoltare la scienza”.
Usino altri metodi!

La Svizzera trema

Nell’immaginario collettivo la Svizzera, anche se può essere considerato uno stereotipo, resta il Paese delle banche sicure e tornerò sul punto.
Certo per noi valdostani è ben altro: è e resta uno Stato alpino intriso di quel federalismo che consideriamo il modello politico-istituzionale di riferimento. I padri fondatori della nostra Autonomia lo hanno scritto in tutte le salse.
Ma la storia comune, per via del confine così poroso nel corso dei secoli, ha avuto tappe grandiose. Ne cito due che attraversano il tempo: dalla possibilità cinquecentesca un po’ fumosa di una Valle che scegliesse la Svizzera per il proprio destino, ma rimase con Casa Savoia, al concreto lavoro comune con i fondi Interreg del presente quadro di cooperazione transfrontaliera con la Svizzera.
Certo per noi in più la chiave di lettura è il rapporto amichevole con i vallesani, sia francofoni che germanofoni. Un Santo valdostano in comune, San Bernardo di Aosta, con il simbolo del Colle del Gran San Bernardo e del suo Ospizio. Per non dire del Cervino e del Monte Rosa, compreso il comprensorio Valtournenche-Zermatt con le future progressioni verso Ayas e le terre dei walser. C’è poi la passione per le reines che ci lega, così come il patois e i vitigni antichi.
Vero è che ogni tanto capita di notare in certi amici svizzeri una certa sufficienza, come se il loro modello elvetico fosse il meglio possibile e la comparazione ci vedesse sempre perdenti, anche se viene quasi sempre detto sul filo dell’ironia.
Ecco perché mi incuriosisce la riflessione in corso dopo la botta della crisi del Credit Suisse.
Scrive il direttore del Corriere del Ticino, Paride Pelli: “Lasciamo da parte, solo per un momento, le infinite considerazioni tecniche e le analisi macroeconomiche, finanziarie e manageriali che in questi giorni stanno inondando i media di tutto il mondo e continueranno a farlo. Torniamo invece alla nostra identità, al nostro cuore di svizzeri e di ticinesi, ai nostri ricordi d’infanzia, e diciamoci la verità: quello che è accaduto nelle ultime ore è un inconcepibile disastro. L’unico modo per alleviarlo è che almeno sia di insegnamento per il futuro, anche se qui, purtroppo, si aprono molte incognite. Stiamo parlando - ça va sans dire - della vicenda Credit Suisse, la «compagnia di bandiera» del sistema bancario svizzero, il più elvetico tra tutti gli istituti e uno dei più antichi, certo il più rappresentativo: oggi finito nella polvere, ma c’è chi dice anche nel fango, e non senza qualche ragione”.
E ancora: “Ci vorrà tempo per risalire la china e tornare a guardarci, e a farci guardare, con una certa considerazione. Quando un simbolo nazionale – perché a tutte le latitudini tale era Credit Suisse – collassa in questo modo, non si può far finta che si tratti di una sferzata di vento passeggera che ha fatto crollare un edificio già malmesso di suo. Certo, ci siamo risollevati dal fallimento di Swissair - che era stata per lunghi anni la miglior compagnia aerea al mondo, un esempio da imitare - dal salvataggio in extremis di UBS da parte della Confederazione quindici anni fa e ci risolleveremo anche da questo tracollo grazie alla resilienza tipicamente svizzera”.
Una coraggiosa scelta di autocritica:
“Ma, come si diceva, occorre imparare dagli errori che in questi giorni sono balzati sotto i riflettori. Sui passi falsi di Credit Suisse e la relativa frastagliata storia reputazionale della banca, lasciamo l’incombenza a storici ed economisti. Qui vogliamo parlare degli altri due aspetti: comunicazione e fiducia.  Circa la prima, tutti gli attori privati e istituzionali coinvolti nel naufragio degli ultimi giorni hanno dimostrato, chi più chi meno, di procedere a tentoni in un momento di altissima pressione. Probabilmente pochi si aspettavano uno tsunami simile e non era stata elaborata una strategia comunicativa capace di contenere con mano ferma le derive, non solo speculative, che abbiamo visto. Mai come al giorno d’oggi – un’epoca in cui cospicui patrimoni si possono spostare da una banca all’altra con un click sul telefonino – la comunicazione è anche sostanza. Esempi passati non ne mancano e anziché sperare che alcuni disastri non si ripetano più, sarebbe auspicabile comunicare meglio ai mercati le proprie decisioni, sapendo che ogni onda, in una tempesta del genere, nasconde un potenziale scoglio”.
Gli choc ogni tanto si dimostrano salutari quali occasioni per risvegliare le coscienze.

Benaltrismo e dintorni

Leggo su Twitter - terreno interessante per ricavare delle massime davvero sintetiche - un pensiero fulmineo e faccio un rapido “copia incolla”, perdendomi però nella fretta il nome dell’autore e me ne scuso.
Eccolo: “Oggi il benaltrismo - tecnica ambigua di spostare l’attenzione su qualcosa che a loro dire ‘è ben più grave’ - non sembra solo un disturbo cognitivo - l’incapacità di concentrarsi e analizzare quello specifico fatto - ma ha a che fare con la giustificazione dunque la connivenza”.
Già, è proprio così e la quotidianità c’è lo dimostra persino troppo spesso. Se parli della Russia e della evidente aggressione dell’Ucraina, ecco spuntare il filorusso che se la piglia con la NATO o con gli ucraini nel Donbass. Condanni i rigurgiti neofascisti negazionisti dell’Olocausto e uno annota polemico come la mettiamo con Stalin e i gulag. Critichi l’assistenzialismo nel Sud e spunta la polemica antisabauda dei Borboni buoni. Commenti alcuni risultati di calcio di chissà quale squadra ed ecco spuntare - per me juventino - la solita tiritera sui “frega partite”.
Ancora più preciso sul fenomeno che distorce ogni discussione è Stefano Bartezzaghi: Il "benaltrismo" è quell'atteggiamento che rifiuta di affrontare qualsiasi problema poiché ne trova sempre uno più grosso e importante. L'ipotesi che per ogni problema è sempre possibile trovarne uno più grosso e importante ha basi solo induttive e non può essere verificata: ma di fatto non è mai stato trovato un singolo caso che la smentisse. Che sia introdotto da un "Benaltro" o da un più leggendario "Non dimentichiamoci che" si tratta sempre del passaggio da un palo a una frasca, nei casi più giustificabili, da una pagliuzza a una trave. Se non è un modo per sviare un discorso sgradito, è comunque sintomo di nevrosi, di un eterno decentramento del focus, una bulimia del problematico che si può risolvere solo con ben altro che una battuta di spirito”.
Si fotografa così, in poche frasi, la passività, l’indecisione dell’uomo d’oggi, quando si impantana nelle scelte, rimandando prese di posizione chiare nelle decisione. “Prendere posizione” su questioni puntuali diventa un rimando a problemi diversi, che magari sono affini in una lotta al rialzo che può apparire infinita e diventare - anche se l’espressione immagino sia ormai politicamente scorretta - un dialogo fra sordi.
Ne scriveva con un certo pessimismo Italo Calvino: “Il problema è capirsi. Oppure nessuno può capire nessuno: ogni merlo crede d’aver messo nel fischio un significato fondamentale per lui, ma che solo lui intende; l’altro gli ribatte qualcosa che non ha relazione con quello che lui ha detto; è un dialogo tra sordi, una conversazione senza né capo né coda. Ma i dialoghi umani sono forse qualcosa di diverso?”.
Per questo - per la necessità empatia alla base di un dialogo - personalmente amo la chiarezza e mi fa piacere trovare interlocutori che non cincischiano, dicendo pane e pane e vino al vino quale sia il loro pensiero senza distrazioni o fumisterie.
Lo vedo anche in politica in chi tentenna per non dispiacere e tiene, sinché regge, un piede in due staffe. E questi equilibrismi raggiungono l’apice in chi, proprio per non prendere posizione, rilancia la palla fuori dal campo della discussione, cambiando scenario per non essere puntuale.
Talvolta vien da invidiare chi ha scelto di essere eremita e bisognerebbe fare - ma è ancora possibile? - come Albert Einstein: “Di quando in quando, ora mi ritiro per qualche settimana nella casa d’una tenuta di campagna, tutto solo, cucinandomi quel che mi occorre, come gli eremiti dell’antichità. Così noto con sorpresa quanto è lungo un giorno e quanto vano, perlopiù, l’affaccendarsi alacre e odioso che riempie il nostro tempo”.

Il conto alla rovescia

Destra, Sinistra. La scelta di alleanze ha agitato per mesi la politica valdostana per trovare una maggior stabilità, dopo che l’ala più a sinistra della coalizione aveva dato una prima botta alla maggioranza, abbandonandola. Da alleati sono diventati oppositori in men che non si dica con stupefacente naturalezza.
Infine - in un percorso piuttosto zigzagante - la maggioranza è rimasta in piedi con i cambiamenti ben noti attraverso la coalizione autonomista-progressista, come da definizione giornalistica. Non tutto è stato facile e certi toni con scambi d’accuse varie non hanno certo fatto del bene al clima generale. Oltretutto in un momento nel quale ogni tanto si dovrebbe persino uscire dal perimetro maggioranza-opposizione su temi cruciali.
Purtroppo - ormai la constatazione è evidente - sono troppi i politici di tutti i colori che vivono prevalentemente guardando a qualunque questione nella logica di convenienza elettorale. Certo che i voti sono importanti, ma può capitare di dover assumere scelte impopolari e di dover dire di no a richieste che potrebbero avere un positivo impatto clientelare. Chi fa politica dovrebbe avere la capacità di non pensare solo alle elezioni future e a provvedimenti volanti non strutturali.
Il sistema elettorale per il Consiglio Valle attualmente in vigore, con un premio di maggioranza troppo elevato e la logica assassina causata dalla preferenza unica che insanguina la campagna elettorale in ciascuna lista , non garantisce la stabilità successiva di alleanze preelettorali che consentano di avere maggioranze durature sin dalla partenza delle Legislature. Anche perché- essendo vietato per logica norma costituzionale il vincolo di mandato - c’è chi se ne va altrove con facilità, disgregando le compagini per capriccio, per calcolo o per dissensi veri.
Per cui è normale scegliere quando manca una maggioranza autodafé la situazione ritenuta più confacente per governare con altri, guardando a diversi fattori come i programmi da presentare in comune, la qualità degli eletti che devono farsene carico e anche il loro posizionamento nella politica italiana e aggiungerei europea. Lo slogan “ni droite, ni gauche” è troppo rozzo e rientra in categorie troppo schematiche rispetto alla sfida di un grande partito valdostano che sia al centro della scena.
Ben sapendo che un rafforzato partito territoriale di raccolta, come potrebbe essere l’Union Valdôtaine della réunification, deve per essere incisivo essere in grado di rappresentare diverse posizioni che si cementano per la ricerca di soluzione di problemi concreti e per una corale visione della Valle d’Aosta del presente e del futuro. Così era stato nel 1945 all’atto della sua fondazione e chi si era perso negli anni successivi lo aveva fatto per la polarizzazione DC-PCI che aveva marcato il dopoguerra, causando una diaspora dalla comune area autonomista. Si sono poi aggiungi negli anni più recenti “infiltrati” che volevano solo ottenere qualcosa per i loro interessi e le loro ambizioni.
Altri, come me, lasciarono per insanabili incomprensioni e bisogna che si rispettino quelle scelte senza più tornarci sopra. Ora campeggia la necessità che un movimento di raccolta sappia mantenere un sano pluralismo con regole che garantiscano una convivenza civile e un rispetto reciproco. Senza che i leader del momento - perché questi ci vogliono - schiaccino il dibattito interno e non si impegnino in una logica di dibattito interno fruttuoso alla ricerca di soluzione mediate, quando ci siano legittime posizioni divergenti. Naturalmente ci vogliono per questo una buona volontà e la capacità di ascoltare gli altri e anche di accettare le determinazioni di una maggioranza, quando il punto di equilibrio sia stato trovato in un confronto franco e corretto.
So bene che ci vorrà impegno per riuscirci in un quadro culturale federalista, europeista, che sia ancorato ad un’anima valdostana profonda e consapevole, anche dei necessari cambiamenti.

La festa del Papà

Ci sono date più o meno festive sul calendario, cui è legittimo dare o non dare importanza a seconda delle proprie scelte. Alle cosiddette ”feste comandate”, che sono per il cattolicesimo solennità in cui vige l’obbligo di assistere alla messa e di astenersi dai lavori manuali, ormai si sommano molte occasioni. Qualcuno dirà che sono persino troppe, ma in effetti siamo liberi di scegliere le festività che preferiamo e di scansare le altre.
Oggi, per esempio, è la Festa del Papà, strettamente legata alla figura di San Giuseppe, che per l'appunto dal 1479 si ricorda ogni 19 marzo del calendario gregoriano. Si tratta dunque di qualcosa di molto datato, a differenza - lo dico senza sessismo… - della Festa della Mamma.
Ebbene, so che qualcosa si sta muovendo e mi è giunta all’orecchio di una probabile partita di calcio quest’oggi fra padri e figli, che già fa tremare i miei menischi. Aspetto con curiosità e posso sempre mettere a disposizione l’esperienza dell’età per sedere…in panchina come assai improbabile coach.
Queste feste “familiari” ogni tanto creano problemi ai cultori del politicamente corretto, la cui applicazione fattuale spesso genera mostri, perché si sa dove si comincia e non si sa dove si arriva nelle sue estremizzazioni.
Ne scriveva, giorni fa, sulla sua rubrica sul Corriere Massimo Gramellini: “La preside di una scuola elementare di Viareggio ha cancellato la Festa del Papà per non discriminare i bambini privi di papà. Il movente è nobile, l’esito rovesciato: per non far soffrire i bambini senza padre si fanno soffrire quelli che volevano trascorrere qualche ora in classe con i padri. Si obietterà che la sofferenza dei secondi non è paragonabile a quella dei primi. Però, a forza di eliminare ogni cosa che possa anche solo lontanamente far soffrire qualcuno, si finisce per far soffrire un po’ tutti, e per non lasciare in piedi più nulla. Nessuna festa, opera d’arte, memoria storica. Mi spaventa chi pretende di applicare alla vita quel principio di unanimità che ha ridotto all’immobilismo le istituzioni”.
Già certe discussioni sul bene e il male portano alla paralisi e certe cose scompaiono dalle nostre vite nel nome di un principio che non si è ben capito. L’eguaglianza non è trattare tutti nello stesso modo, ma deve trattare in modo uguale situazioni uguali ed in modo diverso situazioni ragionevolmente diverse.
Ancora Gramellini: “Il mondo è cambiato, dice la preside di Viareggio. Ma non è una buona ragione per sterilizzarlo, trasformandolo in un non-luogo privo di spigoli e sapori. La condizione umana è fin dall’infanzia una mescolanza di piaceri e sofferenze che andrebbe spiegata e accompagnata più che rimossa a colpi di divieti. Quando persi mia madre, la maestra strappò da tutti i sussidiari la pagina che parlava di mamme. Aveva agito per proteggermi, e ancora adesso la purezza delle sue intenzioni mi commuove, però la sofferenza mi aspettava comunque all’uscita da scuola, quando mi ritrovavo a essere l’unico senza una madre ad attenderlo. Un bimbo può partecipare alla Festa del Papà anche se non ha un papà: magari in compagnia di un altro adulto a cui vuole bene. Includere significa aggiungere, non abolire”.
E invece, nella logica della non discriminazione, si creano situazioni artificiali e si cancellano date e situazioni, facendo più il male che il bene. Insomma: ci si mette poco, su di una specie di bilancia del buonsenso, a passare in poco tempo dal politicamente corretto al politicamente scorretto.

Il tormentone del Ponte di Messina

Cominciamo con il dire che personalmente ritengo possibile - anche se il tema mi accompagna da quando ero in fasce - dover riflettere sul famoso Ponte di Messina. Con franchezza dubito si possa ritenerla una priorità con le molte emergenze di strade, autostrade e ferrovie che hanno bisogno di lavori profondi in un’Italia che non brilla per la qualità generale delle proprie infrastrutture nel settore dei trasporti.
Tuttavia ne colgo, perché non vivo sulla Luna, l’aspetto simbolico e propagandistico per chi - come Matteo Salvini - aspiri evidentemente a restare nella storia patria, quanto almeno per ora non mi pare sia avvenuto.
Che sia dalla costa calabrese o da quella siciliana, chiunque sia stato sul posto - e io l’ho fatto - nota che in fondo le rive divise da 3,5 Km del braccio di mare non sono gran cosa. Poi tutto può cambiare se si valutano i rischi sismici: mio nonno era sottoprefetto di Palmi nel 1908, quando il maremoto (oggi si dice tsunami) portò alla distruzione completa delle città di Messina e Reggio Calabria e di altri numerosi centri minori, causando la morte di 100 mila persone. La faglia che causò il sisma è sottomarina ed è ancora purtroppo presente.
Tecnicamente non credo che sia problematica la realizzazione.
Personalmente, ad esempio, ho percorso in treno Il ponte di Øresund, che è appunto una tratta sia stradale che ferroviaria di 15,9 km che collega sul mare le città di Copenaghen (Danimarca) e Malmö (Svezia), realizzata tramite tunnel sottomarino e ponte - congiunti in un'isola artificiale appositamente creata - che attraversano l'omonimo stretto (sund).
Il Ponte di Messina avrebbe un solo precedente, ammesso che sia vero. Strabone scrisse: “Lucio Cecilio Metello radunate a Messina un gran numero di botti vuote, le ha fatte disporre in linea sul mare legate a due a due in maniera che non potessero toccarsi o urtarsi. Sulle botti formò un passaggio di tavole coperte da terra e da altre materie e fissò parapetti di legno ai lati affinché gli elefanti non avessero a cascare in mare”.
Era il 251 a.C., in pieno periodo di guerre puniche, e il collegamento con la Calabria aveva uno scopo pratico. Per celebrare la vittoria contro il comandante cartaginese Lucio Cecilio Metello decide di portare a Roma i pachidermi superstiti, e forse, ed è importante specificare “forse”, lo fa costruendo un ponte di barche fra Sicilia e Calabria,
La storia la raccontano sia il geografo greco Strabone, vissuto dal 63 a.C. al 23 d.C., sia Plinio il Vecchio, nato nel 23 d.C. e morto nel 79 durante l’eruzione del Vesuvio. Quindi potrebbe essere un’invenzione propagandistica priva di reale fondamento.
Carlo Magno ci pensò a sua volta, così come i normanni nella persona di Roberto il Guiscardo, ma mancavano in entrambi i casi le capacità tecniche. Dopo il medioevo saranno i Borbone a pensare di unire la Calabria con la Sicilia, ma fu un nulla di fatto.
Dopo i sovrani spagnoli, si passa alla lista quasi infinita dei tentativi italiani a firma del Ministero dei Lavori Pubblici dal 1866 con spreco di tempo e soldi e progetti vari da prendere fra il serio e il faceto.
Ora si parte addirittura con un decreto legge, che deve basarsi per essere legittimo - e viene da ridere - su requisiti di necessità ed urgenza e dopo secoli ci vuole un certo coraggio per sancire queste sue caratteristiche.
Ma, dopo aver visto Beppe Grillo che attraversò a nuoto il Ponte di Messina, temo che tutto sia possibile.
Anche un altro comico - che non è per fortuna sbarcato in politica e cioè Antonio Albanese - se n’è occupato con il suo Cetto La Qualunque. Nella scena finale del film del 2011 Qualunquemente , dove accenna al ponte sullo Stretto durante un comizio tenuto nei pressi della costa calabrese, dice: “... noi costruiremo un ponte di pilu, con otto corsie di pilu e una corsia di peluche per gli amici! … Noi costruiremo un Paese nuovo, dove è possibile anche avere due mogli, anche non pagare le tasse: un Paese di pilu e cemento armato! E se il Ponte non basta, faremo anche il tunnel, perché un buco mette sempre allegria: qualunquemente”.

Una storia di Giustizia…alpina

L’Italia è indubitabilmente il Paese dei Tribunali delle diverse giurisdizioni che incombono sulle vite nostre e della nostra comunità. Giusto in democrazia, ma talvolta…
Pensiamo al Casino di Saint-Vincent e alle vicende penali che hanno nei diversi decenni stroncato carriere e vite e, in certi casi lontani e più recenti, ci sono infine state sentenze assolutorie o all’acqua di rose di Cassazione e persino chiusure tombali sulle accuse assunte della Corte Costituzionale per mettere ordine e ripristinare tardivamente la verità. Sempre per la casa da gioco c’è una causa civile pendente da 30 anni che appare e scompare senza una sentenza definitiva. Alcune vicende - penso ad una causa delle Ferrovie contro la Regione - interessano cifre enormi e chissà come finirà tra qualche anno. Per non dire di sentenze di diritto del lavoro che pesano sulle casse regionali anche quando il contratto è nazionale e Roma si comporta diversamente da come noi dobbiamo fare forzatamente.
Ne possiamo sorridere rassegnati di questa Giustizia spesso a lungo termine, se la questione interessa gli altri e non noi, la nostra esistenza e i nostri interessi personali.
Non scaverò ulteriormente perché tanto sappiamo tutti come funziona e come si rischi grosso se si finisce nella rete di qualche vicenda, che se finisce comunque a lieto fine, intanto ti stronca. C’è chi controlla in maniera così minuta certe vicende amministrative da causare ormai la tentazione del dolce far niente nel settore pubblico per evitare di finire nel tritacarne e con il portafoglio vuoto già solo per difendersi. Io in cause penali in 65 anni di vita ci sono finito due volte, uscendone lindo come un neonato, ma con preoccupazioni evidenti e costi nelle spese legali, che si potevano evitare con un minimo di buonsenso da parte di chi costruì castelli in aria.
Ecco perché oggi per distrarmi parlo di un caso lieve e non greve, che si svolge - per questo mi stuzzica - in alta montagna. Lo riporta con ironia Il Foglio, con un articolo firmato da Alberto Mattioli, ed è una vicenda che si svolge dall’altra parte delle Alpi.
Ecco l’incipit: ”Alla fine il Trentino ha spezzato le reni al Veneto con l’arma decisiva di ogni contenzioso italiano: il Tar del Lazio. I giudici hanno sentenziato che l’intero ghiacciaio della Marmolada, o quel che ne resta dato che per i ghiacciai sono tempi cupi, rimane nel comune di Canazei, quindi in Trentino, tranne le stazioni della funivia di Punta Rocca e Serauta che appartengono al comune di Rocca Pietore, provincia di Belluno, e quindi sono in Veneto”.
Poi si riavvolge il nastro: “La storia è degna dello Strapaese longanesiano, lunghissima e inutilmente complicata. Riassumendo, tutto inizia nel 1973, quando Canazei iniziò a fare dell’irredentismo chiedendo una rettifica del confine in modo da annettersi tutto il ghiacciaio. Nel 1982, il Consiglio di stato diede ragione ai trentini e Sandro Pertini sancì la rettifica con un decreto presidenziale. Seguirono gli immancabili ricorsi e controricorsi, le polemiche, i mandati del ministero dell’interno al Catasto e all’istituto geografico militare per delimitare il confine una volta per tutte, e perfino, nel 2002, un accordo “internazionale” fra il presidente della regione Veneto, Giancarlo Galan, e quello della provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai, per chiudere amichevolmente la questione. Tutto inutile. Intanto gli immancabili eruditi locali facevano riferimento al verdetto della commissione internazionale che nel 1911 aveva avuto l’incarico di definire il confine fra il Regno d’italia e l’austria-ungheria, lasciati sul vago dopo la guerra del 1866, quando perdendola vincemmo il Veneto. Ma in questa furibonda disputa storicotopografico-amministrativa-campanilista c’era anche chi faceva riferimento ad accordi stipulati fra l’imperatrice e Regina Maria Teresa e la Serenissima Repubblica, giusto per prenderla larga ma senza dover risalire ai tempi del principe vescovo di Trento, dei longobardi, dei romani, dell’uomo delle nevi. Anche Luca Zaia aveva messo le mani nella Marmolada, nel 2018, convocando un Consiglio regionale veneto sul cucuzzolo con gran rinforzo di giornalisti e di bandiere con il leone di San Marco per ribadire che la Marmolada era storicamente veneta e veneta doveva restare (fu comunque una gita divertente, par di ricordare anche con un buon capriolo con la polenta…). E poi la battaglia dei ghiacci è andata ancora avanti, accanitissima e futile. E dire che Voltaire definiva con nonchalance il Canada (tutto quanto, mica una montagna) “pochi arpenti di neve…” “.
Ora l’epilogo: “Adesso la riffa giudiziaria vede vincitore il Trentino, dopo che il Tar ha unificato in un’unica sentenza i due ricorsi opposti che ancora pendevano, quello della Regione Veneto e quello del Comune di Canazei. E ha dato ragione postuma a Pertini, il cui decreto del faustissimo anno 1982, quello di Zoff-gentile-cabrini, sancì i confini che oggi sono confermati. Dalla parte trentina si gode, da quella veneta si piange. Sul Corriere del Veneto, il sindaco di Rocca Pietore, Andrea De Bernardin, protesta tirando in ballo le sacre memorie della Grande guerra, quando ci si batté proprio sulla linea del 1911: “Non mi piace pensare che un decreto, per quanto firmato da un Presidente della Repubblica, abbia più valore del sangue versato su quella frontiera”, e in effetti i trentini allora combattevano dall’altra parte, anche se per la verità furono spediti a farlo in Galizia, contro i russi. Però ai veneti resta il premio di consolazione, le due stazioni della funivia, anche se la pista da sci è del nemico; dunque, si sale in Veneto e si scende in Trentino. Infatti Il Gazzettino patriotticamente titola in prima pagina: “Marmolada, la funivia resta al Veneto”, meglio che niente. E adesso? Posto che un contenzioso che dura da mezzo secolo è durato abbastanza, anche per i tempi biblici della giustizia italiana, e che la sentenza del Tar è definitiva, non resta che l’opzione militare. Ricordate il “tanko” dei serenissimi, la colonna etilica dell’indipendentismo veneto, all’assalto di piazza San Marco? Zaia lo spedisca a occupare la Marmolada, e facciamola finita”.
Si sorride amaro e viene in mente il contenzioso sulla cima del Monte Bianco con la Francia che rivendica quanto indubitabilmente si trova, per antichi trattati, in territorio valdostano. Ma se ne occupano le diplomazie dei rispettivi Paesi, che dormono sonni tranquilli e noi - che consideriamo il Bianco europeo - anche!

La realtà parallela

Non c’è niente di male, anzi è politicamente salutare, occuparsi del radicalismo assoluto e dell’estremismo ideologico. Nel farlo, indosso la corazza, perché quando si trattano certi argomenti vale quel “chi tocca muore”, che campeggia sui pali degli elettrodotti, perché si sa già di irritare chi reagisce normalmente in modo vivace alle critiche, se non sono le sue verso gli altri.
Esiste una Sinistra estrema che scrive e si agita su qualunque argomento, facendosi più grande di quella che è (sia chiaro - lo dico per par condicio - che lo fanno anche all’estrema destra, come se fossero gemelli eterozigoti).
Moltiplicano le truppe in comitati e comitatini vari, come scatole cinesi, per la semplice constatazione che le persone sono sempre le stesse che ruotano, come i famosi aerei di Mussolini che volavano di aeroporto in aeroporto per improbabili prove muscolari. Nulla sfugge al radar polemico, che è sempre acceso e in certi casi con maniacale presenza su certi temi grazie ad ossessioni ideologiche che puntano il bersaglio senza pietà e riposo. Un senso del dovere quasi religioso con una partecipazione attiva e un attivismo politico che è una missione e l’avversario resta sempre un nemico da combattere e, se possibile, da abbattere.
Sia chiaro - visto che rischio comunicato stampa e vignette in cui appaio brutto e cattivo - che è tutto legittimo e lo stile dei vecchi gruppi extraparlamentari fa scuola e non demorde con un movimentismo âgé sempre efficace H24 e con sprezzo del pericolo e spesso del ridicolo.
Quel che è insopportabile è che si sentono sempre i migliori e le loro idee sono inossidabili, considerando gli altri scarsi e stupidotti e perennemente processati da chi - loro e il loro “collettivo” - ne sa di più come fossero avvolti da una sorta di infallibilità papale.
Mi è capitato di discutere, mettendomi di buzzo buono, con qualcuno di loro. Tempo perso: il Verbo è con loro e come dischi rotti tornano sempre sullo stesso punto con invidiabile pervicacia. Vanno per questo persino bene ammirati per la tempra e molti di loro sono davvero militanti di vecchissimo stampo, eppure sempre pronti a sbattersi con impegno e senza temere il peso delle età e talvolta di passaggi politici non del tutto coerenti. Ma la loro miglior difesa resta l’attacco: gli autonomisti sono quelli più nel mirino e sottoposti come tali a processi etici e a lezioncine morali sempre con quello stesso birignao della prof saccente che ti legge la vita più che insegnarti. Credo che si debba sorridere di tanto anacronismo e di queste “certezze” in politica.
Un pensiero di Hannah Arendt: ”Le ideologie ritengono che una sola idea basti a spiegare ogni cosa nello svolgimento dalla premessa, e che nessuna esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in questo processo coerente di deduzione logica”.
Invece, è proprio il dialogo che serve ad alimentare non le proprie convinzioni, che giustamente fanno parte del proprio patrimonio e nessuno deve discuterle, ma non deve esistere nulla di intangibile di fronte a idee e ad argomentazioni diverse o persino avverse che possano alimentare un confronto ad armi pari.
Per cui, alla fine, questo considerarsi migliori, atteggiarsi a depositari della verità e irridere agli avversari è niente altro che un modo grottesco di affrontare le cose e non porta neppure bene a chi vive in fondo in una realtà parallela tutta sua.
I pifferai in certi casi incantano ancora e chi li segue giocoforza ragiona di conseguenza.

Quanto necessario

In questi giorni si riflette seriamente per capire come rendere unitario e comune il futuro del mondo politico autonomista.
Bisognerà evitare che si tratti di un procedimento a freddo con la facile critica che si faccia una scelta solo ai vertici e non con le “basi”. Sembra l’antico interrogativo se sia nata prima l’uovo o prima la gallina. Contano i fatti e le volontà dall’alto e dal basso senza distinzioni e con quell’oggetto misterioso che è la famosa onestà intellettuale. Ricordo a me stesso che si intende con questa definizione - come base per qualunque discusso, compresa questa - l’atteggiamento di correttezza e lealtà che caratterizza chi riconosce, senza farsi condizionare da pregiudizi soggettivi o di parte, la consistenza reale di un’idea. Così si avanza senza ostacoli con soddisfazione di tutti.
Credo che sia giusto dieci la verità: il vero problema, dato per assodato che bisognerà fare un percorso e non un blitz, è che viviamo in un clima di distacco dalla politica che picchia duro anche in Valle d’Aosta.
Quindi giusto organizzarsi in logiche interne per giungere ad un buon risultato con un primo passaggio il 18 maggio data della morte di Émile Chanoux come omaggio alla sua figura cardine, da cui nacque in seguito l’Union Valdôtaine. Altrettanto necessario è però spiegarne lungo tutto il percorso, compreso quello successivo, le ragioni profonde che non è solo mettersi assieme l’esistente, ma offrire un programma di lavoro e una visione politica per il futuro.
Non si deve essere - come già accennavo - prigionieri del passato e non si può pensare di non adeguare progetti le valori ad una società valdostana in rapida mutazione e bisogna farlo senza rinnegare la storia e anche le personalità che l’hanno costruita.
Questo non significa dunque una
rimozione dei passaggi avvenuti in questi anni nel mondo autonomista, avendo però la consapevolezza che quanto avvenuto dev’essere superato e averne memoria non può significare rinvangare sempre le ragioni degli uni e degli altri.
Guardare avanti non significa smentire sé stessi e le proprie scelte, vuol dire semmai avere coscienza di un interesse superiore, che è quello dell’unità senza rancori e anche senza pregiudizi. Sono stufo di dietrologie, di arrières pensées, di previsioni funeste e tutto l’armamentario di chi vive un processo di riavvicinamento senza serenità e mente aperta. Ed è, invece, quanto necessario.

L’abbraccio, senza esagerare

Durante la pandemia ci si salutava tipo “Augh!”. Avete presente? Si tratta di un noto falso: sarebbe stata la parola di saluto attribuita ai nativi americani del Nord America, in genere accompagnata da un gesto con la mano alzata e il palmo rivolto in avanti. Ciò non corrisponde a una reale abitudine dei nativi, ma se lo sono inventati nei fumetti e nei western.
Oppure i più sviluppati adoperavano un timido e sfiorante pugnetto (nulla a che fare con il suo femminile).
Scappare dalla stretta di mano era di prammatica e le poche volte in cui mi azzardai a farlo fui vittima di ovvie rampogne. Colpiva molto, quando si incontravano persone in Francia e Svizzera, la fine della “bise” (bacetto con abbraccio sulle guance con versione a due o a tre).
Ora, chi segue le mode e l’evoluzione dei costumi, nota un cambio di marcia proprio in Italia dove l’abbraccio e eventuale bacio erano da sfera familiare o poco più.
Come mai? Mah, scovo un articolo sul Foglio che forse offre almeno una delle spiegazioni possibili e cioè l’influenza televisiva sui nostri comportamenti.
Scrivere Stefano Pistolini: “Ma quale austera stretta di mano…! E’ tutto un vieni qua, fatti stringere forte! Italia, terra di generosi abbracciatori. Prima mica era così, eravamo più riservati. Gli abbracci, quelli veri, erano riservati a occasioni straordinarie, un reincontro, un addio, un festeggiamento, perfino un cordoglio, era una cosa più privata, pudica. Invece da qualche tempo pare ci si abbracci come se non ci fosse un domani – ovviamente parliamo della metarealtà nella televisione pop d’ultimo (penultimo) modello, insomma i reality, i talent, i grandi eventi, tutto ciò che è governato dall’occhiuta direzione del famigerato pool di autori, flagellato dal problema di chiudere degnamente i segmenti delle loro torrenziali produzioni. E’ in questa rabberciata gouache delle emozioni italiane, che poco alla volta, irresistibilmente, s’è fatto largo l’abbraccio”.
Una novità che avvenga in maniera così torrentizia. Annota l’autore dell’articolo: “Prima non ci abbracciava mica così tanto davanti alle telecamere, se non a centro campo tornando dal gol, nel volta-pagina trionfale della passione sportiva. Ma l’abbraccio forte, ambosessi, possente, insistito, privo di implicazioni erotiche, quell’esibito bisogno di “sentirsi” non si vedeva mai, era roba da paisà, da carrambata, da melò, un’eccezionalità. Poi qualcuno nelle stanze di scrittura ha capito che il gesto aveva una sua cadenza funzionale, faceva minutaggio e si attagliava al nuovo trend: la cavalleresca competizione praticamente su tutto, ma sempre nel ritrovato orgoglio d’essere italiani prima e sentimentali subito dopo”. Infine: “Morale: l’abbraccio fa scena, ci fa sentire buoni, conferma che mica stiamo perdendo tempo a vedere quella rappresentazione nella quale tutti si commuovono – e io chi sono per restare con gli occhi asciutti? Del resto è di queste ore l’annuncio della scoperta di una fantascientifica pelle elettronica che presto ci permetterà di abbracciarci a distanza, una misteriosa materia morbida in grado di rilevare la tattilità bidirezionale, addirittura tra più utenti (riecco l’abbraccio di gruppo da finalisti del food show). E’ una creazione del dipartimento d’ingegneria biomedica dell’università di Hong Kong grazie al quale le braccia di Gianni Morandi non cingeranno più solo un pari grado, ma si spingeranno magicamente fino a noi, includendoci nella intimità da abbonamento. La frontiera con la celebrità si assottiglierà ancora di più, arriveremo a palpeggiarla, in attesa che il metaverso ci offra valide alternative valide alla squallida realtà quotidiana”.
Possiamo scherzarci, ma suona quasi come una tetra profezia. Ormai mi sono convinto che questi nuovi orizzonti apriranno scenari inquietanti di un modo sempre più smaterializzato. Ha detto lo psichiatra Tonino Cantelmi: “ Siamo sempre più connessi, più informati, più stimolati ma esistenzialmente sempre più soli”. Godiamoci, intanto, gli abbracci in carne ed ossa.

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