blog di luciano

I diversi volti del maschilismo

Le tragiche circostanze della morte di Giulia Cecchettin hanno acceso un dibattito finalmente forte e vedremo quanto episodico sulla violenza contro le donne.
Non mi soffermerò sulle questioni linguistiche. Trovo, però, che il termine “maschilismo” sia più immediato di quella parola “patriarcato” che mi convince poco.
Restano le morti che punteggiano il calendario e che mostrano un fenomeno reale e grave. Chi di fronte a certe vicende - è capitato purtroppo anche nel Consiglio regionale valdostano - si arrampica su certi sofismi fuori luogo sembra vivere chissà dove.
La realtà è che non saranno gli inasprimenti delle pene come sola misura a far entrare nella zucca di certi potenziali aggressori la gravità delle violenze contro le donne. Come prima misura si è dato alla scuola un ruolo capitale e, per carità, ci sta che questo avvenga, ma resto convinto che nell’educazione familiare si giochi la prima partita. Così come una seconda urgenza è rispondere meglio sul terreno delle malattie mentali - un tempo risolto in gran parte con la segregazione dei “matti” in terribili manicomi - ben espresso in termini generali da una lettera firmata “due genitori disperati” sul Corriere, che riporto.
“Scrivo questa lettera perché sto cercando aiuto. Io e mia moglie stiamo vivendo un incubo da tre anni, da quando nostro figlio maggiorenne all’improvviso ha deciso di interrompere gli studi all’ultimo anno, per farsi la sua strada nel campo dell’arte a Milano (noi abitiamo in Veneto). Si è trasferito con il nostro aiuto per trovare un monolocale, sperando, come ci aveva promesso, che avrebbe finito gli studi online e avrebbe trovato un lavoro per mantenersi. Gli studi non li ha completati, non è stato in grado perché stava male e non ce ne siamo purtroppo accorti; ha iniziato a fare anche due lavori al giorno per potersi mantenere, ma con la malattia che stava esplodendo non riusciva a conservarli. Mio figlio è affetto da una patologia psichica dalla quale non si può guarire, si può solo curare se si accetta la malattia e quindi si decide di curarsi per poter avere una vita dignitosa. Ma, grazie alla legge vigente, «diritto dell’individuo di decidere se curarsi», una persona maggiorenne non può essere obbligata a farlo, nemmeno per patologie mentali. Esiste solo il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio, mio figlio ne ha fatti già due), ma quando la terapia fa effetto se il paziente decide di firmare i medici sono obbligati a dimetterlo. E poi si ricomincia all’infinito. Noi abbiamo il cuore spezzato, non possiamo più averlo a casa se non si è curato (e poi deve continuare a curarsi), abbiamo per la prima volta paura anche per la nostra incolumità. Tutto ciò mi fa una tristezza unica: i nostri genitori ci hanno consegnato un mondo migliore di quello che stiamo consegnando ai nostri figli. Siamo una generazione che ha fallito con i figli (non tutti per fortuna), io sicuramente perché non sono riuscito a salvare mio figlio quando ero in tempo, e non sono stato in grado di leggere i segnali che mi mandava”.
Altro filone quello del direttore di Repubblica Maurizio Molinari che segnala come sia alta la percentuale dei giovani che uccidono le donne: “Non c’è alcun dubbio sul fatto che i femminicidi nascono dall’assenza di rispetto nei confronti delle donne - e ciò attraversa ogni categoria sociale, anagrafica e geografica - ma è doveroso porre l’interrogativo sul perché tale aberrazione abbia contagiato i più giovani fra noi: coloro che dovrebbero essere più consapevoli dell’importanza dei diritti e dei doveri che garantiscono sicurezza e prosperità nelle nazioni democratiche. E’ una domanda lacerante perché chiama in causa tutti noi: non solo i giovani violenti ma anche i loro genitori, insegnanti, amici, compagni di sport, gite o qualsiasi altra attività. Come è possibile che il delitto più antico e feroce - il femminicidio - sia oggi commesso da un nativo digitale come se si trattasse di un barbaro dell’antichità? Quale è il vettore attraverso cui questa versione ancestrale del disprezzo per la vita ha contagiato i più giovani fra noi nel bel mezzo dell’avveniristico XXI secolo?“.
Molinari propone una tesi: “Credo che la risposta debba venire da quegli studi che indicano come nelle democrazie avanzate la tipologia più comune di aggressione del prossimo fra i giovani è il bullismo digitale. Ad esempio, in Italia nel 2020 ben il 45% dei giovani fra i 13 ed i 23 anni hanno affermato di aver subito atti di cyber bullismo. La possibilità di usare il web, i social network, per aggredire amici e coetanei è una modalità di violenza che dilaga fra i giovanissimi, li fa crescere nella dipendenza da immagini offensive ed aggressive, e consente di esercitare il Male contro chiunque dal segreto del proprio schermo, della propria camera, trasformando la solitudine in un’arma tanto spietata quanto creativa.
Una delle declinazioni più comuni del bullismo digitale sono le aggressioni sessuali, basate su immagini oscene e frasi aberranti, e tanto più questa violenza diventa abituale tanto più si cresce in un habitat suddiviso fra chi commette e chi subisce tali aggressioni. Ma non è tutto perché ad alimentare il bullismo, che crescendo si può trasformare in intolleranza e violenza fisica, è la carenza di conoscenza sempre più diffusa fra chi cerca nello schermo digitale la risposta ad ogni domanda.
Senza più dedicare tempo e concentrazione a leggere libri, guardare film, ascoltare concerti o semplicemente assistere ad eventi sociali, basati sull’interazione e sulla creatività umana. Per il nativo digitale il pericolo più grande è crescere, maturare, nella convinzione che il tempo è composto da frazioni istantanee, destinate ad essere consumate all’unico fine di provare emozioni sempre più intense, drammatiche, fino a sconfinare nella violenza”.
È una ricostruzione su cui riflettere, che implica il tema importante dell’educazione al digitale e alla sua importanza. Su questo bisognerà lavorare sempre più.
P.S.: nel frattempo CasaPound all’Arco di Augusto di Aosta espone uno striscione («Ma quale patriarcato, questo è il vostro uomo rieducato») che mostra la pochezza dei neofascisti e la loro ignoranza squadrista

Sulle montagne l’ombra delle guerre

Si avvicina l’11 dicembre, Giornata internazionale della Montagna, che festeggio - da politico o giornalista a seconda del momento - nel ricordo dell’Anno Internazionale delle Montagne 2002 sin da quando fui Presidente del Comitato italiano.
Negli ultimi due anni, con diverse personalità, ho organizzato serate di avvicinamento.
Tornando indietro nel tempo, ricordo invece una bella pubblicazione sulle Montagne del Mondo, che all’epoca curammo e ritrovo nella introduzione che scrissi dei miei pensieri, che mostrano una certa visione, pensando che risalgono a vent’anni fa.
Scrivevo: “Con l'eccezione della Svizzera e con l'indeterminatezza dell'apertura dell'Unione all'Est europeo, le principali montagne dell'Europa sono già nell'attuale configurazione istituzionale europea e la nostra impressione è che spetti ormai a Bruxelles e Strasburgo fissare alcuni elementi, tra i quali la classificazione e l'eccezione rispetto ai montanti di sostegni pubblici, che consentano di avere una politica europea per la montagna. E spettano anche all'Europa quelle scelte strategiche volte ad impedire che le zone di montagna diventino un luogo di eccessivo transito di mezzi pesanti che trasportano le merci, con una riflessione rispetto a questo ruolo di terra di transito anche per le direttrici ferroviarie”.
Poi ci fu l’allargamento e oggi l’Unione europea ha più montagne di quanto ce ne fossero al tempo!
Scrivevo più avanti, quando - ci tengo a segnalarlo - certe tecnologie muovevano i primi passi: “Penso ad Internet come esemplificazione di nuove opportunita che diano alla montagna più chances per ovviare a quelle solitudini innescate da certi modelli esterni, politici e culturali, spesso imposti alla montagna. E non preoccupiamoci del mito della globalizzazione come distruzione di ogni specificità. Anzi, è assai probabile che il futuro delle Euroregioni consenta alla montagna di assumere quel ruolo di cerniera che le è proprio e di finirla con la triste considerazione di essere il luogo più distante e marginale rispetto agli Stati nazionali così come erano concepiti in passato. Penso, perché è il mio Paese d'appartenenza, allo sforzo che le comunità locali stanno facendo nell'Espace Mont Blanc, la cui altimetria resta una straordinaria ricchezza per l'Europa, così come - e ciò è valido per tutte le montagne - il patrimonio di paesaggi, architetture, monumenti, persone”
A quel tempo erano in corso i tentativi di scrivere dei territori della montagna nei Trattati europei, quanto poi concretizzatosi nell’articolo 174, ma già la speranza era viva: ”Questa politica europea non potrà, ovviamente, essere chiusa in se stessa, ma dovrà essere inserita in una Internazionale della montagna che inquadri con esattezza temi planetari quali la protezione dell'ambiente, la tutela della biodiversità, la cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, una politica cioé che dia alle zone di montagna quel quadro di pace indispensabile per qualunque passo avanti. Decisivo è anche il privilegio di poter adoperare oggi, in molte delle zone montane extraeuropee, quel patrimonio di conoscenze - errori compresi - accumulato nell'esperienza delle Alpi”.
Già, la pace. Tema di grandissima attualità e chissà che non risulti utile nel 2025 ricordare gli 85 anni da quando gli altoparlanti ad Aosta nell’allora piazza Carlo Alberto (oggi piazza Chanoux) risuonarono queste parole: ”Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno di Albania! Ascoltate! L’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia». Con questo celebre discorso, pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940, Mussolini rompeva ogni indugio: l’Italia entrava in guerra al fianco dell’alleato nazista e fu, con un fronte sulle nostre montagne, la “pugnalata alle spalle”
Già la guerra si combatte e si è sempre combattuta sulle montagne, frontiere fra Paesi. Vengono in mente le battaglie di alta quota fra in India e Pakistan, alle alture del Golan fra Israele e Siria o alle minoranze vittime degli Stati, pensando ai curdi senza Nazione o ai montagnards del Vietnam. Ci sono state guerre vere e proprie in Afganistan, sui Balcani, in Caucaso, in Africa e l’elenco potrebbe essere purtroppo ancora più circostanziato.
L’altra sera, nella già citata rassegna preparatoria della giornata clou, con il pubblico presente abbiamo ascoltato la giornalista Laura Silvia Battaglia, che ha lavorato su diversi scenari di guerra, segnalando con grande umanità gli orrori del Paese in cui ha vissuto e si sposò, lo Yemen, vittima di sanguinose lotte tribali. Mentre il mio amico Stefano Torrione ha ricordato la sua ricerca e le straordinarie fotografie sul fronte alpino a Nord-Est della Prima guerra mondiale con luoghi e cimeli che mostrano bene il genius loci.
Per non dimenticare orrori passati, che rivediamo nelle immagini terribili della vicina Ucraina e in Israele-Gaza.

Sulle montagne l’ombra delle guerre

Si avvicina l’11 dicembre, Giornata internazionale della Montagna, che festeggio - da politico o giornalista a seconda del momento - nel ricordo dell’Anno Internazionale delle Montagne 2002 sin da quando fui Presidente del Comitato italiano.
Negli ultimi due anni, con diverse personalità, ho organizzato serate di avvicinamento.
Tornando indietro nel tempo, ricordo invece una bella pubblicazione sulle Montagne del Mondo, che all’epoca curammo e ritrovo nella introduzione che scrissi dei miei pensieri, che mostrano una certa visione, pensando che risalgono a vent’anni fa.
Scrivevo: “Con l'eccezione della Svizzera e con l'indeterminatezza dell'apertura dell'Unione all'Est europeo, le principali montagne dell'Europa sono già nell'attuale configurazione istituzionale europea e la nostra impressione è che spetti ormai a Bruxelles e Strasburgo fissare alcuni elementi, tra i quali la classificazione e l'eccezione rispetto ai montanti di sostegni pubblici, che consentano di avere una politica europea per la montagna. E spettano anche all'Europa quelle scelte strategiche volte ad impedire che le zone di montagna diventino un luogo di eccessivo transito di mezzi pesanti che trasportano le merci, con una riflessione rispetto a questo ruolo di terra di transito anche per le direttrici ferroviarie”.
Poi ci fu l’allargamento e oggi l’Unione europea ha più montagne di quanto ce ne fossero al tempo!
Scrivevo più avanti, quando - ci tengo a segnalarlo - certe tecnologie muovevano i primi passi: “Penso ad Internet come esemplificazione di nuove opportunita che diano alla montagna più chances per ovviare a quelle solitudini innescate da certi modelli esterni, politici e culturali, spesso imposti alla montagna. E non preoccupiamoci del mito della globalizzazione come distruzione di ogni specificità. Anzi, è assai probabile che il futuro delle Euroregioni consenta alla montagna di assumere quel ruolo di cerniera che le è proprio e di finirla con la triste considerazione di essere il luogo più distante e marginale rispetto agli Stati nazionali così come erano concepiti in passato. Penso, perché è il mio Paese d'appartenenza, allo sforzo che le comunità locali stanno facendo nell'Espace Mont Blanc, la cui altimetria resta una straordinaria ricchezza per l'Europa, così come - e ciò è valido per tutte le montagne - il patrimonio di paesaggi, architetture, monumenti, persone”
A quel tempo erano in corso i tentativi di scrivere dei territori della montagna nei Trattati europei, quanto poi concretizzatosi nell’articolo 174, ma già la speranza era viva: ”Questa politica europea non potrà, ovviamente, essere chiusa in se stessa, ma dovrà essere inserita in una Internazionale della montagna che inquadri con esattezza temi planetari quali la protezione dell'ambiente, la tutela della biodiversità, la cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, una politica cioé che dia alle zone di montagna quel quadro di pace indispensabile per qualunque passo avanti. Decisivo è anche il privilegio di poter adoperare oggi, in molte delle zone montane extraeuropee, quel patrimonio di conoscenze - errori compresi - accumulato nell'esperienza delle Alpi”.
Già, la pace. Tema di grandissima attualità e chissà che non risulti utile nel 2025 ricordare gli 85 anni da quando gli altoparlanti ad Aosta nell’allora piazza Carlo Alberto (oggi piazza Chanoux) risuonarono queste parole: ”Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno di Albania! Ascoltate! L’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia». Con questo celebre discorso, pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940, Mussolini rompeva ogni indugio: l’Italia entrava in guerra al fianco dell’alleato nazista e fu, con un fronte sulle nostre montagne, la “pugnalata alle spalle”
Già la guerra si combatte e si è sempre combattuta sulle montagne, frontiere fra Paesi. Vengono in mente le battaglie di alta quota fra in India e Pakistan, alle alture del Golan fra Israele e Siria o alle minoranze vittime degli Stati, pensando ai curdi senza Nazione o ai montagnards del Vietnam. Ci sono state guerre vere e proprie in Afganistan, sui Balcani, in Caucaso, in Africa e l’elenco potrebbe essere purtroppo ancora più circostanziato.
L’altra sera, nella già citata rassegna preparatoria della giornata clou, con il pubblico presente abbiamo ascoltato la giornalista Laura Silvia Battaglia, che ha lavorato su diversi scenari di guerra, segnalando con grande umanità gli orrori del Paese in cui ha vissuto e si sposò, lo Yemen, vittima di sanguinose lotte tribali. Mentre il mio amico Stefano Torrione ha ricordato la sua ricerca e le straordinarie fotografie sul fronte alpino a Nord-Est della Prima guerra mondiale con luoghi e cimeli che mostrano bene il genius loci.
Per non dimenticare orrori passati, che rivediamo nelle immagini terribili della vicina Ucraina e in Israele-Gaza.

Il discorso immaginario di Sinner

Ho giochicchiato a tennis da ragazzo ed erano sfide stremanti con cugini e amici. Ero anche un discreto tifoso e andai a Praga nel 1980 per una sfortunata finale di Coppa Davis per la squadra azzurra. Poi ho ripreso qualche tempo fa, ma ho smesso perché mi dava qualche fastidio alla schiena. Da bambino, quando lo sport era in grande auge, ricordo le estati ai tennis a San Lazzaro di Imperia. Era il classico circolo, dove si passava il tempo in una logica da ozio vacanziero. Il tennis aveva in sostanza una logica sociale, un pelino snob. Ho poi seguito questo sport con l’ultimo dei miei figli con pomeriggi passati in tornei di bimbetti con divertente visione più dei genitori che dei piccoli. La categoria più nociva è quella di chi spingeva i figli come se si trattasse della finale di Wimbledon. Quel che mi piaceva del tennis d’antan era una qual certa eleganza e il bon ton fra avversari, almeno in teoria. Tutto peggiora…
Di sicuro nelle prossime settimane le scuole di tennis vedranno una crescita enorme di nuovi praticanti alla luce dei successi e del crescendo del giovane sudtirolese Jannik Sinner.
Un campione che darà grandi soddisfazioni allo sport italiano, ma con un neo. Non mi riferisco naturalmente al suo italiano zoppicante, perché Sinner appartiene alla minoranza linguistica del SüdTirol e dunque non ci si deve affatto stupire e chi lo fa è irrispettoso e tenere conto della sua madre lingua.
Il punto invece - e non è la prima volta che se ne occupa - è quello ripreso da Aldo Cazzullo sulla posta del Corriere, quando immagina un discorso di Sinner dopo una vittoria non avvenuto a Torino contro Novak Djokovic.
Così avrebbe immaginato l’intervento al microfono: “Vi ringrazio per il vostro sostegno. L’ho avvertito con chiarezza, sia qui dentro il palazzetto, sia nel Paese. Mi sono sentito parte di una comunità nazionale, di qualcosa che va oltre me stesso. Dovete capirmi: vengo da una terra di frontiera, dove l’italianità non è sempre e dappertutto molto sentita. Tre anni fa avevo portato la residenza fiscale a Montecarlo. Non ho fatto nulla di illegale: la legge lo consente. Non sono certo il primo. Avrete letto qualche giorno fa sul Corriere l’intervista di Daniele Dallera a Max Biaggi, che rivendicava con orgoglio la mia stessa decisione, presa molti anni prima e mai rinnegata. Io di anni ne ho ventidue. Sono un atleta leale, come avete visto: potevo farmi battere da Rune per non incontrare più Djokovic, e non l’ho fatto. Ma sono appunto un atleta; non mi occupo di fisco. Sono concentrato sul tennis, com’è giusto che sia. La scelta di Montecarlo è stata presa da altri: sono solo un ingranaggio di una macchina complessa, di cui approfittano non soltanto gli sportivi, ma anche persone molto più ricche di noi, che pure non ce la passiamo male. Da domani però riporterò la residenza fiscale nel mio Paese, che tanto mi ama, e invito il mio amico Matteo Berrettini e tutti gli altri a fare altrettanto. So che dovrò versare allo Stato la metà di quello che incasso. Sarà un grosso sacrificio, anche se certo inferiore a chi guadagna 50 mila euro lordi all’anno, e dallo Stato italiano è considerato un ricco da tassare al 43%, più le addizionali. Però sarò felice al pensiero che le tasse da me versate possano servire a guarire bambini malati come quelli dell’ospedale Regina Margherita che ci hanno accompagnato in campo in questi giorni, o istruirne altri, o garantire la loro sicurezza grazie alle forze dell’ordine. Sento un brusio nel pubblico, forse pensate che stia facendo retorica? Andate in qualsiasi ospedale italiano, e capirete che la necessità di letti e macchinari, di medici e infermieri, non è retorica, è carne e sangue, è vita e morte. Io, ripeto, ho solo ventidue anni, di medici non ho bisogno, e comunque posso pagarmeli. Ma tanti altri no. E quando fai parte di una comunità, devi occuparti anche dei più piccoli, dei più fragili, dei più deboli; non solo con la beneficenza, che è un’altra cosa. Qualcuno mi ha detto: guarda che con le tue tasse pagheranno magari i vitalizi a qualche vecchio arnese della politica. Pazienza. Preferivo i bambini. Ma lo Stato non è altro da noi. Lo Stato siamo noi”.
Stupisce che Sinner non capisca l’antifona anche come sudtirolese che pare dalle dichiarazioni essere molto affezionato e fiero della sua Heimat, come la chiamano a Bozen e significa “la patria, intesa come tutto ciò che costituisce lo spirito, le radici, l'identità di un popolo”. Lo dico perché la quasi totalità delle tasse pagate nella sua terra natale tornano nelle casse della Provincia autonoma a beneficio della comunità che lo ha cresciuto e lo ama e invece questi soldi finiscono nelle casse del Principato di Monaco…

Elogio, quando si può, della spensieratezza

Leggo su Obs le riflessioni singolari di Mara Goyet su di un tema che mi interessa e che vorrei in parte commentare, perché riguarda la vita di ciascuno di noi e più esattamente di come dovremmo porci rispetto alla vita.
Scrive: “Quand le monde va si mal, on finit par ne plus savoir que faire de soi. Comment vivre le moment présent, le vivre justement ? Faut-il se désespérer toute la journée, continuer à être aussi joyeux que possible, passer d’une humeur à l’autre ? Doit-on bannir l’insouciance de nos existences ?”.
Che sarebbe questa insouciance (insouciance sarebbe letteralmente « absence de souci, d'inquiétude)
un misto traducibile fra spensieratezza e noncuranza, che possiamo immaginare come il perimetro in cui muoversi con i propri sentimenti.
E ancora nell’articolo: “Existe-t-elle, d’ailleurs, cette insouciance? Nous passons notre temps à regretter sa perte (l’avons-nous seulement déjà éprouvée ?) tout en la fustigeant dès qu’elle pointe le bout de son nez : peut-on décemment s’amuser l’esprit tranquille quand des enfants sont massacrés par des terroristes ou meurent sous les bombes?”.
Mi riconosco più nella spensieratezza che devono occupare gli spazi giusti che la noncuranza. Mi capita, anche in momenti difficili o in circostanze avverse, non perdere il gusto di avere, anche se magari in un momento fugace, lo stato d'animo di chi si ricava uno spazietto privo di pensieri tristi o di preoccupazioni:
Prosegue la Goyet e credo sia un riferimento utile: ”Dans un article écrit en 1916, intitulé « Les insouciants » (« le Monde de demain », indispensable et magistral recueil de textes de Zweig qui paraît aux BellesLettres), l’écrivain autrichien décrit un petit monde riche et bien portant, « butinant la vie » dans la splendeur enneigée de Saint-Moritz. Là où l’on ne « pense pas à la guerre ». La station semble « comme une huître perlière aux bords polis », tout est « éclat, soleil, lumière, pureté et sérénité ». Seule perturbation, les skieurs qui arrivent, multicolores, sonores, rapides, « rutilants comme des taches de sang sur la neige ». Il y a de la musique, des fourrures, des danses, du thé, des grelots, du luxe. La joie est si bruyante, si insolente qu’elle renvoie « à son envers, ce à quoi elle s’oppose comme un défi » : ceux qui souffrent et meurent sur le champ de bataille ; ces femmes et enfants qui errent dans les faubourgs des grandes villes.
Ce spectacle afflige l’âme de Zweig. Mais aussi, à son corps défendant, réjouit son oeil. Et suscite chez lui une certaine envie. Tout devient alors ambivalent et ce court texte, littérairement splendide, révèle encore une fois la géniale subtilité du romancier : il n’est pas question de s’en tenir à une simple et prévisible dénonciation. L’insouciance de ces gens n’est pas seulement un travers banalement humain. Elle nous ramène à ce qu’il y a de plus vital chez nous : «Et soudain on se rend compte à nouveau combien la force peut être belle quand elle n’est pas synonyme de violence, de brutalité ou de meurtre, quand elle jouit simplement d’elle-même avec la conscience d’un jeu, d’un moment d’harmonie»”.
Lo trovo un pensiero illuminante: il buio e la luce, il male e il bene, la gioia e la sofferenza. Sensazioni contrastanti che albergano nell’animo umano e ci differenziano dal resto grazie all’intelligenza umana.
L’autrice decripta questa doppiezza e il lato consolatorio, che agisce come una molla che ci spinge a elementi di speranza: “L’écrivain se retrouve ainsi partagé entre le souhait d’être «insouciant parmi les insouciants» tout en détestant leur indifférence. Son coeur balance : «L’être humain au fond de nous-mêmes nous rappelle à l’ordre comme un frère : cache-toi ! Porte le deuil!» ; mais une autre part de nous, plus égoïste, celle de la vie, nous souffle : «Pense à toi, ton deuil ne changera rien». L’une de ces voix dit que c’est dans l’affliction que l’on vivra «pleinement son époque», l’autre rétorque que c’est le plaisir qui vaincra la guerre.
L’insouciance comme le ressentiment et son «deuil inutile» sont donc des impasses. Ce qui n’empêche pas Zweig de souhaiter, en référence au festin de Balthazar dans la Bible, que s’inscrivent en lettres de feu sur un mur de ce paradis alpin, ces mots de Dante : «Non vi si pensa, quanto sangue costa» («Et personne ne songe combien de sang il en coûte»). Il faut que ce soit dit et écrit.
Ces pages magnifiques ne délivrent aucun remède, ne proposent aucune solution. A part lire ou relire Zweig. Pour se sentir moins seul. Et épaulé par cet homme éblouissant”.
La forza delle Lettere e della Cultura, entrambe elemento potente nella costruzione della nostra personalità e che la cui fonte ispiratrice offre elementi importanti per accompagnare i nostri pensieri.

Dal paradigma alla suggestione

Capisco che talvolta - sarà l’età? - rischio di essere ripetitivo. Ma torno tambour battant sulle parole.
Mario Postizzi, che scrive aforismi, ha detto: ”Nel vocabolario le parole sono allineate, stanno sull’attenti, hanno la faccia pulita. Appena si incrostano di realtà, rompono le righe e si liberano disordinatamente nelle piazze: allentano cintura e cravatta, mostrano la lingua e si sporcano le mani”.
Già, le mani! Mi viene in mente quando da deputato partecipavo alle assemblee dei sordomuti e ce n’erano che, grazie ad apposita formazione, riuscivano comunque a parlare ed altri - affascinanti i loro movimenti delle mani - comunicavano con la lingua dei disegni, disegnando appunto nell’aria i loro discorsi.
Più volte mi sono occupato della parole e della loro parabola discendente nell’uso comune. Leggevo di 250 mila unità lessicali della lingua italiana, senza contare le flessioni dei verbi e dei sostantivi: nel 2004, infatti, ammontavano a circa 2 milioni. Il livello più basso nell’uso personale sarebbe 6500, che crollano per alcuni con un vocabolario poverissimo a 2000.
Ma soprattutto ci sono delle parole star che brillano e poi, come le stelle, si trasformano e collassano.
Ha scritto sul Corriere Paolo Di Stefano: “Ecco un’altra parola che piace molto con «narrazione» e «storytelling». La parola è: «paradigma». E le espressioni più frequenti sono: «cambio di paradigma» e «nuovo paradigma». Che promettono molto senza precisare (e mantenere) niente. Si richiede ovunque un cambio di paradigma: nella salute, nella politica, nell’informazione, nel food. Il declino demografico impone un nuovo paradigma, l’educazione idem, alla difesa dei Paesi europei si impone un cambio di paradigma, così come al fisco, alle emozioni e alla psicologia. E figurarsi se l’intelligenza artificiale non obbliga a un cambio di paradigma. Persino la Pontificia Accademia di Teologia auspica un «cambio di paradigma», chiamando, come vuole il Papa, a una «coraggiosa rivoluzione culturale» verso una teologia meno astratta e più vicina ai contesti sociali. Non c’è nessuno in nessun settore pubblico e privato che non invochi un nuovo paradigma. Uno storico della scienza americano, Thomas Samuel Kuhn, elaborò nei primi anni 60 il concetto di «cambiamento di paradigma» come «rivoluzione scientifica» che supera i modelli precedenti, ormai desueti se non errati. L’uso vulgato attuale di «paradigma» non ha nulla a che fare con la scienza e ne fa piuttosto una parolina vuota e plurivalente: l’importante è affermare di volerlo cambiare, il paradigma, non importa quale, come e perché”.
Annoto che anche storytelling mi pare finito abbastanza nel dimenticatoio.
In Valle d’Aosta - e chi segue il Consiglio regionale lo sa bene - è invece esploso l’uso della parola “suggestione” come se si trattasse di “suggerimento”. È un uso che personalmente considero improprio.
La Treccani propone tre definizioni. La prima: “Fenomeno della coscienza per cui un’idea, una convinzione, un desiderio, un comportamento sono imposti dall’esterno, da altre persone (la forma estrema è la suggestione ipnotica”. La seconda: “Con significato più generico e attenuato (vicino a quello di suggestività, fascino)”. La terza testimonia l’uso che a me non piace: “Termine usato talora impropriamente con il significato. di «suggerimento» (per influenza dell’inglese suggestion, che ha questo come significato principale)”.
Nel caso valdostano è probabile che possa derivare più dall’uso simile che si fa in francese. Il fenomeno linguistico è interessante e si chiama “calco semantico”, vale a dire il caso di una parola che, avendo un suo significato in una lingua, per analogia con una parola di forma simile di un'altra lingua ne acquista un altro (che in alcuni casi finisce col soppiantare il primo).
Per cui questa spiegazione mi porterà a sopportare con pazienza la…suggestione.

La forza della condivisione

Scrivere di politica significa esporsi, dicendo qual è il proprio pensiero. Diverso è chi non lo fa e in modo spregiudicato si adegua ad un costume molto italiano, il camaleontismo. Si tratta, come noto, dell’atteggiamento mutevole e ipocrita di chi, per opportunismo e per restare a galla, muta facilmente opinioni in politica, secondo le circostanze alla ricerca di un posizionamento vantaggioso, così come fa il camaleonte nel mutare colore con una scelta di autodifesa in quel caso non deprecabile.
Avevo detto che non avrei più scritto della famosa réunion, réunification, recomposition, reconstruction o come diavolo la si voglia chiamare sinché non ci fosse stata una tappa finale del processo che tanto attendevo. Ora penso che neppure il più scettico avrebbe ragioni per tornare indietro e certo per chi scegliesse nell’ultimo miglio di trovare delle argomentazioni per farlo dovrebbe davvero arrampicarsi sui vetri e credo che ne pagherebbe un conto salato.
Per cui ora posso scriverne con chiarezza e senza infingimenti. E senza che si pensi che faccia tutto questo per interessi di bottega. Sarebbe triste che si pensasse che questa storia risultasse una specie di pantomima e non una volontà sincera.
Una delle mie speranze nel cammino per avere una sola grande casa autonomista sotto il simbolo dell’Union Valdôtaine è che si faccia questa scelta in una logica di concordia, parola che va immaginata - e lasciatemi usare un’attitudine retorica - di cuori che battono all’unisono.
Ha scritto Dante Alighieri: ”La concordia è uniforme movimento di più volontà”. Già, questo significa uno sforzo comune, che non va troppo enfatizzato, quando si tratta di raggiungere un risultato che è necessario e doveroso.
Viviamo in un mondo difficile ed è bene averne consapevolezza. Non per spaventarci di fronte a questa condizione umana purtroppo per nulla straordinaria.
La Valle d’Aosta è piccola e si sta pure restringendo con meno nati e immigrati più o meno recenti che se ne vanno. È chiaro poi come gli elementi identitari debbano fare i conti con un mondo che ci entra in casa e modifica i modi di essere.
Il teologo Ermes Maria Ronchi ha scritto: “La mia identità è in divenire perenne. Non ho un'identità da proteggere, ho un'identità da realizzare, un'identità che avanza, che cresce, che evolve. La mia identità di oggi non è più quella di ieri. Chi sono io? Sono le mie idee che ho cambiato, le emozioni che ho avuto, belle o brutte, sono la mia volontà. La mia identità è il comporsi di tutte queste cose, per cui sono braccia che si stendono, non sono radici immobili”.
Questo vale anche per una comunità e chi la vorrebbe musealizzare o farne un archetipo intoccabile è realista. Questo vale anche per un movimento politico: chi guarda a modellistiche valide in un passato assai diverso dall’oggi è destinato a perdere il contatto con la realtà. Bisogna essere contemporanei e non nostalgici, oltreché saldamente all’interno del recinto della democrazia.
Lo scrittore Raffaele La Capria esprime bene il concetto: “Un'identità forte è una finestra sul mondo, capace di includere in sé anche le altre. Se è debole, invece, si limita a glorificare se stessa, rinchiudendosi nei confini del localismo”.
Il localismo è un modo per stare chiusi come prigionieri, situazione neppure tanto rassicurante. Chi mantiene un’identità, pur cangiante nel tempo ma salda, si mostra senza complessi attento al confronto e al dialogo, fiero della propria cultura nell’interesse di conoscere quella degli altri per evitare di diventare un ramo secco.

Uomini con le mani sporche di sangue

Di questa giovane ventiduenne, Giulia Cecchettin, picchiata e uccisa a coltellate da un ex fidanzato che diceva di amarla, sappiamo ormai tutto. In particolare i contenitori tv e i telegiornali, ma pure i giornali non si sono risparmiati, e - sulla tragedia ancora in corso - sono stati intervistati parenti e amici in ore di trasmissione che cavalcavano l’emotività di un ricerca finita come sappiamo.
Come vecchio giornalista so bene che si trattava di una notizia trainante, ma c’è stata una totale mancanza di equilibrio, di deontologia e di tatto, per altro ben sapendo chiunque, dopo poco tempo, che l’epilogo sarebbe stato terribile. Invece sono stati spesi fiumi di parole con il solito triste fil rouge del “bravo ragazzo” diventato assassino e lei, la ragazza, radiografata sin nei risvolti più privati della sua vita.
Gli orrori piacciono, le vicende torve incuriosiscono, le mostruosità catturano le aperture dei Tg e le prime pagine. Un voyeurismo che ha le sue ragioni, perché informare è un dovere e lo è la cronaca nera censurata nelle dittature, ma il troppo stroppia quando si guarda dal buco della serratura, si mostrano foto e immagini personali tratte dai social, si intervista chiunque capiti a tiro per cercare scoop improbabili e guadagnare qualche punto di share.
Ho già detto che questa esaltazione di fatti che riguardano uccisioni di donne innesca - e lo dicono i numeri - processi imitativi che non sono sanabili a colpi di codice penale. Esiste qualcosa di profondo, al di là della banalità che la follia resta fra noi e non è sparita con la chiusura dei manicomi mai sostituiti da servizi efficaci e civili. Mi riferisco alla presenza crescente di uomini che perdono la ragione e questo fenomeno va indagato in profondità.
Provo un dolore profondo nel pensare a queste donne dalla vita spezzata e a leggere che la giovane laureanda uccisa subiva da tempo angherie e minacce, avvolte dall’ambigua carta regalo come alibi del grande amore. Questo ennesimo espiatorio ci porta a chiederci se questi parenti affranti e gli amici partecipi post mortem non avessero qualcosa da dire prima! I genitori del ragazzo parimenti non avevano visto in questo suo amore malato, nel carattere ombroso ora descritto un seme di una malattia evidente che forse poteva essere curata?
So quanto sia facile fare certi ragionamenti ex post, ma il numero crescente di delitti ci interroga tutti e, passato anche questo delitto in attesa di nuove vicende sanguinarie, è ora di mobilitarci ancora di più - e senza divisioni ideologiche - su quali alert mettere in campo nella quotidianità. Per evitare il triste rosario di morte per violenze che fanno orrore e di fronte alla quali ci si sente tristemente impotenti.
Ha detto lo psichiatra Paolo Crepet: "Dietro a ogni assassino c’è spesso una donna, sua madre. Un uomo che disprezza le donne è stato mal educato nella relazione con l’altro sesso dalla propria famiglia. Il contesto di provenienza è quello in cui si crede che se la donna viene trattata male, è giusto. Non si comincia a essere assassini il giorno in cui si compie il delitto, qualcosa c’è già dietro. Sono certo che se avessi modo di parlare con le ex di un giovane killer, troverei spunti di aggressività in tante altre storie".
Il suo collega Umberto Galimberti sostiene: “Gli attacchi alle donne sono spesso atroci perché gli uomini vogliono cancellare qualcosa che sentono non appartenergli più, che non comprendono e ritengono un pericolo. Contro la violenza di genere bisogna educare fin dall’asilo a passare dalla fase pulsionale, naturale e senza linguaggio, a quella sentimentale”.
Bisogna - questa la tesi - capire di più le donne e i loro sentimenti ed è - giusto ammetterlo - un percorso difficile per noi uomini e io stesso nella vita ho dovuto migliorarmi su questo terreno.
Sia chiaro, però che chi uccide o compie atti violenti, con buona pace degli avvocati difensori che spesso riversano fiotti di veleni, non potrà mai accampare neppure una briciola di giustificazione.

Sostenibilità e buonsenso

Le parole vanno e vengono e bisogna farsene una ragione. Pensiamo a “resilienza”, che è stata così abusata da finire con grande rapidità nel dimenticatoio.
Ora è subentrata la sorellastra “sostenibilità”, adoperata in tutti i contesti possibili. Nasce in quel lessico dei documenti internazionali, che poi si impone per un generale martellamento. Se si deve essere precisi spunta dall’inglese “sustainability”, ma con quarti nobili dal latino “sustinere”, che significa sostenere, difendere, favorire, conservare, prendersi cura. L’attuale concetto di sostenibilità cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente e poi rimbalza sino al successo odierno in Conferenze analoghe da Stoccolma a Rio de Janeiro. E proprio in Brasile l’abbraccio con “sviluppo”, che sortisce “sviluppo sostenibile” nella ben nota Agenda 21. Una definizione facile a dirsi, ma difficile a farsi. Sarebbe: “Uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.
Dieci anni dopo il Summinit di Rio de Janeiro, le azioni dell’Agenda 21 si sono rafforzate in occasione del vertice della Terra sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg con l’ambizione di mettere assieme le dimensioni sociale, economica e ambientale.
Da allora, in modo invasivo, il termine sostenibilità è stato incorporato e utilizzato dalla politica, dalla finanza, dai mass media sino a calarsi - come il prezzemolo - nell’uso comune e lo si vede bene da come la pubblicità di qualunque prodotto usi la parola in modo ossessivo e talvolta grottesco. Quanto durerà? Il tempo che un nuovo termine chiave si affermi, ma nel frattempo - per fare un esempio - con il “bilancio di sostenibilità” ne vedremo delle belle!
Ragionavo in giorni sulla grande dispersione di temi che la sostenibilità e i suoi principi impongono ad una piccola comunità come la nostra. Sicuramente il settore energetico è un elemento cardine e abbiamo certo la possibilità di lavorarci attraverso la strategia che la Valle d’Aosta scelse anni fa. Ne ricordo gli elementi essenziali tratti dalla premessa ai documenti ufficiali: “Con l'ambizioso obiettivo di rendere il proprio territorio "Fossil Fuel Free" entro il 2040 e di pervenire così a un nuovo modello di sostenibilità ambientale ed energetica, la Regione Autonoma Valle d'Aosta ha deciso, con un ordine del giorno approvato all'unanimità dal Consiglio regionale nella seduta del 18 dicembre 2018, di redigere una specifica Roadmap che indicasse le linee di azione da perseguire per il raggiungimento di tale risultato.
La realtà valdostana, caratterizzata da un'importante produzione di energia idroelettrica e da un ricco patrimonio forestale, si presta allo sviluppo e alla sperimentazione di politiche innovative volte a un utilizzo sempre maggiore delle fonti energetiche rinnovabili, associate però, in via prioritaria, all'efficientamento e alla riduzione dei consumi energetici in tutti i settori.
Al contempo sono diversi i fattori - ambientali e antropici - caratterizzanti il territorio regionale che rendono più difficoltoso tale percorso. L'ambiente montano, il clima alpino, un abitato poco concentrato, ma molto sparso e diffuso, incidono in maniera rilevante sui fabbisogni di energia per il riscaldamento e la mobilita.
Il percorso di decarbonizzazione del territorio, declinato attraverso la certificazione delle emissioni e la Roadmap "Fossil Fuel Free 2040", oltre a indubbi effetti positivi sull'ambiente, potrà essere volano di significative ricadute economiche e turistiche, confermando la Valle d'Aosta come una Regione dalla vocazione "Green".
Un percorso sfidante, che intende anticipare i recenti obiettivi UE di completa decarbonizzazione dell'economia al 2050, e difficoltoso, soprattutto in quei settori storicamente caratterizzati da una penetrazione più lenta degli interventi e da necessità alle volte contrastanti con gli obiettivi della Roadmap. Un cammino che richiederà una forte sinergia tra indirizzi pubblici e volontà private e il dispiegamento di considerevoli investimenti, da attuarsi ottimizzando e facendo leva sulle risorse a disposizione dell'Amministrazione regionale in coordinamento con i fondi statali ed europei”.
Molte cose sono state fatte, ma oggettivamente ci sono delle riflessioni ulteriori da fare, anche perché é già trascorso del tempo.
Ad esempio bene sta facendo la società elettrica CVA, preziosa risorsa per i valdostani, ad espandersi nel mercato delle rinnovabili. La diminuzione del peso dell’idroelettrico, a causa del cambiamento climatico e del diminuire delle risorse dell’acqua con la crisi profonda delle aree glaciali, deve giustamente essere controbilanciata da un’azione di espansione fuori Valle con investimenti nel fotovoltaico e nell’eolico. In più bisogna essere pronti - e progetti del PNRR vanno in questo senso - al vettore idrogeno verde che avrà il pregio di raccogliere quell’energia che oggi si perde nelle rinnovabili per il mancato assorbimento nelle rete elettrica nazionale. Idem la strategia, su cui esiste la collaborazione fra Comuni e CVA, sulle comunità energetiche, che rappresentano, pur senza mitizzarle, una possibilità interessante per avere una rete locale assai diffusa e solidale in realtà più piccole rispetto ai grandi complessi strategici di energia.
In termini più complessivi sarebbe bene seguire la pista dell’ efficientamento energetico su cui non caso sono stati messi fondi cospicui, utili anche dopo la fine del boom dovuto al 110 superbonus (salasso per le casse dello Stato!), e che rappresenta un elemento capitale nella lotta ai meccanismi perversi che oggi aumentano la temperatura sul Pianeta con ricadute reali anche nei nostri territori montani.
Insomma: tante cose assieme, che sono così concrete da rendere la sostenibilità qualcosa di vero e non, come purtroppo oggi appare, una moda cui ci deve attenere.

I catalani ago della bilancia

I paradossi della Storia sanno stupire. È di ieri la notizia finale dopo lunghe trattative: Pedro Sanchez è diventato Presidente del Governo spagnolo per la terza volta. Con 179 voti a favore e 171 contrari il Parlamento ha concesso la fiducia al leader socialista. Un voto che conferma l’intesa sull’amnistia tra il Psoe e gli indipendentisti catalani. A favore del nuovo mandato per Sanchez hanno votato sette forze politiche oltre al suo Psoe: la coalizione di sinistra Sumar, i partiti indipendentisti catalani Erc e Junts, quelli baschi Bildu e Pnv, il partito galiziano Bng e quello delle Canarie CC.
Il paradosso sta nel fatto che gli indipendentisti catalani sono risultati indispensabili per dare un Governo alla Spagna, dopo essere stati perseguitati in Tribunale, come conseguenza del referendum pacifico del 2017 per la legittima richiesta di autodeterminazione.
Sono contento di questo ribaltamento in atto per l’amicizia e l’affezione che ho verso la Catalogna, basata su di un antico rapporto con noi autonomisti valdostani,
Spero che un articolo pubblicato su Internazionale, tratto da Ctxt, del giurista, Jesus López-Medel, da cui traggo qualche passaggio, possa essere utile per smontare molte sciocchezze, di cui ho sentito eco sulla stampa italiana.
Sostiene l’autore: “In Spagna è sempre complicato parlare di una convivenza senza tensioni, e ancora di più costruirla. Soprattutto quando bisogna trovare (e quasi sempre è necessario) formule innovative, capaci di guardare al futuro senza nostalgia per il passato.
La costituzione del 1978 è stata un momento eccezionale (il passaggio dalla dittatura franchista alla monarchia costituzionale) e un passo avanti coraggioso che ha posto le basi di questa convivenza nel segno della libertà e della democrazia. Ma da allora sono successe tante cose, e nonostante la rapida e profonda evoluzione della società spagnola c’è chi – paradossalmente proprio le persone che all’epoca non appoggiarono la costituzione – vorrebbe rendere quel testo immodificabile. Queste persone non solo se ne appropriano indebitamente, ma sfruttano indegnamente il concetto stesso di Spagna. Loro sono “la Spagna”, mentre ciò che non gli piace è “un attacco al paese”. Questo pensiero conservatore e passatista oggi è molto forte. Dovremmo invece concentrarci tutti sull’evoluzione di quel testo, perché intorno a noi tutto cambia”.
Tema giuridico su cui concentrarsi: “La costituzione del 1978 fu approvata con un sostegno pubblico travolgente, ma solo con la metà dei voti dei deputati di Alianza popular (la formazione da cui è nato il Partito popular, Pp). L’altra metà votò contro o si astenne. All’epoca il futuro premier José María Aznar, allora giovane militante di Ap, scriveva articoli che attaccavano la costituzione. Un anno prima era stata votata la Ley de amnistía (l’amnistia) per i franchisti.
Il patto costituzionale era concepito per essere in armonia con lo statuto di autonomia della Catalogna approvato nel 1979. E in effetti i due documenti hanno convissuto per trent’anni, finché quel meccanismo istituzionale non è invecchiato e la Catalogna ha cominciato a chiedere un nuovo statuto (Estatut in catalano), anche perché nel frattempo a diverse altre regioni (Cantabria, Murcia, Rioja, per esempio) era stata concessa un’autonomia simile a quella catalana. Molti hanno dimenticato un aspetto importante della fase costituente: la Catalogna era un soggetto nazionale, come il Paese Basco e la Galizia, e come tale avrebbe dovuto essere trattata”.
Aggiunge con lucidità López-Medel: ”Davanti al tentativo di riformare l’Estatut, i conservatori hanno alimentato una catalanofobia che ha finito per mettere in moto quel fenomeno che più tardi si sarebbe trasformato in indipendentismo. Nonostante la promessa del premier socialista dell’epoca, José Luis Rodríguez Zapatero, in parlamento l’Estatut ha subìto numerose modifiche. Eppure, anche depotenziato, è stato approvato attraverso un referendum che ha dimostrato il buon senso degli elettori catalani, ovviamente delusi dal testo votato.
È stato a quel punto che l’irresponsabile premier popolare Mariano Rajoy ha deciso di presentare un ricorso durissimo alla corte costituzionale e, quel che è peggio, alimentare un clima di accesa ostilità nei confronti di tutto ciò che era catalano, creando una frattura sociale tra questa comunità e il resto della Spagna. Poi è arrivata la pessima sentenza della corte, che ha dichiarato incostituzionali 14 articoli dello statuto, mutilandolo ulteriormente e facendo sentire la Catalogna umiliata e penalizzata, dato che era stata privata di competenze ottenute senza problemi da altre comunità autonome, come l’Andalusia e il Paese Basco.
Nel frattempo i popolari continuavano a gettare benzina sul fuoco del catalanismo, anche più moderato, accelerando la sua trasformazione in un indipendentismo fortemente emotivo”.
Vado più avanti nell’articolo: “Mentre il Pp alimentava in questo modo l’indipendentismo, la Generalitat catalana ne ha approfittato per organizzare, il 1 ottobre 2017, un referendum senza alcuna base legale. Invece di ignorarlo o cercare di fermarlo attraverso il dialogo politico, il governo ha inviato a Barcellona un gran numero di poliziotti che hanno caricato chiunque fosse nei paraggi di un’urna elettorale. Quella reazione ha inasprito ancora di più il conflitto.
Con la situazione sempre più tesa e lo scontro ormai aperto, il 27 ottobre il presidente della Generalitat catalana, Carles Puigdemont, ha detto davanti al parlamento catalano che il “risultato” del referendum era “un mandato per trasformare la Catalogna in uno stato indipendente sotto forma di repubblica”. Quelle parole sono state accolte e applaudite come una dichiarazione d’indipendenza solo da due gruppi parlamentari. Riprendendo il discorso, Puigdemont ha poi annunciato al parlamento la sospensione dell’indipendenza, “affinché nelle prossime settimane si possa avviare un dialogo, senza il quale non è possibile arrivare a una soluzione concordata”. In totale lo spettacolo è durato 56 secondi.
Ma il governo del Pp ha ritenuto comunque di dover applicare per la prima volta l’articolo 155 della costituzione, sospendendo l’autonomia della Catalogna”.
La Spagna picchia dura, come ricorda l’articolo: “Le autorità hanno quindi inventato un presunto reato di “ribellione” che nessun giurista sensato riterrebbe congruo, a meno che non sia animato da motivazioni politiche. Così facendo hanno privato delle sue prerogative il Tribunal superior de justicia de Cataluña, cioè l’autorità competente sul caso. Durante le deposizioni sono stati convocati come testimoni dell’accusa gli esponenti delle forze di sicurezza che avevano represso quella parvenza di referendum.
Costretto ad assolvere gli accusati da un reato inesistente, il tribunale in compenso ha inasprito al massimo le pene per quello di sedizione, un reato anacronistico che non esiste in nessun paese europeo e che in Spagna non era mai stato punito. (…)
La sentenza del tribunale supremo di Madrid, nel 2019, è stata una chiara distorsione del diritto, operata per ottenere pene pesantissime e demonizzare gli accusati. E il Psoe ha continuato a non battere ciglio. “Non concederemo mai l’amnistia”, ha dichiarato allora Sánchez. Tuttavia, l’aritmetica della politica e una certa audacia alla fine l’hanno convinto a farlo due anni dopo. In pochi l’hanno applaudito, perché era un rischio. In seguito Sánchez ha preso un’altra decisione corretta: ha cancellato l’anacronistico reato di sedizione.
Dopo i risultati incerti delle elezioni dello scorso luglio (vinte dal Pp, che però non ha i numeri per formare un governo), Sánchez ha modificato le sue idee sull’amnistia, proponendo una legge per discolpare gli attivisti coinvolti nel referendum catalano del 2017”.
Una Realpolitik che serve ora per governare e si apre una stagione nuova per il futuro della Catalogna, che va seguita per l’influenza che potrà avere in Europa. Ricordo il legittimo slogan: “Catalunya, nou estat d'Europa”.

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