blog di luciano

Murgia, fra libri e Social

Ho aspettato qualche giorno per riflettere sul “caso Murgia”, la scrittrice sarda (fiera della sua identità isolana), mancata di recente.
Non l’ho fatto perché troppa retorica è stata riversata sull’onda della sua morte e prima questi era avvenuto sulla sua malattia terminale, che lei stessa scelse di rendere pubblica e di riempire di grandi significati politici e di militanza. Lo ha fatto conscia di essere diventata un’icona per una parte dell’opinione pubblica.
Nell’ultimo tratto della sua vita è avvenuto con discorsi abbastanza estremi sulla famiglia e su quella parola diventata un inno: Queer!
Ha detto e virgoletto: “Una famiglia queer non significa orge e stravizi sessuali. Ma responsabilità reciproca”. E ancora ha spiegato che si tratta di ”nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla”.
Si tratta di una scomposizione della famiglia, in logica più che libertaria, di cui per ignoranza mia non capisco bene l’essenza, ma rispetto da sempre ogni diversità nella logica di qualunque opinione sul tema, sempre che non sia lesiva di diritto fondamentali.
Confesso di aver letto solo un suo libro, quello che la portò al successo, “Accabadora” e che mi affascinò. S’accabadora era - ma sfugge ancora il confine fra realtà e fantasia - una donna che nei secoli passati in Sardegna si incaricava di praticare l’eutanasia ai malati senza più possibilità di essere curati, su richiesta dei familiari o della vittima stessa. 
Poi non l’ho più letta ed è una colpa che colmerò, anche se - diciamoci la verità - era ormai più nota come polemista e protagonista di un impegno legittimo e dunque come scrittrice in maniera inferiore
ed è ovviamente un mio giudizio contestabile.
Ho letto su Linkiesta.it la sempre acuta Guia Soncini, che ha scritto di Murgia e ne citerò alcuni passaggi.
Anzitutto una lunga citazione nella prima parte dell’articolo, anticipata dalla tesi di una letteratura in sé che conta ormai poco: “Ora che persino Umberto Eco è diventato troppo sofisticato, troppo complesso, di troppo faticosa digestione per farne quel finger food culturale che è l’unico ormai tollerato dal delicato stomaco d’un grande pubblico che è intollerante al lattosio, al glutine, alle contraddizioni e alle parole non confermative.
Lo spiegava piuttosto bene il miglior articolo scritto in morte di Michela Murgia, da Michele Serra su Repubblica. «Murgia si è spavaldamente, a tratti perfino allegramente esposta come leader di un “tutto e subito”, e di un radicalismo anche linguistico, che potevano irritare o appassionare. Sicuramente molto spendibili in chiave social, laddove la dialettica è stritolata nella tenaglia degli amici e dei nemici, della ragione tutta da una parte o tutta da quell’altra. Logica binaria anch’essa, vale constatarlo. È molto probabile che la sintesi, l’“andare oltre”, il superamento di quella furente disputa di genere, e sui generi, per lei fosse la letteratura; non perché nei libri “parlasse d’altro”, ma perché ne parlava diversamente, meno condizionata dall’ansia di prestazione che costruisce buona parte del pathos social”.
Insomma lo scrittore che si allarga alla sfera extraletteraria per conquistare spazi rispetto ad un mercato del libro ormai asfittico rispetto al passato.
Ancora Soncini: ”Persino nei casi di grandi successi, quali sono stati i libri di Michela Murgia, i numeri sono quelli che vent’anni fa (per non dire cinquanta) avrebbero caratterizzato un insuccesso. Fino alla prima settimana di agosto, a qualche giorno prima della morte dell’autrice, “Tre ciotole”, il libro che era stato annunciato da un’intervista in cui Michela Murgia aveva detto d’avere poco da vivere, e che era stato primo in classifica per parecchie settimane, e poi era comunque rimasto tra i libri più venduti d’Italia, nei suoi primi tre mesi in commercio di quel libro lì erano state comprate novantamila copie”.
E poi la provocazione: “Molta più gente ha visto un concerto di Ultimo (chiunque egli sia) nella sola Roma nel luglio 2023 di quanta in tutta Italia abbia comprato il libro col più potente lancio promozionale che autrice italiana abbia mandato sul mercato negli ultimi anni. E molta più gente seguiva Michela Murgia su Instagram di quanta ne comprasse i libri.
Michela Murgia è stata coerente fino all’ultimo con la propria identità di rompicoglioni. È morta ad agosto costringendo i suoi cari a tornare precipitosamente da posti mal collegati, ma soprattutto è morta nella settimana in cui Gfk, che si occupa dei rilevamenti delle vendite di libri, è inderogabilmente in ferie, non dando modo agli osservatori di quantificare il valore del decesso per le vendite. I numeri di quel che hanno venduto i libri della Murgia dopo la sua morte li avremo solo lunedì, ma non ci vuole una sacerdotessa di Apollo per immaginarli. 
Lasciati senza Gfk, i poveri editori in settimana dovevano affidarsi all’impressionismo della classifica Amazon, dove un militare che si autopubblica i suoi penzierini, oggetto d’un quarto d’ora di scandalo per aver detto che mica è normale essere busoni, era primo, rendendo vieppiù cogente quella domanda che si faceva Enrico Vanzina secoli fa: come mai i bestseller non sono mai letti dai best reader?”.
E un altro ragionamento colpisce chi i libri cerca ancora di leggerli: “Ogni volta che si parla di libri su un social, il posto dove dice la sua la gente che non sa esprimersi e non ha intenzione d’imparare, c’è sempre qualcuno che protesta: insomma, i libri sono troppo cari. Possono spendere ottanta euro per un concerto ma non venti per un libro? Certo che no: il verbo non è «potere» ma «volere».
Non vogliono essere costretti a fare la brutta fatica di concentrarsi su una pagina. Non vogliono buttare soldi per un’esperienza che non potranno instagrammare (ci siamo fatti distrarre da «resilienza», e abbiamo lasciato che quella gramigna lessicale e posturale che è «esperienza» attecchisse).
Non vogliono perdere tempo con duecento pagine quando basta e avanza l’intervista a Vanity Fair, di cui oltretutto c’è la versione video che si condivide molto più comodamente (e piace molto di più all’algoritmo) della foto alla pagina di giornale (quella sì residuale come e più dei libri)”.
Soncini amarissima in chiusura rompe certo “politicamente corretto”:
“Molto si è parlato, privatamente e pubblicamente, del funerale di Michela Murgia. Del rito di massa e quindi inevitabilmente cafone in cui le orazioni funebri venivano interrotte da applausi come raccordi narrativi d’un qualunque concerto di Ultimo; di tizie che non si erano mai viste che si chiamavano l’un l’altra «sorella» e piangevano insieme per una che pure non avevano mai conosciuto; di Elly Schlein che cantava “Bella ciao” abbracciata a Francesca Pascale; di Roberto Saviano che diceva la sua orazione con una mano infilata nella cinta dei pantaloni.
A colpire me è stato un dettaglio del dopo. Il cameraman del sito di Repubblica era rimasto fuori dalla chiesa a inquadrare il niente, e a un certo punto gli si è piazzata davanti una tizia del Tg1 col mandato più difficile della giornata. Fermava le ragazze che uscivano dalla chiesa chiedendo «c’è qualcuna che è qui perché era una lettrice di Michela Murgia, perché leggeva i suoi libri?». Quelle la guardavano come fosse di trasparenza medusiaca: era uno spettacolo straziante”.
Questo non toglie nulla alla militanza sui Social, alle interviste impegnate e alle conferenze piene di argomenti. Ma la letteratura resta la letteratura.

Parole in arrivo

Niente è più potente della parola: una catena di forti ragioni e di alti pensieri è un legame che non si rompe. La parola, come la fionda di David abbatte i violenti e fa cadere i forti. È l’arma invincibile. Se così non fosse, il mondo apparterrebbe ai bruti armati. Chi invece li tiene lontani? Solo, nudo ed inerme, il pensiero.
(Anatole France)

Lo avevo già scritto che sarei tornato sulle parole e sulla loro capacità/necessità di aiutarci a capire come cambiano le cose.
Se ho ricordato parole destinate al macero in italiano (anche se non bisogna mai dire mai), oggi - guardando cosa capita nei dizionari - vorrei ricordare le parole che hanno avuto dignità di figurare come nuove entrate.
L’occasione è utile per ricordare il come il primo vero dizionario della storia sia quello della Crusca; l’accademia fiorentina che, nata nel 1582 con intenti più o meno goliardici, nel 1612 pubblicò il vocabolario e ancora oggi vigila sulla lingua italiana.
Ma dicevo delle parole assurte a dignità di stampa. La prima mi riguarda per nascita ed è ”Boomer".
Come si legge proprio sul sito dell’Accademia della Crsuca, la parola boomer è un appellativo ironico e spregiativo, attribuito a persona che mostri atteggiamenti o modi di pensare ritenuti ormai superati dalle nuove generazioni, per estensione a partire dal significato proprio che indica una persona nata negli anni del cosiddetto “baby boom”, e cioè nel periodo di forte incremento demografico che ha interessato diversi paesi occidentali al termine del secondo conflitto mondiale, tra il 1946 e il 1964. Presente, anche se mi ribello all’accusa di passatismo…
Spunta poi e ne ho parlato parecchio in questi anni anche per il suo impatto ”Metaverso”. Se nella letteratura di fantascienza già si parlava di mondi artificiali paralleli, oggi esiste davvero un affascinante mondo virtuale, reso immersivo dall’uso di cuffie e visori per la realtà virtuale e la realtà aumentata. Lo si può già esplorare usando il nostro avatar e non è solo un terreno di gioco, ma che permette molti usi.
In qualche modo è collegata a questa un’altra parola ”Algocrazia”, che definisce meccanismi già esistenti in Rete. Attraverso l’uso di algoritmi, cioè i programmi informatici che sono alla base delle piattaforme digitali, si possono manipolare le forme di interazione fra gli utenti con metodi di controllo che possono essere fortemente invasivi della nostra sfera privata.
Molte parole irrompono ormai dall’inglese e le adopriamo correntemente con grande lamentela dei puristi e non caso in altri Paesi - penso alla Francia - sono nate normative per evitare la supremazia dell’inglese e degli anglicismi.
È il caso di ”Fat shaming”. Un termine che indica una forma di discriminazione nei confronti di chi ha un corpo non conforme ai canoni imposti dalla società. Si tratta di una tipologia di body shaming che riguarda nello specifico le persone grasse.
Ed è anche il caso di ”Green washing”, cioè l’ ecologismo o ambientalismo di facciata, che indica la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.Certo è che dal mondo ambientalista, dove alberga anche un parte di Sinistra estrema
riciclatasi con grande spregiudicatezza fallita l’epoca (stavo per scrivere l’epica…) rivoluzionaria, arrivano altri termini che designano tendenze.
Penso a “Transizione ecologica”, una delle parole nuove legate al tema della sostenibilità. E sarebbe - lo dico rozzamente - quel processo di innovazione tecnologica e rivoluzione ambientale che favorirà economie che non tengano conto solo dei profitti economici, ma anche del rispetto della sostenibilità ambientale.
Parole che vanno, parole che vengono.

Avi ed eredi

Qualche tempo fa avevo scritto di aver ricevuto da Maurizio Sella, Presidente del celebre gruppo bancario e finanziario, un libro interessante che incrocia la storia della sua famiglia con le montagne valdostane e con la passione enorme per l’alpinismo, tramandata di padre in figlio.
Nell’occasione avevo segnalato un elemento singolare: esiste ormai radicato dalla seconda metà dell’Ottocento un ramo valdostano dei Caveri proprio a causa del più celebre dei Sella, quel Quintino enfant prodige della politica, imprenditore nel settore tessile e fra i fondatori del Club Alpino Italiano. Fu lui, infatti, a chiedere la testa del mio bisnonno Paolo, Prefetto di carriera, perché era intervenuto nel corso di uno sciopero degli operai biellesi. Fu chiesta e ottenuta la sua rimozione e, dopo un periodo alla Sottoprefettura di Albenga, arrivò ad Aosta e radicò i Caveri ”valdostani”. Il resto della famiglia, originaria di Moneglia ma con attività a Genova (il fratello del mio bisnonno, Antonio, ebbe importanti ruoli politici e universitari) rimase in Liguria.
Il Presidente Sella ha con grande gentilezza risposto alla mia posta elettronica e ne ricordo gli aspetti salienti.
”Vorrei aggiungere - scrive il mio interlocutore - altre notizie alla tesi di laurea, da te citata,  di Arianna Michelini  “La classe dirigente liberale e lo sciopero La relazione della Commissione Parlamentare sugli scioperi del 1878”, relatrice prof.ssa Gigliola Dinucci, presso l'Università degli Studi di Firenze.
 Il professor Guido Quazza e la moglie Marisa Piola Quazza hanno pubblicato, per conto dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Roma, l' «Epistolario di Quintino Sella» ove sono trascritte le lettere di Quintino dal 1842 alla morte, avvenuta in Biella il 14 marzo 1884.
Nel volume, in cui sono state trascritte le lettere dal 1842 al 1865, il sottoprefetto Paolo Caveri è citato più volte in alcune lettere del 1862. Quintino era allora, all'età di 25 anni, per la prima volta ministro delle Finanze. Ecco quanto scrive a Ubaldino Peruzzi, ministro dell'Interno, nella sua lettera del 31 dicembre 1862 che tu citi e di cui trascrivo alcuni passi: « Caro Ubaldino, credo tu sia informato di alcuni scioperi di operai che nocquero nel Biellese alle fabbriche del Mandamento di Mosso.
Il sottoprefetto ha creduto sempre di ingerirsi, e la sua ingerenza (come al solito dell'ingerenza governativa) a mio parere la reso la cosa più pericolosa che non fosse da principio. Le popolazioni operaje del Biellese furono fin qui tranquille e vi sono pochissimi elementi di perturbazione […]
Però ove gli operai si ficchino in capo di essere spalleggiati dall'autorità politica contro i fabbricanti, e questi invece credano di non poter contare sulla imparzialità dell'autorità politica, ne possono nascere sconcerti che coll'andare del tempo si farebbero gravi [...].
Tu vedrai poi nella tua saviezza quel che convenga fare e se, di qui a qualche tempo, una traslocazione del sottoprefetto (persona d'altronde stimabilissima) non giovi a lui ed alla cosa pubblica.»
[Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella Vol. I 1842-1865, Città di Castello, 1980, pp 417-418].
Aggiunge il Presidente Sella: ”Nella stessa data del 31 dicembre 1862 Quintino scrive anche a Paolo Caveri per precisare quali siano le lagnanze degli industriali lanieri verso di lui: ”Pregiatissimo Signor Cavaliere, ricevetti da parecchi fabbricanti di Mosso gravi lagnanze per la questione degli operai e, benchè io non abbia alcun personale interesse in coteste fabbriche del mandamento di Mosso, tuttavia, come deputato di questo mandamento non posso chiuder le orecchie alle lagnanze che mi pervengono. Indi è che mi prendo la libertà di scriverLe apertamente sopra questo argomento di sua natura delicato, e che può farsi pericoloso.
I fabbricanti mi dicono che la Signoria Vostra abbia assicurato gli operai che, quando essi fossero ritornati al lavoro, le multe non sarebbero state applicate che in una misura più ristretta dell'attuale e sarebbero state applicate soltanto a casi straordinari e gravi. I fabbricanti mi assicurano poi (per la conoscenza che ho della materia sono inclinato a crederlo) che essi non hanno fatto simile promessa. Intanto gli operai sono tornati al lavoro fiduciosi, a quanto pare, che non pagheranno più multe e la calma pare rinata, ma evidentemente possono rinascere nuove, e più gravi, difficoltà, quando si debba applicare qualche multa.
Ora Ella non l'avrà a male se sinceramente io Le dirò che non credo utile Sua ingerenza nelle difficoltà che nacquero fra gli operai ed i fabbricanti […]. Io non veggo come debba il governo intervenire fra un capo fabbrica e i suoi operai […]. Infatti quando l'autorità politica entra in questione sopra l'invito d'una sola delle parti facilmente diventa parziale per quella che l'invitò [...]»
[Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella Vol. I 1842-1865, Città di Castello, 1980, pp 418-419].
Prosegue poi la risposta: ”Nelle fabbriche laniere del Biellese, ove era passata dal 1817 la fabbricazione dei panni dalla lavorazione artigianale nelle case a quella con i macchinari della rivoluzione industriale, l'organizzazione produttiva era agli albori e per arrivare ad un buon standard produttivo, gli operai erano per regolamento interno soggetti a pagare multe per gli errori che rovinavano le stoffe.
Le parole di Quintino si rivelarono profetiche: la sua lettera del 28 aprile 1863 al ministro dell'Interno Ubaldino Peruzzi così cominciava:
« Onorevole Signor Ministro. 
Ella non ignora come nello scorso anno siano avvenuti alcuni scioperi tra gli operai dei lanifici della Valle di Mosso (Circondario di Biella); e forse ricorderà come io avessi allora a trovare meno opportuno l'intervento del Sotto-Prefetto il cui contegno, benchè dettato dalle migliori intenzioni, aveva fatto credere agli operai che il Governo li appoggiasse, ed aveva fatto temere ai fabbricanti che si desse incentivo a nuovi guai».
Raccontava poi dei seri problemi sorti in aprile nella fabbrica “Sella e Compagnia” e altre fabbriche circostanti in cui gli operai avevano scioperato perché non volevano più pagare le multe per cui così concludeva «Ora Ella vede onorevole signor Ministro come da un fatto di questo genere a fatti più gravi contro la proprietà e le persone [vi sia] sì piccola distanza che occorre provvedere senza indugio […] Ei mi pare che converrebbe far aprire senza indugio una indagine fiscale sull'avvenuto, e muttare l'attuale Sotto-Prefetto, il quale per desiderio di bene essendosi ingerito nelle quistioni dei salarii ha perduto troppo della sua autorità morale».
[Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella Vol. I 1842-1865, Città di Castello, 1980, pp 444-445].
Poco dopo, il 3 maggio 1863, in una lettera a Silvio Spaventa, segretario generale del ministero dell'Interno, Quintino Sella, preso atto dell'arrivo del nuovo sotto prefetto Del Frate a Biella, così   interveniva a favore del Caveri: « Vidi che mandi il Caveri ad Albenga. Non vi sarebbe modo di dargli una migliore Sottoprefettura? Ne parlai già due volte al Peruzzi, allorquando tu eri col Principe degli Abbruzzi. Il Peruzzi era anche dispostissimo a cercare alcun che di meglio. Vorrei ora ammansire anche te. La Sottoprefettura di Albenga e per popolazione e per importanza è tanto al disotto di quella di Biella, che la traslocazione assume carattere di punizione. Ora è egli opportuno, e per riguardo alla persona e per riguardo alla causa, dar carattere di punizione alla traslocazione del Caveri? Quanto a me non credo. Nell'affare dello sciopero il Caveri mostrò a mio giudizio che non aveva mai studiato codesta quistione, e che in tutti i casi ha più bontà d'animo e rettitudine di intenzioni che penetrazione. Ora il dare alla sua traslocazione carattere di punizione potrebbe essere pretesto ad agitatori di sommuovere anche di più gli operai, e sarebbe strazio grande al Caveri, il quale in un circondario non industriale, od almeno non tormentato da scioperi, può amministrare bene».
[Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella Vol. I 1842-1865, Città di Castello, 1980, pp 448-449].
Insomma Quintino ha anche parole di stima, oltreché di comprensione, per lo sbaglio del suo antenato. Da ultimo, sull'atteggiamento di Quintino nel rifiutare ogni intromissione governativa nelle questioni tra fabbricanti ed operai pesa l'ideologia liberale e Giolitti condividerà e tornerà alla stessa posizione di Quintino agli inizi del secolo XX”.
Quel che è certo - consentitemi la chiosa - è che in fondo l’intervento del mio bisnonno precorse i tempi e oggi è del tutto normale un ruolo prefettizio nelle vertenze sindacali, noto con il termine di ”raffreddamento”. Io stesso, quando incarnai le funzioni prefettizie devolute in Valle d’Aosta al Presidente della Regione, mi occupai alcune volte di questa materia senza ingerenza alcuna.

Il Monte Bianco testimone del cambiamento climatico

Cédric Gras è uno scrittore francese giramondo che conosce bene la montagna. Per Obs ha visitato di recente il Monte Bianco con una premessa illuminante sul tema: ”Cela fait maintenant vingt-cinq ans que je fréquente avec une certaine assiduité le massif du Mont-Blanc. Un quart de siècle qui paraît bien court à l’échelle du temps climatique et des neiges dites « éternelles ». Pourtant l’évidence est là et le constat, sans appel. Ce qui s’opérait auparavant au fil des siècles advient désormais au cours d’une existence. Les métamorphoses que l’on croyait imperceptibles pour les simples mortels s’effectuent dorénavant en l’espace d’une génération. La mienne par exemple”.
Già, con buona pace dei negazionisti questo è quanto qualunque abitante delle Alpi vede coi suoi occhi nel rapporto con la sua memoria.
Citerò alcuni passaggi chiave dell’articolo, ricco e dettagliato, lato francese, ma - si sa - quanto siano artificiali i confini lassù.
Scrive Gras: “Le réchauffement climatique est à l’oeuvre en montagne plus rapidement qu’ailleurs. Les précipitations hivernales ne parviennent plus à compenser la fonte estivale. Il suffit d’un vieil album photo de la vallée pour s’en convaincre. Les clichés sépia montrent des langues glaciaires débordant de leur lit. Il faudrait que je remette la main sur les diapositives du glacier des Bossons que j’avais prises durant mes études de géographie”.
Parecchie le testimonianze: ”Luc Moreau, lui, a fait de la mécanique des glaces son domaine d’expertise. Il s’assied, se sert un thé sur une terrasse face au Mont-Blanc et ne ménage pas plus longtemps le suspense. « A l’altitude de 1600 mètres, la mer de Glace a déjà perdu 3,5 mètres d’épaisseur depuis avril. Les glaciologues du xxie siècle n’annoncent jamais de bonnes nouvelles. » Il reprend : « Ça commence déjà moins bien qu’en 2022, quand la perte annuelle a été de 16 mètres. » 2022 a en effet été une année noire : « Le glacier a minci sur ses 13 kilomètres de longueur, jusqu’en haut, à l’aiguille du Midi. » Je lui demande ce que cela lui fait, à lui, de voir l’immaculé céder à la grisaille des pierriers. « C’est moins de rayonnement réfléchi par la neige et une absorption par les roches de l’énergie solaire, éludet-il, peu disert sur ses émotions mais généreux de sa science. Le même phénomène qui fait des ravages du côté des pôles, où la banquise se fait rare. »”.
Lo scrittore racconta, visitando siti storici del Monte Bianco dell’accelerazione ben visibile nei ghiacci e nelle acque: “Ce jour-là, une autre glaciologue est présente pour la visite des galeries de captage d’Argentière : Heïdi Sevestre. Elancée, cheveux courts, la jeune scientifique a été l’élève de Luc Moreau à Poisy, en HauteSavoie. Elle s’est ensuite installée au Svalbard après une année en Erasmus, tout en revenant régulièrement dans ses Alpes natales dont elle surveille la mue.
« Le “peak water” est prévu pour 2040 », prévient-elle. Comprendre : le « pic de fonte », ce point de bascule entre un surplus de fusion sous l’effet du réchauffement et un tarissement progressif dès lors que les masses glaciaires auront trop maigri. Un seuil fatidique qui marquera une baisse inéluctable du débit des rivières et fleuves en aval.
« A partir de 2040 et peut-être plus tôt, les rivières passeront à un régime plus nival que glaciaire », abonde Luc Moreau. C’est-à-dire qu’elles seront gonflées par la fonte printanière des neiges mais que ce qu’il restera de glaciers ne restituera que peu d’eau en juillet et en août. Le château d’eau alpin ne pourra plus fournir le même volume durant des étés qui s’annoncent plus caniculaires. Or c’est tout leur intérêt que de redistribuer à la saison sèche l’eau stockée sous forme de glace. Le potentiel hydroélectrique pourrait s’en trouver diminué mais c’est surtout en plaine qu’il faudra s’adapter, de l’irrigation des cultures au refroidissement des centrales nucléaires en passant par la consommation quotidienne”.
Questo è quanto bisogna studiare nei diversi settori per reagire per tempo ai cambiamenti senza ansia ma con pianificazioni che devono vedere solidali tra loro tutte le Regioni alpine, unite nello stesso destino nel rispetto di scelte politiche che le devono vedere protagoniste. Togliendo gli alibi a chi ha una concezione della montagna come Wilderness, che sulle Alpi è una castroneria che porterebbe allo spopolamento definitivo, come agognato da chi maldestramente odia l’umanità cui appartiene.
Ancora Gras: “C’est tout un paysage qui mue sous les yeux de ceux qui habitent la montagne. On appelle solastalgie la souffrance éprouvée face à ce bouleversement de notre environnement. Une sorte de nostalgie de la nature telle qu’on a pu la découvrir enfant. (….) Trouverai-je une consolation dans le « verdissement des Alpes », ce phénomène qui accompagne la fin des glaces? Rendez-vous avec Bradley Carlson, un écologue américain diplômé de l’université de Grenoble, guide de haute montagne accessoirement. Il travaille au Centre de Recherches sur les Ecosystèmes d’Altitude (Crea), une structure associative dédiée à l’adaptation de la biodiversité alpine. « En comparant avec les photos aériennes de 1950, on note une remontée moyenne de la forêt de 30 mètres par décennie environ, note-t-il sans une pointe d’accent, d’autant que la fin du pastoralisme a permis le reboisement des pâturages. » Les plantes déménagent vers de plus hautes altitudes et colonisent les zones minérales mises à nu par le retrait des glaces. Un chambardement de l’étagement alpin et une extension du domaine de la chlorophylle. (….) Dans le sillage de la flore, les animaux remontent eux aussi les côtes pour se maintenir dans des conditions optimales. Une migration verticale des espèces, insectes en tête, de plusieurs dizaines de mètres par décennie. Elles explorent de nouveaux territoires loin des fonds de vallées anthropisés. Une aubaine pour les lagopèdes, chamois et autres lièvres variables qui sont concurrencés par les espèces ordinaires prenant elles aussi l’ascenseur”.
La conclusione è triste e vale purtroppo per tutte le montagne del mondo: ”L’humanité ne souffrira pas tant des quelques degrés de réchauffement que de leurs conséquences, à commencer par la peau de chagrin des glaciers alpins. Ceux qui ne sont pas sensibles à la beauté écrue des séracs et honnissent les sports d’hiver devront au moins se résoudre à cette réalité. Sans glaciers, nos étés auront terriblement soif”.

Lupi ed orsi: la politica del rinvio

È molto interessante rilevare come in Italia di fronte ad un problema si scelga di non scegliere. Si preferisce in molti casi aspettare, come se l’attesa da sola sortisse qualche decisione. Anzi, come sempre laddove la politica latita si lascia spazio alla giurisprudenza come ormai evidente potere sostitutivo, di cui poi si lamenta per gli eccessivi ruolo e incidenza.
Mi riferisco ad un tema “antipatico” e cioè alla storia dei grandi carnivori sulle Alpi, lupi e orsi.
Nel caso valdostano si tratta solo dei lupi, mentre gli orsi riguardano in particolare il Trentino, ma è inevitabile e già certificabile l’espansione piano piano nelle vallate vicine.
Ne parlo per l’ennesima volta e lo faccio sapendo che tocco la sensibilità di certo animalismo, sia radicale che semplicemente alla moda, che dice in sostanza: questi predatori sono tornati, lasciateli vivere in pace e abituatevi alla loro presenza. Aggiungono più o meno: passata l’epoca in cui li avete sterminati, la modernità di pensiero vi obbliga a cambiare le vostre vite e il vostro lavoro in loro funzione.
Mi pare di aver riassunto correttamente la posizione, difesa strenuamente ogni volta che si cerca di spiegare le nostre ragioni. Lupi ed orsi sono tornati grazie a fondi comunitari assai generosi, che hanno spinto - moltissimo per il lupo, visti i soldi in ballo - per riavere questi animali in effetti uccisi in passato dai montanari.
Il problema è che, in assenza di competitori in natura perché sono predatori primari o superpredatori , questi animali si riproducono in maniera impressionante ed essendone vietata la caccia la loro espansione non è controllata dall’uomo, il solo a poterlo fare. Questo significa che attività tradizionali come l’allevamento del bestiame contano danni crescenti e qualunque barriera come reticolati elettrici e cani pastori non bastano per arginare le predazioni. Esistono in più crescenti paure nelle popolazioni locali e anche nei turisti che devono fare i conti con la la loro presenza. Certo fanno più paura gli orsi già dimostratisi letali, ma anche i lupi incutono un legittimo timore e dipingerli come innocui è ridicolo perché la pericolosità è incisa nelle cronache del passato. Ma chi non ci vuole sentire dipinge questi animali come docili agnellini cui non infliggere un limite al suo incremento demografico e la colpa dei loro comportamenti di predazione sta nei nostri comportamenti!
Quando le autorità locali pretendono risposte dalla autorità nazionali ed europee su prende tempo e il Piano Lupo atteso da Roma per prelievi ragionevoli per gli eccessi dei grandi predatori giace inanimato. Le delibere per abbattimento di orsi confidenti, cioè che minacciano l’uomo, o assassini, perché hanno ucciso, finiscono per essere bloccate dalla Magistratura amministrativa, che entra a piedi uniti nelle decisioni politiche. L’Europa sa bene che dovrebbe essere modificata la normativa di protezione assoluta di lupi e orsi ma aspetta anche lei per evitare le polemiche degli animalisti, mentre Paesi dell’Unione si muovono in proprio. Questo non vuol dire stragi, ma prelievi ragionati sulla base dei comportamenti dei singoli lupi.
Ora una legge provinciale di Bolzano non impugnata dal Governo (e dunque a quel modello ci si potrà adeguare come Speciali) potrebbe aprire uno spiraglio, consentendo abbattimenti del lupo anche senza i pareri dati entro un certo tempo prefissato da quello strano ente nazionale che è l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), emanazione del Ministero dell’Ambiente.
Un bel misto di caos politico-amministrativo che consente di non decidere e chi lo scrive viene indicato da minoranze chiassose come un cattivo che non vede l’ora di veder scorrere il sangue di animali santificati in una evidente logica di rottura fra Montagna e Pianura.
Questo è l’aspetto politico più rilevante, perché dimostra una crescente incomprensione fra chi vorrebbe una montagna alpina disabitata e “selvaggia” e chi ritiene che debba essere viva ed abitata, pur nel mantenimento degli equilibri naturali. Una sfida culturale e politica da affrontare una volta per tutte.

Senza danza della pioggia…

Pensa che polemiche, quali Comitati nascerebbero, quanti firmatari di una petizione, marce silenziose di protesta, denunce a tutte le magistrature terracque, sit-in con cartelloni e via di questo passo con catene di Sant’Antonio sui Social con flash mob e profluvi di comunicati stampa attaccanti.
Se…se uno si svegliasse un mattino e dicesse: abbiamo in Valle d’Aosta un gruppo scientifico che sta studiando modalità per far nevicare dal cielo in annate in cui a pensarci non è la Natura. Non mi riferisco alla santa neve dei cannoni artificiali, ma alla neve neve.
Ci pensavo - devo precisare che scherzo, anche se mai dire mai - rispetto ad un articolo di Le Monde.
Si occupa di un pallino dei cinesi il giornalista Lan Wei: ”Modifier artificiellement la météo, faire tomber la pluie et répondre ainsi aux besoins de sa population et de son économie : telle est l’ambition affichée par l’Agence météorologique chinoise, qui a lancé son premier plan national en ce sens fin 2019. La presse étrangère s’en est émue, pas les Chinois, tant le « ren gong zeng yu », ou le renforcement artificiel des précipitations, était déjà une pratique courante dans le pays”.
Poi spiega il giornalista: ”La technique employée consiste à ensemencer les nuages afin de provoquer les précipitations avec l’injection de particules de sel ou d’iodure d’argent par avion, roquette ou appareil diffusant la fumée depuis le sol. Cela fait plus d’un siècle que les scientifiques étudient les dispositifs de modification météorologique et la Chine se positionne aujourd’hui comme le leader mondial de cette pratique. Historiquement, les ressources en eau sont très inégalement réparties dans le pays – la moitié nord en dispose de moins de 20 %. Mais, avec la pression du réchauffement climatique, même les provinces du Sud ont gravement souffert de la sécheresse de 2022”.
Il tema è ben noto in molte altre zone del mondo, pur con diversa gravità. E ricorda che questa storia di ”bombardare” il cielo è una storia di cui avevo già letto nel passato remoto.
Cosa capita? Così l’articolo: ”Chaque ville chinoise dispose d’un plan local d’ensemencement des nuages, dont la mise en œuvre est assurée par les fonctionnaires et chercheurs, en coopération avec les militaires. Entre juin et novembre 2022, l’ensemencement effectué par 241 vols d’avion et 15 000 lancements de roquettes aurait provoqué « 8,56 milliards de tonnes de pluies supplémentaires » dans le bassin du fleuve Yangtze, d’après Le Quotidien du Peuple”.
Non si tratta di scelta solitaria: ”Mais la Chine est loin d’être la seule à vouloir exploiter les nuages à son avantage. Etats-Unis, Emirats arabes unis, Russie, Arabie saoudite, Afrique du Sud, Thaïlande, Mexique… Plusieurs pays ont des programmes visant différents objectifs : diminuer l’impact de la sécheresse sur les activités agricoles, sécuriser l’approvisionnement en eau potable, lutter contre les feux de forêt, conserver et restaurer les écosystèmes… En France, l’ensemencement des nuages est réalisé dans une vingtaine de départements par l’Association nationale d’étude et de lutte contre les fléaux atmosphériques et l’entreprise Selerys. Le but est de prévenir des dégâts potentiels dus à la chute de grêlons dans les champs agricoles au printemps et en été ».
Insomma: l’ambizione di controllare di più anche certi fenomeni atmosferici potenzialmente disastrosi, come ben vediamo anche sulle Alpi.
Ma Wei scrive più avanti anche dei dubbi in merito a certe pratiche: ”Si beaucoup rêvent de faire pleuvoir à souhait, l’homme ne peut pas créer de précipitation ex nihilo. Selon des scientifiques des Nations unies, auteurs d’un livre sur les tentatives d’exploitation non conventionnelle d’eau (Unconventional Water Resources, Springer, 2022), il est à ce jour « impossible de fabriquer un orage artificiellement ou d’altérer les vents pour transporter les vapeurs d’eau vers une région », car l’énergie nécessaire à de telles opérations serait beaucoup trop importante”.
Dopo aver elencato altri dubbi il reportage così chiarisce ancor meglio verso la fine l’andamento delle ricerche: ”Malgré leur efficacité relative, les opérations continuent dans le monde, non sans susciter des controverses. Par exemple, dans l’ouest des Etats-Unis, face à une crise de l’eau aggravée par le réchauffement climatique, le gouvernement fédéral a annoncé en mars un investissement de 2,4 millions de dollars (2,2 millions d’euros), destiné à multiplier les campagnes d’ensemencement des nuages dans les sept Etats du bassin du fleuve Colorado. Beaucoup qualifient ces programmes de « bataille des nuages », raconte Kathryn Sorensen, directrice de recherche à l’université d’Etat de l’Arizona et spécialiste des politiques de l’eau. En effet, cette pratique peut être considérée comme « un détournement efficace de l’humidité atmosphérique » au détriment des Etats ou pays voisins ».
Ma le sperimentazioni proseguono con qualche dubbio su certe sostanze adoperate: ”Dès 2006, le Centre international de recherche sur le cancer a classé le dioxyde de titane – toutes tailles confondues – comme « cancérogène possible pour l’homme ».
Dans le monde, il n’existe aucune réglementation sur l’emploi des substances chimiques à des fins d’ensemencement des nuages. Pourtant, certains chercheurs pointent les risques que présente l’iodure d’argent. Une étude publiée en 2016 dans la revue Ecotoxicology and Environmental Safety indique que l’accumulation du composé peut « modérément affecter » les écosystèmes terrestres et aquatiques.”.
Questione da seguire, insomma, con grande cautela, nella logica dei principi di precauzione, ma chissà se, affinando le modalità di intervento, non si riesca davvero a trovare soluzioni pulite ed efficaci.

Pensieri estivi sulla democrazia

I sistemi democratici prevedono il voto come passaggio per ottenere un ruolo politico . Detta così appare una evidente banalità. Ed invece è il cuore della democrazia. Anche se pende sempre la minaccia, ben visibile nel tempo in passato come oggi, di chi ottiene il potere con il voto degli elettori a suo favore e poi trasforma il regime politico in un’autocrazia. Non è un fenomeno così inusuale e per questo le riforme costituzionali vanno sempre seguire con il giusto interessamento.
Traggo da un articolo del Sole 24 Ore il più recente rapporto annuale di un noto giornale inglese: il settimanale britannico Economist, che ha compilato la classifica sullo stato di salute di 167 Paesi del mondo, dividendo i governi in democrazie piene, imperfette, regimi ibridi e autoritarismi. Ecco tutti i dati. Per quanto riguarda le Democrazie piene,  siamo intorno a quota 24, il migliore governo del mondo si conferma la Norvegia, con un punteggio globale di 9.81/10. Confermata anche la Nuova Zelanda al secondo posto, mentre l’Islanda ha superato la Svezia nell’occupazione del terzo gradino del podio. Seguono e completano la top ten Finlandia, Danimarca, Svizzera, Irlanda, Paesi Bassi e Taiwan”.
Per il resto: ”Se guardiamo al numero della popolazione mondiale, appena l’8% per cento vive in questi 24 Paesi.  Resta invece invariato il numero degli autoritarismi, 59 in totale”.
Per la cronaca l’Italia fa parte della categoria Democrazie imperfette e figura  alla 34esima posizione globale, in calo di tre posti rispetto al 2021, con un punteggio di 7.69. I meccanismi della democrazia italiana a mio avviso stanno peggiorando ancora: Parlamento sempre più indebolito, Presidenza del Consiglio affetta da gigantismo, regionalismo sempre più calpestato, classe politica in perdita di competenza.
Tornando al punto, per il politico il rapporto con gli elettori è fondamentale. Penso che debba essere basato sul rispetto. Chi ottiene un ruolo pubblico deve dimostrare di essere degno e gli elettori devono pretendere impegno e probità.
Quel che ormai mi urta è chi passa il tempo a valutare i cittadini solo nella loro veste di elettore e a occuparsi non dei loro legittimi diritti.
Molti anni fa, prima del dilagare dell’astensionismo, scriveva il politologo Norberto Bobbio: ”Nei regimi democratici, come quello italiano, in cui la percentuale dei votanti è ancora molto alta (ma va scemando ad ogni elezione), vi sono buone ragioni per credere che vada diminuendo il voto di opinione e vada aumentando il voto di scambio, il voto, per usare la terminologia asettica dei political scientist, orientato verso gli ouptut, o, per usare una terminologia piú cruda, ma forse meno mistificante, clientelare, fondato se pure spesso illusoriamente sul do ut des (sostegno politico in cambio di favori personali)”.
Un evidente malcostume che viene praticato con un evidente logica di complicità e - lo ripeto - non ha a che fare con la legittima esistenza di farsi interprete nelle Istituzioni di progetti, programmi, idee che emanano da partiti e movimenti. È invece il patto luciferino di chi si occupa questioni che ledono i diritti di altri con regalie, aiutini, spintarelle.
Ha scritto Giovanni Soriano, aggiungendo una categoria: ”Vista la mancanza di giudizio della maggior parte degli elettori, che continuano a votare anche coloro che hanno dimostrato sul campo di non meritare alcuna fiducia, c’è soltanto una categoria più dannosa dei politici corrotti, ed è quella dei politici incompetenti. Se i primi, infatti, si possono fermare col carcere – almeno in teoria –, ai secondi non c’è riparo”.

Puntuale il Ferragosto

Ferragosto coincide quest’anno per me con alcuni giorni di vacanza. Quanto ho sempre aborrito, perché costa tutto più caro e c’è troppa gente in giro.
Ha scritto bene Beppe Severgnini: “Ogni anno, all'inizio dell'estate, si leggono dotte analisi sulle ferie scaglionate, le vacanze «mordi e fuggi», le partenze ragionevoli (intelligenti, sembra eccessivo). Poi arriva Ferragosto ed è tutto come sempre: la gente, se appena può, a casa non ci sta. Mordiamo sì, ma solo se non ci lasciano fuggire lungo autostrade affollate. Non si capisce se siamo costretti o invece amiamo il rito collettivo e i suoi aspetti barbarici: resse, code, attese, sofferenze e lamentele”.
Ho sempre teorizzato l’incanto delle lunghe giornate di Giugno e la calma di Settembre. Ma i giochi ad incastro familiari mi hanno costretto al cimento e volerò distante e ne parlerò se ci saranno spunti per farlo.
Così tocca ragionare sul senso della vacanza e di quello spazio diverso dal solito per chi ha la fortuna di poterlo fare.
Inutile raccontarsi storie: tutto ormai è diverso. Un tempo la vacanza, se non domestica che è altra cosa, significava staccare davvero. Raccontare ai giovani di quel mondo incantato, fatto di cabine telefoniche e ozio senza digitale impellente, immagino che possa risultare ridicolo per chi, come ormai noi stessi, vive l’assillo della perenne connessione.
Ricordo quando vidi spuntare in mezzo agli ombrelloni- e non molti anni fa - gli antesignani dell’uso del tablet in spiaggia e quanto li trovassi volgari e inopportuni. Oggi è la normalità per tutti.
Capitava in certe escursioni di incontrare persone con cui si creavano quelle amicizie istantanee, destinate a finire con il tempo della vacanza. Oggi è rarità, essendo tutti sprofondati nel telefonino con l’ansia di non avere il segnale o la batteria bassa a rischio spegnimento.
Ci possiamo ridere e constatare quanto si sia ipocriti a fare la morale ai figli più piccoli ormai asociali seriali, ma poi da dove viene la predica se noi adulti - pure imbranati con certe novità digitali che ci obbligano al continuo apprendimento - facciamo persino peggio. Vittime come siamo di un assillo trasformatosi in dolce dipendenza.
Così la vacanza stessa si trasfigurare e diciamocelo chiaro e tondo: non ci si riposa mai, perché non si stacca come avveniva in passato.
In salsa vacanziera emerge il tema che fa impallidire la lotta dura e pura sul salario minimo, che sarà pure condivisibile (e tra parentesi dovrebbe essere terreno sindacale), perché ormai l’argomento a tutela di tutti sarebbe il sacrosanto diritto alla disconnessione. Sarebbe un marameo alla mail che arriva, al Whatsapp che spunta, alla call cui non si può mancare, al Social che pulsa nelle nostre mani. Quel che pareva all’inizio un Paradiso è oggi un Inferno, che non ti consente di sgombrare la mente da molti pensieri e di esercitare il diritto da mettere in Costituzione del “far niente” nelle feste più o meno comandate.
Mi sentirei talvolta di essere un luddista o un sabotatore e buttare in mare o in dirupo montano telefonino e IPad e so di non potere farlo non per logica o diritto, ma perché queste diavolerie mi stregano e mi impediscono di essere libero di godermi la vacanze e il già evocato ozio.
Che non è un disastro, ma andrebbe gestito con altre curiosità che non siano l’ipnosi da Web e affini. Scriveva Bertrand Russel, prima della schiavitù digitale: “Essere capaci di riempire intelligentemente le ore di ozio è l’ultimo prodotto della civiltà, e al giorno d’oggi pochissime persone hanno raggiunto questo livello”.
Figurarsi cosa direbbe oggi di noi ingobbiti sui dispositivi che perdiamo panorami, luoghi, pensieri in libertà e tutto quello che la vita in vacanza ci propone con proposte diverse dal solito tran tran.

Parole in disuso

Le parole sono frecce, proiettili, uccelli leggendari all’inseguimento degli dei, le parole sono pesci preistorici che scoprono un segreto terrificante nel profondo degli abissi, sono reti sufficientemente grandi da catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte le parole non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilità.
(Jón Kalman Stefánsson)

Mi sono messo a ragionare in un momento di calma piatta sulle parole, cui dedicherò non solo oggi qualche pensiero.
Partirei da una spiegazione dotta della Treccani, che così sintetizza sulla lingua italiana: ”Possiamo immaginare la lingua come una enorme torta. Una fetta di questa torta è costituita dal Lessico comune, costituito di circa 47.000 vocaboli, conosciuti e adoperati da chi ha un’istruzione medio-alta (a prescindere dalla professione esercitata e dagli interessi personali). Diciamo che queste parole vengono usate non molto spesso, ma rendono il discorso più ricco, vario e preciso. Però, a ben guardare, le “parole che usiamo in genere” sono molte di meno ma coprono comunque praticamente tutte le necessità del vivere quotidiano. Queste parole costituiscono un’altra fettina della torta. Si tratta del Vocabolario di base della nostra lingua: 6.500 parole, con le quali copriamo il 98% dei nostri discorsi”.
Leggo poi di una parte di popolazione che si accontenta e si destreggerebbe nei dialoghi con non più di 800 parole…
Dando un’occhiata in giro, trovo elenchi vari di parole considerate ormai defunte e penso che ognuno di noi potrebbe aggiungere.
Il de profundis varrebbe ad esempio per: Abbacinare: accecare, ingannare, abbagliare momentaneamente; Ingramagliare: vestirsi a lutto; Sagittabondo: che scocca sguardi che fanno innamorare; Tornagusto: stuzzichino, cibo che stimola l’appetito; Sgarzigliona: prosperosa fanciulla; Sacripante: briccone, uomo grande e grosso.
La prima in elenco l’ho usata, le altre mai, l’ultima l’ho sentita come esclamazione ormai sostituita da parolacce che sono state sdoganate.
Altre parole considerare defunte: Inanità: vacuità, inutilità; Pletorico: eccessivo, esagerato, più numeroso del necessario; Trasecolare: allibire, rimanere sconcertato, sbalordito; Bislacco: comportamento molto bizzarro, tipo strambo; Luculliano: pasti raffinati, lussuosi, costosi e abbondanti.
Confesso le mie colpe: mi capirà di usarle, anche se ammetto che sono piuttosto desuete.
L’elenco prevede ancora: Smargiasso: persona che ingigantisce le sue qualità, che si vanta di imprese o capacità  inventate; Ineluttàbile: difficoltà contro cui non si può lottare, problemi che non non si possono contrastare, quindi inevitabili; Gargantuesco: nel dizionario si definisce con questa parola ciò che ha dimensioni esagerate, smisurate, gigantesche; oppure una mangiata abbondante, un’abbuffata; Sciamannato: trasandato, disordinato, trascurato nell’aspetto; Obnubilarsi: capacità di vedere e comprendere indebolita, offuscata.
In effetti sono parole non molto comuni, come Lapalissiano: di cosa o fatto scontato, del tutto evidente; Pleonastico: ridondante; Artefatto: affettato, artificioso; Trasecolare: rimanere sconcertato, sbalordito, allibire; Apostrofare: assalire qualcuno con tono brusco e deciso, con discorsi nervosi, concitato; Forbito: accurato, elegante, ma eccessivamente lezioso: Solipsista: chi non vede che il proprio mondo, atteggiamento di soggettivismo estremo, chi è troppo concentrato su se stesso e ignora gli altri; Meditabondo: immerso nei propri pensieri, assorto.
È bello pensare alle parole come viventi, come sono nate sono morte, viventi nel passato e proiettate nel futuro, brave ad attraversare le frontiere e passare così da una lingua ad un’altra, cangianti nel loro significato, scolpite nella pietra e impallidite negli inchiostri, urlate e sussurrate, nell’Odio e nell’Amore.
Vivono nelle nostre vite e non si fanno imprigionare.
Fa sorridere l’avvocato Mario Postizzi: “Nel vocabolario le parole sono allineate, stanno sull’attenti, hanno la faccia pulita. Appena si incrostano di realtà, rompono le righe e si liberano disordinatamente nelle piazze: allentano cintura e cravatta, mostrano la lingua e si sporcano le mani”.

L’irrazionale

I giornali quotidiani sono alla ricerca di nuovi equilibri. La versione cartacea soffre dei ritardi fra stampa, distribuzione e lettura e quella digitale è stenta a trovare una propria via originale. Si aggiunge, facendomi orrore, l’idea che le redazioni si stiano smaterializzando con logiche di smart working che non consentiranno più quel mix di personalità e di esperienza di un lavoro collettivo, che dev’essere in presenza!
La stessa logica di rapporto con le novità tecnologie e nei sistemi di lavoro colpisce i settimanali con un grande vantaggio: tocca loro il tempo importante di approfondimento, che è meno colpito dalla crescente velocità dei tempi del mondo dell’informazione.
Ci pensavo leggendo L’EXPRESS che si occupa in due articoli arricchenti di quei fenomeni irrazionali che picchiano duro. Bastano alcuni spunti per far girare le rotelle del nostro cervello e fare i necessari legami con la nostra vita quotidiana.
Scrive in un passaggio di un suo articolo Stéphanie Benz: “C’est un fait : médiums, sorcières, magnétiseurs, et paranormal n’ont jamais été autant à la mode. Il ne faut pas s’en étonner, mais peut-être faut-il s’en inquiéter. Même si les sociologues n’y voient que des « croyances à moitié » (« Je sais bien que c’est faux, mais… »), ils constatent aussi que cet engouement va souvent de pair avec une méfiance à l’égard de la science, de la médecine et plus largement de toutes les autorités établies. Avec, à l’extrême, des liens avérés avec le complotisme et les mouvements identitaires les plus rances. Il faudra plus qu’un coup de baguette magique pour assister à un retour de la raison. Celui-ci est pourtant souhaitable”.
Già, la razionalità messa troppo spesso all’angolo con molti - intelligenti e preparati - che si fanno prendere per il naso e inseguono fantasmi ben presentati e dunque ci si infila in strade prive di fondamento.
Più avanti, sfogliando la rivista, spuntano gli extraterrestri e scrive Sylvain Fort, che parte dall’ultimo passaggio negli Stati Uniti: “Le Congrès des Etats-Unis décida d’auditionner David Grush, ancien militaire de l’US Air Force et officier de renseignement. David Grush comparaissait sous serment, flanqué de deux autres grands témoins, David Fravor et Ryan Graves, anciens pilotes de l’US Air Force. Questionnés sérieusement, les trois hommes affirment avoir la certitude que les services américains possèdent des débris de vaisseaux extraterrestres et ont pu recueillir les créatures qui les pilotaient. Ils prétendent même en avoir la preuve, sans en avancer réellement aucune. Le sérieux de ces trois anciens militaires n’avait jamais été démenti quand ils étaient dans l’armée. Qu’ils aient perdu le sens commun depuis est une hypothèse.
Cette audition est le fruit de la diffusion publique d’images captées par des navires de guerre américains de ces UAP (Unidentified Aerial Phenomena), ayant conduit le Pentagone à admettre qu’il abritait une cellule dédiée à la recherche sur ce sujet. Cette audition devant le Congrès n’est donc pas tombée du ciel (si j’ose dire). Elle est le résultat d’une campagne menée méthodiquement par des individus convaincus que le gouvernement américain possède des informations qu’il est temps de mettre sur la place publique, et qui ont joué les lanceurs d’alerte”.
Il ragionamento più avanti convince:
“Nous aurions presque envie que tout cela soit vrai. Pourquoi ? Eh bien parce que nous vivons une époque où l’humanité aura rarement eu aussi peur d’elle-même. Guerre nucléaire, intelligence artificielle, fanatismes, réchauffement climatique : nous avons nous-mêmes créé les monstres qui nous empêchent de dormir. Pour cela, l’humanité se déteste”.
Ecco dunque sperare nelle civiltà aliene: “Elles ont cette vertu immense de nous faire croire que l’humanité terrestre présente encore un certain intérêt aux yeux de civilisations lointaines et avancées, qui viennent la visiter avec une discrétion et une patience d’entomologiste”.
Interessante il parallelo fra i misteri di un’Universo che mi ed ora non risponde all’ipotesi di altre forme di vita con cui confrontarci e il baratro di mondi irrazionali che ci costruiamo noi con i piedi sulla Terra.

Condividi contenuti

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri