blog di luciano

In Russia c’è una dittatura

Leggo spesso su Il Foglio Quotidiano le analisi acute e mai banali di Luciano Capone.
Prima di riferire di sue recenti riflessioni, vorrei proporre un mio primo pensiero sui filorussi, che sono ormai una pletora di varia coloritura e posizione. Ci sono di certo dei prezzolati, ce ne sono che ammirano Putin perché dittatore, ci sono gli antiamericani, certi comunisti d’antan e quelli che amano essere anticonformisti. Poi ci sono i cretini, spiace scriverlo, ma certe persone - che non sono troll russi che agiscono per ovvie ragioni - vanno catalogate così senza intento offensivo, ma come banale constatazione di una posizione legittima, certo, ma insostenibile se si applica un minimo di logica.
Ma il focus di Capone riguarda il mondo del pacifismo, anch’esso una compagnia di giro con varie sfaccettature, e talvolta dallo sguardo strabico.
Così spiega: ”Questo terrore è iniziato con processi farsa di oppositori politici e dissidenti, e si è concluso con esecuzioni di massa e imprigionamento di comuni cittadini, compresi coloro che hanno accolto con favore i primi processi farsa”, prosegue l’appello sottoscritto per chiedere la liberazione di Vladimir KaraMurza. Il dissidente russo – ex collaboratore di Boris Nemtsov, l’oppositore liberale di Putin ucciso nel 2015 – è stato arrestato e rischia 25 anni di carcere. La colpa di Karamurza è, in sostanza, di essere un pacifista. L’attivista, che in passato è sopravvissuto a due avvelenamenti probabilmente dalla stessa squadra dell’fsb accusata di aver avvelenato Alexei Navalny, è accusato di “diffusione di informazioni false sull’esercito” e “tradimento”: nel primo caso per essersi opposto all’invasione dell’ucraina, e questo in Russia è un reato; nel secondo per aver parlato in forum internazionali condannando la guerra e la persecuzione dei dissidenti da parte del regime, e questo è un reato gravissimo. Tanto che se la richiesta dal pubblico ministero verrà accettata, Kara-murza dovrà scontare una pena superiore a quella inflitta agli esecutori materiali dell’assassinio di Nemtsov”.
Chiara l’antifona? Fra veleni, cadute dall’alto con schianto, prigione senza fine e ogni altra raffinatezza da totalitarismo è questo il volto della Russia putiniana e chi non guarda la realtà è ormai in malafede.
Spiega Capone: “In una situazione analoga si trova il reporter del Wall Street Journal Evan Gershkovich, il primo giornalista americano arrestato in Russia con l’accusa di spionaggio dalla fine della Guerra fredda, che rischia 20 anni di prigione. Il reporter ovviamente respinge l’accusa di aver operato come una “spia” per raccogliere informazioni sull’industria militare russa: stava semplicemente svolgendo il suo lavoro, che è certamente quello di raccogliere informazioni, nello specifico sulla compagnia militare Wagner, ma per informare l’opinione pubblica sulla guerra. Ma anche questo non si può. Perché il giornalismo indipendente e la libertà d’opinione, che nelle nostre democrazie sono diritti, nella Russia di Putin sono crimini. In questo senso le vite parallele di Karamurza e Gershkovich, un russo e un americano, fanno parte di un’ondata di repressione del pacifismo molto più ampia: 3.800 persone sono state perseguite per essersi espresse contro la guerra e circa 250 stanno affrontando processi penali”
Orrori, naturalmente, cui certi pacifisti, a mia conoscenza senza grandi eccezioni, non reagiscono e lo ricorda lo stesso giornalista: "Ma i casi Karamurza e Gershkovich sono rivelatori anche di qualcosa che non funziona da noi. Il mondo pacifista italiano ha reagito a questi arresti con freddezza e disinteresse: niente appelli, nessun sit-in davanti all’ambasciata russa, neppure un hashtag. Forse il disinteresse alla sorte di centinaia di cittadini, dissidenti, giornalisti e politici di opposizione che che sono detenuti o processati per aver praticato il pacifismo dove il prezzo da pagare è molto elevato per davvero, e non per posa, è dovuto al fatto che dalle nostre parti c’è la percezione che, in fondo, questi dissidenti siano realmente prezzolati dall’occidente, legittimando indirettamente le argomentazioni di Putin contro i traditori e rafforzando lo stereotipo dell’incompatibilità dei russi con i movimenti democratici e liberali. O forse, più semplicemente, non c’è spazio per impegnarsi a favore dei pacifisti che lottano pacificamente contro Putin in Russia perché le energie dei nostri pacifisti sono tutte concentrate contro i nostri governanti per convincerli a fermare l’invio di armi all’Ucraina, togliendole la capacità di difendersi, per giungere così alla pace”.
Questo pacifismo imbelle verso il dittatore e schierato contro la vittima dell’imperialismo russo lascia attoniti e Capone così chiude: “In mezzo a tanto idealismo, è sicuramente un atteggiamento molto realista che riconosce come far cambiare idea a un governo democratico sia molto più semplice che far tornare sui suoi passi una dittatura che invade un paese vicino, massacra la sua popolazione e rapisce i suoi bambini. Probabilmente nessuna mobilitazione sarebbe in grado di aiutare i pacifisti che incoscientemente manifestano a Mosca e di far liberare i prigionieri politici russi, e il fatto che non ci sia alcuna iniziativa in tal senso è sintomatico di quanto gli stessi pacifisti credano poco nell’efficacia dei loro metodi nel condizionare le decisioni del regime di Putin. Ma se il realismo deve prevalere sull’idealismo, bisogna riconoscere che se oltre alla resistenza armata si rinuncia anche a quella nonviolenta, non rimane che la resa. Basta dirlo chiaramente: agli italiani, agli ucraini e anche i russi”.
Non a caso quest’anno la nostra Festa dell’Europa sarà dedicata all’Ucraina. Per non arrendersi alla controinformazione.

Le auto della vita

Chissà cosa mi è passato per la testa, ma mi sono messo a lambiccare sulle macchine della mia vita. Capita che ogni tanto uno apra delle pagine della propria esistenza su cui non aveva mai fatto mente locale.
Per altro mi sento di aggiungere che a poche generazioni è capitato di vivere cambiamenti tecnologici così impressionanti, com’è avvenuto nel dopoguerra ed ancora oggi. Per non restare indietro, bisogna evitare atteggiamenti conservatori e mettersi di buzzo buono rispetto a qualunque novità.
Da quando esiste la motorizzazione come fenomeno sociale è indubbio come l’auto sia una nostra compagna di vita, che scegliamo con grande attenzione e con cui condividiamo così tanto tempo da sentirla come una parte di noi. Anche se poi siamo infedeli, quand’è il momento di cambiarla.
In realtà sono partito, cercando di ricostruire quali macchine abbia avuto mio papà, trovando anche delle vecchie foto di chissà quale tipo di gara cui partecipò, ma non ne sono venuto a capo.
Apro parentesi: nella casa dei miei genitori esiste un cassettone di foto della loro e anche della mia vita. Non so, congiuntamente con mio fratello cosa ne faremo, perché in certi casi sono foto di cui non so neppure chi siano i ritratti e quali siano i luoghi. Buttarle via mi parrebbe un sacrilegio, ma prima o poi qualcuno lo farà. Chiusa parentesi.
Un amico che sta facendo ricerche sugli albori dell’auto in Valle d’Aosta mi ha detto che mio papà ebbe come prima auto - così dicono i documenti - una Topolino, che essendo stata in produzione sino al 1955 (papà era del 1923) mi pare del tutto fondato. Poi ricordo vagamente che in casa spuntò (io sono del 1958) una Ford Anglia, vetturetta inglese di cui un solo modello venne venduto nel resto d’Europa, la 105E, dunque immagino fosse stata quella. Poi, così mi dice mio fratello più vecchio di cinque anni rispetto a me, arrivò un’altra Ford, la Consul, di cui non so nulla, se non che - o con questa o con l’auto precedente già citata - ho un flash di un d’incidente stradale in cui seduto dietro e papà, forse per evitare un trattore, uscì di strada e l’auto si rovesciò senza conseguenze gravi.
Il resto mi pare sia stata una scelta che giustificò la presenza in casa di due garage: il garagino che conteneva la 500 auto di lavoro del papà veterinario che duravano pochi anni per il loro gran uso (le più belle erano le Abarth, che usai pure io, presa la patente); c’era poi il garage dove giaceva l’auto “di lusso” per grandi occasioni, che furono una serie di Giulia super di diverso colore e con una di queste provai in autostrada la prima ebbrezza della velocità.
Da parte mia ebbi nel 1977 una A112 grigia metallizzata, cui seguirono poi delle Golf, una Passat, Audi e infine Volvo. Dapprima auto da single (quindi anche alcova…) e poi - sposato con figli - macchine per spostamenti, non avendo mai avuto difficoltà, anzi il piacere, nel guidare anche su lunghe percorrenze.
Certo sono impressionato dal cambiamento della tecnica rispetto a certi modelli del passato e, senza indulgere a nostalgie, mi capita di osservare quanto siamo vittime di un’elettronica che inquieta per chi ha vissuto auto del tutto meccaniche. Ma il senso di libertà di diventare proprietario della prima auto, preceduta dal motorino e poi da una Vespa, resta uno di quei piaceri che non si dimenticano.

L’orso come simbolo d’incomprensione

Ho seguito con orrore, avendo scritto più volte sul tema, la vicenda dell’orso che ha sbranato un povero ragazzo trentino appassionato di montagna, che ha avuto il solo torto di farsi una corsa su di una strada vicina a casa sua.
Il caso vuole che sull’espansione dell’orso, non molto tempo fa, scrissi quanto ripubblico, dopo l’ennesima aggressione: “Oggi ci sono in Trentino un centinaio di orsi e secondo la Provincia negli ultimi 5 anni c’è stato un trend di crescita annuo medio pari al 12% della consistenza della popolazione. Nel 1999, per salvare il piccolo nucleo di orsi sopravvissuti da un’ormai inevitabile estinzione, il Parco Adamello Brenta con la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica, usufruendo di un finanziamento dell’Unione Europea, ha dato avvio al progetto europeo - anche in questo caso! - Life Ursus, finalizzato alla ricostituzione di un nucleo vitale di orsi nelle Alpi Centrali tramite il rilascio di alcuni individui provenienti dalla Slovenia. Grandi studi per spiegare la convivenza facile, peccato i tassi di riproduzione che sono quelli già descritti e che l’orso, con questo trend, come avvenuto con il lupo, tornerà piano piano su tutte le Alpi. Scelta nobile, ma sarebbe bene capire se l’espansione sarà - come sta capitando con il lupo - infinita”.
Scappatoci il primo morto, ho pubblicato questo Twitter: “Trentino, tracce di sangue e di lotta nel bosco: è stato un orso a uccidere il runner. Si è atteso troppo a Roma, malgrado le richieste delle Province autonome, per capire la pericolosità di un eccesso di certi predatori in zone alpine popolate!”.
Cui ne è seguito un secondo: “Trovo incredibile che un etologo sul Corriere, commentando la morte di un giovane sportivo ucciso da un orso in Trentino, sostenga “bisogna imparare ad avere rispetto”.
Naturalmente dell’orso, non del runner che correva in montagna.”.
Infine ho scritto: ”La conferma dall'autopsia: il giovane Andrea Papi è stato ucciso da un orso - Per chi pensava ad un infarto del runner nella logica da cartone animato di Yoghi e Bubu”.
Pubblico ora alcune reazioni a quanto ho scritto, credo con equilibrio ed educazione.
Cominciamo con questo signorile interlocutore: “E allora cosa facciamo? Li abbattiamo tutti così che 4 pirla possano andare a correre nei boschi? Ma brutto Minus habens ti è emigrato anche il mononeurone?”.
Ecco lo scettico iniziale: “Se è vero che gli attacchi letali di orsi all'uomo sono stati 4 in 150 anni (4 in 150 anni!!!), non potrebbe essere andata diversamente, per esempio che il povero runner abbia avuto un infarto e solo dopo un animale selvatico (orso o altro) abbia infierito? Aspetterei a parlare..”.
Gli risponde un interlocutore più informato: ”Solo in Romania dal 2000 al 2015 si sono registrare 11 vittime da orso, altro che 5 in 150anni in Europa! Storpiare così i dati è dolo infame”.
C’è chi la butta in politica, dandomi del destrorso. L’orso è evidentemente considerato di sinistra: “Trovo incredibile che gli esponenti dei partiti di destra che odiano la fauna selvatica sparino sentenze prima dell'accertamento dei fatti”.
Avanti con l’animalista filosofo: “Noi esseri umani siamo antropocentrici, rubiamo spazio alle altre specie cementificando e creando aree agricole. Entriamo nell’area (piccola) di un animale, lo spaventiamo perché non siamo in grado di gestirlo, lui giustamente reagisce e noi lo uccidiamo”.
Ecco un altro genio: “Quindi quale è la sua soluzione? Sterminare gli orsi?
Ed invece per tutti i runner uccisi dalle macchine ogni giorno cosa vuole fare?”.
Non male anche il benaltrista: “Propongo lo sterminio di tutte le vipere che con i circa 150 morsi all'anno provocano in media un decesso/anno ed anche la distruzione di tutte le api/zanzare/calabroni/vespe che in media uccidoni 10-20 persone ogni anno”.
L’insultante con variante dialettale: “Beh si l'orso d'altronde è un essere senziente, l'orso può capire che se trova un runner lo deve lasciare ij pace. A lucià sei un genio”.
Il comprensivo: “È stato ucciso dall'orso è accertato. Gli orsi fanno gli orsi, non ci si può aspettare che facciano le mammole. Noi dobbiamo poterci difendere e forse stare più attenti ad uscire da soli”.
Dalla parte dell’orso e non del morto: “Tra i due quello fuori posto era il runner non certo l'orso. Da sempre nei boschi ci sono animali selvatici. Come dire che per evitare che un sub incontri degli squali durante una nuotata sarebbe meglio ucciderli tutti. Giusto fare delle aree protette per gli animali selvatici”.
Pubblico una replica che lo ha stecchito: “Guarda che nei boschi del trentino l'orso è stato introdotto 20 anni fa. Facciamo che dove vai tu al mare introduciamo lo squalo ....”.
E un altro ricorda: “Civiltà significava sicurezza dalle bestie feroci. Adesso si capovolge il concetto”.
Concludo con chi, per difendere l’orso, la butta sul sociologico: “Vatti a fare un giro in Trentino non in vacanza e vedrai che bella gente che gira.....”.
Veramente il top della stupidità: la colpa sarebbe del popolo Trentino!
Trovo poi in queste ore la perla di un vero e proprio deficiente: ”C'è il dna del peloso delinquente più volte denunciato per molestie sessuali e vilipendio. Un vicino di albero: "Negli ultimi tempi odiava i salutisti". Spunta intanto la pista anarchica. E il questore rivela: "L'orso cerca il miele, ma non solo" “.
Non ho parole, fa pure lo spiritoso ed è solo la punta di un iceberg di chi, incolto e distante dal conoscere le montagne, considera i montanari degli intrusi. È una storia triste ma significativa del l’abisso creatosi fra la montagna e la pianura, specie con le grandi città. In troppi - con punte fra animalisti ignoranti e ambientalisti integralisti - concepiscono la montagna come un loro parco di divertimento con i montanari come semplici figuranti, se non inutili presenze rispetto all’idea balzana di una natura “selvaggia”. Stupidaggine che fa il pari con chi critica la “visione del mondo antropocentrica”, svilendo noi esseri umani come se dovessimo farci comandare da orsi, lupi, tassi, marmotte o chissà chi altro e ciò avviene nel mondo incantato ma fittizio dei cartoni della Disney. Il mondo animale è crudele e competitivo, farne la culla del candore e della bontà è una falsificazione tutta umana.

Auguri di cioccolato/a

Intanto, Buona Pasqua!
Non conosco l’identità di chi frequenta questo mio Blog Ma negli anni ho incontrato molte persone che lo leggono e questo mi fa piacere. Accomuno tutti in un pensiero affettuoso. Non so se sia la primavera in sé o chissà cos’altro, quel che certo è che questa festività, pur mobile sul calendario, è per tutti e comunque la si interpreti un momento per tirare il fiato rispetto agli affanni quotidiani. Per cui mi adeguo e userò lo spazio intanto
per la descrizione di queste mie prime ore.
Quando un’abitudine si installa nella vita diventa una tradizione. E così avviene anche oggi al risveglio con le uova. Nelle settimane precedenti si accumulano o per acquisto o per regalo un certo numero di uova di Pasqua, che - a differenza della mia infanzia, quando c’erano solo cioccolato al latte e quello amaro - diventano l’attrazione cui dedicarsi, fatta ormai di diverse varianti di gusti, frutto dell’’ingegno dei maîtres chocolatiers.
Ebbene, a casa nostra si mettono uova sul tavolo, pronte al sacrificio e spogliate del loro involucro (ormai usato per celare taglie piccole delle uova, risparmiando sul cioccolato), e poi si procede alla loro sopressione con scorpacciata. Ma di cosa? Cioccolato o cioccolata?
Così scrive Matilde Paoli dell’Accademia della Crusca: “Del problema dell'oscillazione con cui è reso in italiano il termine di origine amerindia (nahuatl chocolatl), giunto in Europa tramite lo spagnolo chocolate, si è occupato Bruno Migliorini in un saggio datato 1940 dal titolo Cioccolata o cioccolato? (Profili di parole, Firenze, Le Monnier 1968, pp. 46-56). A cioccolate, forma introdotta da Francesco Carletti nei primissimi anni del Seicento e confermata nel 1620 dal Vocabolario italiano e spagnolo di Lorenzo Franciosini, si affiancavano cioccolatte, cioccolata e cioccolato già prima della fine del secolo: nella terza edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1691) si registra la voce cioccolate con la glossa "Dicesi anche più volgarmente cioccolata" e alla voce ingrediente compare cioccolatte in una citazione da Esperienze intorno a diverse cose naturali di Francesco Redi.
Più avanti: “Solo nel corso del Novecento ci si avvia verso una semplificazione che, a livello dialettale, si risolve rapidamente nella riduzione a un unico termine: "Il Piemonte e il Veneto, l'Emilia e la Toscana, Roma, Napoli, la Sicilia hanno optato per il tipo cioccolata, o per una forma dissimilata plebea che non è mai giunta all'uso scritto, ciccolata. Invece la Lombardia ha preferito il tipo cioccolato; la Sardegna, infine, il tipo cioccolate" (Migliorini, Ibid. p. 54)”.
Questo dotto Migliorini concludeva il suo saggio con una previsione: "Si tenga presente la diffusione grandissima, in quasi tutta l'Italia, della forma cioccolata per la bevanda; e si veda d'altro lato con quale uniformità gl'industriali usino la forma cioccolato per il preparato in tavolette: negli avvisi pubblicitari si legge quasi costantemente cioccolato. L'uso delle due forme è storicamente giustificatissimo, e d'altra parte la differenza fra cioccolata in tazza e cioccolato in tavolette (o in polvere) è funzionalmente utile; la diffusione che essa ormai ha nel campo industriale ci fa credere che sia destinata a imporsi generalmente".
Insomma: la cioccolata sarebbe più bevanda, ma se parliamo in giro mi pare che la confusione resti.
L’autrice della Crusca cita questa realtà: “Tullio de Mauro, edizione 2007, cioccolata e cioccolato, entrambi termini di alto uso, sono sostanzialmente sinonimi, sia come sostantivi, col valore di 'alimento costituito da una miscela di cacao e zucchero, con eventuale aggiunta di aromi, essenze o altre sostanze che viene venduto in polvere o sotto forma di tavolette, cioccolatini', sia come aggettivi invariabili nell'accezione 'di colore bruno scuro'; ma la differenza rilevata sul piano del rapporto con altri elementi lessicali e cioè l'esclusività del sintagma cioccolata calda da un lato e di cioccolato fondente, al latte, bianco dall'altro".
Siete frastornati: direi che ci si può come consolazione dedicare all’uovo e sperare nella sorpresa, che ha il marchio sabaudo.
Torino fu la prima città d'Italia in cui arrivò il cioccolato nel '500 portato dalla spagnola duchessa Caterina, moglie del duca Emanuele Filiberto di Savoia, dopo la scoperta dell'America. Sempre a Torino ad inizio '900 venne brevettata la produzione seriale delle uova di Pasqua di cioccolato grazie ai pasticceri di Casa Sartorio che idearono uno stampo a cerniera chiuso che, messo in un'apposita macchina capace di ruotare velocemente, poteva distribuire il cioccolato uniformemente creando due mezze uova complementari che, una volta raffreddate, potevano essere decorate a piacere prima di essere assemblate creando il vero e proprio uovo di Pasqua. Questo consentiva anche di inserire nell'uovo una sorpresa, usanza che si diffuse molto velocemente fino al boom dal dopoguerra in poi.
La sorpresa mi riporta allo stupore dell'infanzia. La parola "sorpresa" (dal francese "surprendre, cogliere inaspettatamente" e quindi "meravigliare") sorprende! E' infatti una parola come un Giano bifronte, per cui si può fare una sorpresa e la si può ricevere e ormai mi pare che la usiamo più nelle accezioni positive che in quelle negative (la triste "brutta sorpresa").
Oggi dedichiamoci alla sorpresa…buona!

Cercare la speranza

“Rien ne va plus”. È questa l’espressione costituita dalla parte finale della formula usata dal croupier per regolare i tempi nel gioco della roulette. In quel momento non si può più fare nessuna puntata, perché la pallina ha cominciato a girare vorticosamente in attesa di depositarsi, segnando il destino fortunato o sfortunato del giocatore. Anche in italiano, in senso figurato, la si usa per significare che quel che è stato è stato, e ormai non c’è più nulla da fare.
Ci si può scherzare sul gioco d’azzardo e soprattutto ci si può sbizzarrire sulla natura umana che insegue il sogno della vincita e le emozioni che si ricavano nel tentare la fortuna.
Nella mitologia greca, Tiche o Tyche è la divinità tutelare della fortuna, della prosperità e del destino di una città o di uno Stato. Originariamente la Dea greca distribuiva gioia o dolore secondo il giusto, poi scandalizzata dall'ingiustizia dei mortali li abbandonò ritirandosi sull'Olimpo.
Tiche era considerata una delle Oceanine, figlie del titano Oceano e della titanide Teti. In altre versioni è la figlia di Ermes ed Afrodite. Nell'arte medievale la Dea è raffigurata con una cornucopia e con la ruota della fortuna.
La cornucòpia, letteralmente corno dell'abbondanza, dal latino cornu («corno») e copia («abbondanza»), è un simbolo mitologico di cibo e abbondanza. Mentre nella tradizione antica e medievale, la ruota della fortuna (in latino, Rota Fortunae) era un motivo iconografico e un simbolo della imprevedibilità delle vicende umane.
Questa storia del destino, in fondo è argomento, enorme e piccino nello stesso tempo. Le vicende umane segnano le epoche con avvenimenti di immensa portata che segnano nel bene e nel male intere generazioni e le loro vite. Lo stesso vale per i singoli e le loro famiglie scosse in positivo o in negativi da eventi che segnano esistenze. Non sempre trovare un filo logico è facile a fronte di imprevedibilità, cui spesso - ad esempio nella Storia - si cerca con facilità di dare un senso a fatti avvenuti.
Nascono le religioni per dare un senso, a seconda delle impostazioni, a questa nostra vita con sistemi più o meno sanzionatori per inquadrare le nostre vite e dare senso a certi saliscendi che colpiscono noi e le nostre comunità.
E il messaggio potente che io intravvedo nella Pasqua - e cioè per i cristiani la festa che celebra la resurrezione di Gesù- sta nel fare sempre ricordare, oltre al messaggio di fede, quello della speranza, che resta una potente spinta per uscire dai momenti difficili.
Ho trovato questo passaggio nell’omelia pasquale del del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia: “La speranza cristiana non è riducibile ad uno stato d’animo, ad una disposizione psicologica o emozionale, legata ad un particolare momento e al carattere di una persona che può essere ottimista, pessimista o pragmatica. Tantomeno è qualcosa di vacuo o illusorio; piuttosto è una forza che irrompe nella storia con un dinamismo che trasforma e tutto rinnova.
Jürgen Moltmann, teologo riformato, nella sua “Teologia della speranza” scrive: “Essa [la speranza] non prende le cose così come stanno. Ma come cose che avanzano, si muovono, si trasformano, nelle loro possibilità”.
La scrittrice Susanna Tamaro ha così detto: ”Cercare la speranza e farla crescere, coltivarla in noi stessi e in chi ci sta vicino, non arrendersi a ciò che adesso la società ci impone, alla sua volgarità, alla sua violenza, ma vedere tra queste cose dei segnali di cambiamento, custodirli e alimentarli come nell'antica Roma le Vestali custodivano il fuoco. Senza sonno né distrazione”.

La violenza delle canaglie

Berlusconi gravemente malato - e come tale oggetto di doveroso rispetto - è invece nel mirino degli odiatori del Web e questo, oltre a far riflettere sulla stupidità umana, fa venire il mal di stomaco, leggendo certe porcherie che emergono contro il Cavaliere. La politica è la politica ed è certo fatta anche di odio e amore, ma nulla può giustificare violenze scritte che arrivano addirittura ad augurare la morte a chi si considera come un avversario. I veleni non sono mai sopportabili e ormai è davvero inconcepibile che certe prese di posizione vomitevoli non siano fermate dai gestori dei Social, dove si concentra il peggio con mancate sospensioni dei peggiori.
L’odiatore è ormai un personaggio definito: chi usa la rete, e in particolare i social network, per esprimere odio o per incitare all’odio verso qualcuno o qualcosa.
Aggiunge la Crusca: “Dall’inglese hater, ‘odiatore’, a sua volta dal verbo to hate ‘odiare’, in uso in inglese sin dal sec. XIII. Già in Middle English esisteva il sostantivo hatere ‘chi odia’, mentre in Old English hetend significava ‘nemico’“.
Trovo un articolo interessante di Elena Cabras, fondatore Psicotypo e. direttore di Psicoterapia: “Sono diversi i motivi che spingono una persona a diffondere online la propria frustrazione. Prima di tutto, abbiamo una sensazione di impotenza che la persona prova nella vita reale. Molto spesso si tratta di soggetti che nel loro contesto familiare e sociale hanno un diritto di parola e di replica limitato. Si sentono, per questo, di non avere potere decisionale nella vita reale, mentre online si credono rivestiti da questo senso di onnipotenza in cui sono liberi di esprimere tutto ciò che provano senza che si applichino restrizioni di alcun tipo”.
C’è chi attacca e addirittura perseguita persone assai famose, come appunto Berlusconi, ma non solo: “Queste persone non fanno altro che attaccare soggetti “deboli”, che non devono essere necessariamente famosi, ma che semplicemente non rispondono, lasciando loro la libertà di dare sfogo ai disagi fino a quel momento repressi. Altri invece insultano per il puro divertimento di farlo; non hanno motivazioni intrinseche, lo considerano un passatempo; insultano e denigrano per ammazzare la monotonia e realizzare una “guerra tra poveri” in cui ognuno insorge per dire la sua”.
L’esperta aggiunge: “Abbiamo, poi, gli egocentrici: usano mezzi e modalità spietati per farsi notare dagli altri, credono che andare controcorrente generi notorietà, nel bene o nel male. È sufficiente un semplice commento negativo per far sì che attraverso risposte, o like, si emerga tra tutti gli altri“.
E ancora: “Gli hater seguono un principio fondamentale: più se ne parla, meglio è. È proprio per questo che le tematiche oggetto di odio variano; spesso sono i personaggi più famosi sul web, i politici, gli omosessuali, ed i soggetti considerati “prede” ad essere bullizzati e denigrati dagli haters. Distruggerli ed annientarli psicologicamente aumenta il loro ego e la voglia di insultarli cresce sempre di più, sentendosi appagati e soddisfatti una volta aver premuto il tasto “invio” del loro smartphone.
Più è violento l’attacco, maggiore sarà la soddisfazione personale provata. Per gli haters, essere presi in considerazione ed essere sicuri di aver scatenato la rabbia altrui è il massimo della gratificazione, poiché hanno vinto; hanno raggiunto il loro obiettivo egregiamente: aver fatto arrabbiare un altro individuo ed aver scatenato la sua reazione. Ogni hater, poi, avrà il suo periodo di attacco: possiamo avere odiatori che insultano con cadenza quotidiana un soggetto che hanno preso di mira, mentre altri agiscono in maniera casuale, insultano chi vogliono quando lo vogliono, senza una continuità periodica particolare. L’importante è che la rabbia e la frustrazione siano sfogati sul web, e che il loro senso di odio verso il mondo sia appagato facendo del male ad altri”.
Torno a odio e scorro i sinonimi, che poi in realtà non sono affatto sovrapponibili: esecrazione, avversione, fobia, inimicizia, risentimento, rancore, ripugnanza, astio, livore, ribrezzo, ostilità, ruggine, disprezzo, antipatia, animosità, malanimo, accanimento, intolleranza, contrarietà. Insomma: ci sono sfumature assai diverse, ma quel che colpisce in queste circostanze - lo ripeto - è la violenza, scelta estrema delle canaglie.

Verità e sincerità

Mi è capitato poche volte di testimoniare in un processo e di leggere la formula di rito: ”Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.
La verità! Userei per definirne i contorni difficili questa citazione: “L'uomo appassionato di verità, o, se non altro, di esattezza, il più delle volte è in grado di accorgersi, come Pilato, che la verità non è pura”.
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano”.
Il caso vuole che Repubblica si sia occupata in questi giorni di Ponzio Pilato nella serie “Sulle tracce della Via Crucis” scritta da Stefano Massini: “Egli ci viene descritto come un funzionario niente affatto illuminato, anzi piuttosto incline all'angheria e al sopruso, noto per aver sedato con mattanze di sangue ogni minimo vagito di protesta. Ma ciò che più vale è che il signor governatore non perdeva occasione per mostrarsi un gradasso, tipicamente affetto da abuso di potere: aveva umiliato i locali esponendo nel perimetro della Città Santa i vessilli divini di Tiberio, e quando (dall'imperatore stesso) era stato obbligato a rimuoverli, aveva insistito con ulteriori gesti di disprezzo, per cui in più occasioni era stato richiamato all'ordine dai suoi superiori. È sufficiente a delineare il personaggio, o occorre aggiungere che non mancano accuse di venalità e corruzione?”.
E ancora: “La storiografia ci consegna l'immagine di un politicante dozzinale, di bassissima lega, un lillipuziano che d'un tratto si scopre davanti a qualcosa di molto più grande di lui: quel giovane profeta che era entrato a Gerusalemme accolto da tripudi di folla, adesso gli veniva consegnato dai Sacerdoti che lo volevano morto, e può perfino darsi che Pilato avesse percepito un'energia insolita negli occhi di quel figlio di falegname, ma resta agli atti che per paura o per menefreghismo egli subodorò che la faccenda stavolta era seria, che c'era da compromettersi, e non si volle sporcare le mani”.
Ricordo, incidentalmente, che il rudere del castello di Nus in Valle d’Aosta, chiamato ”di Pilato”, deriva da una leggenda, perché storicamente infondata essendo la costruzione di epoca medioevale, secondo la quale il procuratore romano Ponzio Pilato vi avrebbe soggiornato mentre si recava a Vienne in Gallia, dove sarebbe stato esiliato da Caligola e dove sarebbe morto suicida.
Il ponziopilatismo è, comunque sia, pessimo ed è un modo per far decidere ad altri, quel orribile ”furor di popolo”, che tanto piace ai populisti, che amano aizzare le piazze, perlopiù in alternativa ai meccanismi della democrazia rappresentativa.
Dovessi dire a me piace molto il termine “sincerità”, che fa parte del mio carattere e la considero una medaglia, mentre chi non mi ama ritiene questa caratteristica un grave difetto.
Ricorda Miriam Di Carlo sul sito dell’Accademia della Crusca, attorno al termine “sincero”: “Obsequium amicos, veritas odium parit” e cioè ”l’adulazione procura amici, la sincerità i nemici”: è un verso tratto dall’Andria di Terenzio (v. 68), ripreso poi da Cicerone nel De amicitia”.
Esiste su ”sincero” un’etimologia falsa: “Anche la parola sincero ha un’origine illuminante nella sua etimologia, sine ceris = senza cera. Nell’antichità, quando una statua aveva dei difetti, si poteva aggiustare con la cera, che andava a mascherare e a levigare il marmo corrotto. Invece quando era perfetta, e non aveva bisogno di correzioni, veniva definita sincera, senza cera. (Alessio Atzeni, Arte del risveglio)”.
Proprio l’esperta della Crusca così aggiusta il tiro: “In realtà, come indicano i principali dizionari, l’aggettivo latino sincerus ha tutt’altra etimologia: deriva dalla radice *sem-/*sim- ‘uno solo, unico’ (da cui anche l’avverbio latino semel ‘una sola volta’ e l’aggettivo simplex ‘semplice’) e da -cērus, corradicale del verbo crēscere ‘diventar grande, aumentare’ e significa dunque ‘di una sola/unica origine; tutto d’un pezzo“.
E ancora più avanti: “L’etimologia rispecchia il primo significato della parola in latino: la sincerità è una virtù che in primis riguarda l’integrità dell’uomo a prescindere dall’aspetto “sociale” e relazionale. Per estensione poi, chi è sincero, ossia puro e incorrotto nel cuore, è automaticamente leale e franco nella relazione con l’altro“.
Che bello sentirsi sincero, anche se talvolta - ecco l’autocritica - può capitarmi di essere un pochino…ruvido.

Noi e gli animali

Mi ha sempre molto divertito la catalogazione fra ”gufi” e “allodole”, termini entrati in uso per definire individui con spiccata preferenza per comportamenti serotini o mattinieri e dunque - si dirà così? - con un differente ritmo circadiano.
Si sa che i gufi tendono a dormire molto tardi e, se possono, a prolungare il sonno fino a tardi il mattino seguente. Le allodole invece si alzano presto al mattino e dormono presto alla sera.
Io sono abbastanza allodola e confesso che mi ha sempre divertito l’esercizio di noi umani di trovare assonanze fra le nostre singole caratteristiche e i diversi animali che popolano la terra. Un tempo, per altro, il confronto aveva una scala più locale, mentre oggi si espande ad una dimensione globale.
Per dire: un pigrone in Valle d’Aosta sarebbe stato equiparato ad una marmotta (tra letargo e vita quieta fra tana e praterie), mentre oggi potrebbe spuntare l’esempio del bradipo, che - attenzione alla topica! - non è neanche lontano parente delle scimmie, appartenendo invece all'ordine degli xenartri (o sdentati) come il formichiere e l'armadillo.
Ma torniamo al parallelo fra uomo e animale. Certo le scimmie - anche noi apparteniamo all’ordine dei Primati - sono il rapporto più semplice, ma a ben vedere nella nostra vita ci si può sbizzarrire.
Ad esempio ci sono padroni che o per analogia o per alchimia assomigliano ai propri cani, come gemelli separati alla nascita. Forse che non abbiamo conoscenti che assomigliano - anche se è poco urbano osservarlo - a maiali o caproni?
Avevo un’amica che somigliava ad una giraffa, un’altra ad un sensuale gatta e una terza dal riconoscibile aspetto equino. Io, da molto tempo, aspiro al rango di papero.
Leggo un interessante articolo sul sito dell’Università di Trento della ricercatrice Virginia Pallante, che scrive: ”Se, come sostenuto da Charles Darwin, ciò che diversifica fra loro le specie animali, uomo incluso, è una differenza di grado e non di genere, è ragionevole aspettarci di incontrare tratti che immaginavamo essere esclusivamente umani anche negli altri animali. Da questo punto di vista, l’etologia ha avuto il merito di sfumare sempre più i rigidi confini entro i quali abbiamo a lungo pensato l’identità umana, suggerendo, attraverso l’analisi di comportamenti condivisi, la presenza di un substrato comune tra l’uomo e gli altri animali”.
Insomma: tutti i popoli guardano con curiosità agli animali che li circondano e con cui hanno diviso i propri territori, sia che siano stati addomesticati (da noi la mucca è pure reina), sia che siano selvatici (lo stambecco è il nostro must).
Ha scritto Giorgio Celli, etologo che fu con me al Parlamento europeo: ”Se il Paradiso esiste è giusto che sia popolato di animali. Ve lo immaginate un Eden senza il canto degli uccelli, il garrire delle rondini, il belare delle caprette e l’apparire del buffo e curioso musetto di un coniglio? Di sicuro nel mio Paradiso ideale non possono non echeggiare miagolii da ogni angolo. Il festoso abbaiare di cani che giocano finalmente sereni. Vogliamo negare anche questo ai poveri animali?”.
Certo che animali siamo anche noi e lo spiegava bene l’altro famoso etologo, al
Konrad Lorenz: “Sarà molto difficile per l'orgoglio umano riconoscere che l'«homo sapiens» non ha semplicemente qualche interesse per gli animali: lui è un animale!”.
Dunque è giusto prendersi cura di noi stessi e avere un rapporto corretto con gli altri animali, senza i terribili pistolotti e i musi lunghi degli animalisti, alcuni dei quali se dovessero, in cima ad una torre, scegliere se far cadere dall’alto un essere umano o un criceto sceglierebbero di salvare quest’ultimo con evidente abbaglio.

Le valanghe non sanno che sei esperto

Domenica scorsa, prima che purtroppo venissero rinvenuti i corpi senza vita di due scialpinisti torinesi investiti il giorno prima da una valanga in Valtournenche, leggevo la rassegna stampa mattutina che confermava il numero di tragedie analoghe su tutte le Alpi.
Così di getto su Twitter ho scritto in modo che ritengo educato: “È sconcertante che ci siano scialpinisti che disattendono i bollettini che indicano pericolo, esponendo i soccorritori a rischi per salvataggi assai costosi per la comunità, spesso purtroppo solo per recuperare le salme di chi è stato vittima della propria imprudenza”.
Quindi non c’è stata - come ben capito dai miei followers - alcuna indelicatezza rispetto al lutto delle famiglie dei due torinesi scomparsi tragicamente. Era un’osservazione generale, che prescindeva dalla scelta dei singoli che hanno nel caso di cronaca specifico sfidato l’oggettività dei pericoli causati dalle condizioni della neve, che erano ben esplicitati nel bollettino valanghe.
Questi comportamenti si ripetono ormai con triste regolarità che siano praticanti dello scialpinismo o l’insieme di discipline riunite con il termine freeride e cioè le attività fuoripista in neve fresca.
Mi sono occupato del Soccorso Alpino molte volte nel mio lavoro politico, ma anche prima. Ero difatti un giovane giornalista quando all’inizio degli anni Ottanta salivo al rifugio Monzino, dove il grande innovatore delle tecniche di soccorso, la guida Franco Garda, istruiva i suoi colleghi più giovani e i medici rianimatori alle diverse pratiche possibili e in primis a quanto ruotava attorno all’affermarsi dell’elisoccorso. Per cui fu naturale seguire questo filone con apposite norme legislative di supporto a Roma e ad Aosta, ma anche seguendo queste questioni a Bruxelles.
Per questo gioco di squadra la Valle d’Aosta è sempre stata al vertice nelle attività di soccorso in montagna con equipaggi, cominciando da piloti di grande maestria, che hanno creato un sistema di salvataggio di grande efficacia. Sono stato testimone di interventi in quota eseguiti con grande perizia e di importanti esercitazioni per essere pronti ad ogni evenienza.
Chi interviene in alta montagna lo fa sempre con una notevole componente di rischio e ho visto situazioni in cui solo il coraggio e la determinazione dei soccorritori hanno fatto la differenza. Questo significa per la Valle investimenti notevoli in uomini e mezzi, senza mai lesinare in formazione e in attrezzature.
Quel che è certo è che proprio questa nostra professionalità è elemento rassicurante per chi abita e frequenta la nostra Regione. Ma non si può pensare che questo possa significare un approccio sbagliato o facilone al mondo della montagna. Troppi, anche molto capaci, sono morti non avendo calcolato la componente di pericolo in determinate circostanze, anche quando in modo evidentissimo sarebbe stato meglio non affrontare la montagna.
Sull’ultimo incidente ha detto a Enrico Martinet de La Stampa il grande alpinista Hervé Barmasse: “Mi preme dire che le analisi si fanno sempre dopo sciagure. È giusto, s'impara e si ha uno sguardo differente, ma resta il dolore, l'immenso dispiacere. Per tornare a sabato il bollettino valanghe indicava 4 su una scala di 5 gradi. Con 5 si chiudono le strade, per capirci, con 4 il pericolo è evidente ed è consigliabile scegliere itinerari dove ci sono le guide del posto, oppure sciare al bordo delle piste battute”.
Ma l’altro punto è chiaro e riguarda un tema importante e cioè la capacità di fare quando necessario un passo indietro: ”Rinunciare fa la differenza tra la vita e la morte. I consigli di sempre, bollettini, chiedere ai professionisti del posto, ma soprattutto pensare che tutto dipende da te e se sbagli muori. Ti giochi tutto”.
Un grande esperto di valanghe e grande alpinista, André Roch, disse: “Anche gli esperti muoiono sotto le valanghe, perché le valanghe non sanno che sei esperto”.

Rapporti istituzionali e polemiche politiche

Non capisco dove voglia andare il Governo Meloni e lo dico con serenità, sapendo che chi fa politica in Valle d’Aosta deve coltivare rapporti corretti con chiunque governi a Roma. E il fatto che gli autonomisti governino in Valle d’Aosta con la Sinistra (ma quella estrema è all’opposizione) non dovrebbe essere un ostacolo insormontabile, perché le istituzioni dovrebbero sempre dialogare con le istituzioni. Uso il condizionale perché mi pare evidente che non sempre sia così e ci sia chi, invece, voglia sempre e solo “politicizzare" questi rapporti con ragionamenti tipo: se non governo in Valle, allora non avrai alcuna porta aperta nei rapporti con i “nostri” nella Capitale. Chi ragiona così fa male alla propria comunità e non ai propri avversari politici.
Ma dicevo di questo Governo, che mi pare stia vivendo la fine di quella “luna di miele”, cioè quel periodo di accondiscendenza - così definito con l’anglicismo dal lessico americano “honeymoon” - dell’opinione pubblica verso chi inizia a governare, prescindendo dal colore politico di appartenenza.
Ormai nelle democrazie occidentali, comunque sia, chi governa rischia sempre grosso per una volatilità dei voti tra chi cambia bandiera come le mutande e chi a votare non ci va più, rinunciando ad un suo diritto.
Certo Meloni e i suoi compagni o meglio camerati d’avventura ci mette del suo con vere e proprie gaffes e inefficienze, come si vede nella gestione confusa del problema dell’immigrazione, che era un loro cavallo di battaglia, o sulla questione del PNRR con scelte al momento non ben definite, mentre passa il tempo.
Ma Beppe Severgnini sul Corriere dice meglio di me di questa voglia di interventismo, che poi sfocia in boomerang che tornano violentemente indietro: “l divieto alle carni coltivate, il blocco di ChatGpt, l’abbondono dello Spid, il tentativo di ridimensionare l’orrore di via Rasella: tutto in un giorno, o quasi. Appena prima, la decisione di bloccare la trascrizione dei certificati di nascita dei figli di coppie dello stesso sesso. Tira un’arietta strana, sull’Italia, questa primavera. È come se il futuro facesse paura, e la nuova dirigenza volesse rassicurarci lucidando il passato”.
Governare guardando nel retrovisore con logica passatista, proibizionista e pure luddista non sembra in effetti una grande pensata, semplificando problemi complessi con decisioni non sempre ragionate sino in fondo. Ciò avviene in un misto nostalgico e antimodernista, che poco dovrebbe avere a che fare con una politica conservatrice che non sia retriva o ingenua, a seconda dei casi.
Severgnini aggiunge: “È ora di chiederselo, perché quattro, dieci, venti indizi fanno una prova: cosa vogliono conservare i conservatori?
Prendiamo la carni coltivate, perché di questo si tratta. Siamo in fase sperimentale, ma chiamarla «carne sintetica» dimostra un pregiudizio. Si tratta di coltivazione in vitro di cellule animali, uno sviluppo che potrebbe rivoluzionare la produzione di cibi proteici, riducendo gli allevamenti intensivi e le conseguenze sull’ambiente. Vivo nella bassa padana: capisco il possibile impatto sulla filiera agricola. Ma credo che la novità vada studiata, non demonizzata”.
Aggiungo che si vieta in Italia, ma si può importare dal resto del mondo e dunque si tratta di una diga piena di buchi.
“E - prosegue il giornalista - l’antipatia per lo Spid? Prima di liquidare un sistema di identificazione usato da 33 milioni (!) di italiani, ci andrei cauto. Il governo punta sulla carta di identità elettronica, che non è pronta. Alessio Butti, sottosegretario per l’innovazione, sostiene che lo Stato «dev’essere l’unico a disporre ed erogare certificati di identità anche digitali, mentre Spid usa identity provider privati». Vero: ma Poste, Aruba etc sono stati coinvolti perché lo Stato non aveva i mezzi per fare da sé”.
Conclusione secca: “Non ci sono solo le cose dette, ma anche quelle taciute. Cosa intendiamo fare in vista del tracollo demografico? Davanti a un futuro annunciato, il governo tace. Se anche gli italiani si mettessero d’improvviso a fare figli - improbabile, viste le condizioni in cui sono messe le nuove famiglie - le conseguenze sul mondo del lavoro le vedremo fra vent’anni. E nel frattempo? I buchi di organico (nella sanità, nell’assistenza, nell’industria, nei servizi) diventeranno voragini: e di un piano organico di immigrazione non c’è traccia. Rincorriamo le emergenze, come sempre.
Cinque mesi di governo sono pochi per trarre conclusioni, ma la domanda resta: cosa vogliono conservare i conservatori?”.
Resta il fatto preclaro e bisogna essere onesti nel dire che stare all’opposizione è più facile. Giochi sempre di rimessa: il Governo fa e tu dici che non va bene. Chi dirige sceglie una strada e l’opposizione strilla. Operi una scelta impopolare ma necessaria (come Macron sulle pensioni) e la minoranza infiamma le piazze, senza mai dire in questo caso come quasi sempre quali sarebbero state le reali alternative. Una democrazia che diventa una perenne trincea con guerre guerreggiate infinite o peggio ancora con perenni lotte intestine non fa bene.

Condividi contenuti

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri