Sarò una mosca bianca, ma certo entusiasmo rispetto ai riconoscimenti UNESCO non lo condivido e da sempre ritengo questa organizzazione delle Nazioni Unite con sede a Parigi lenta, pesante e troppo costosa con i suoi 2400 dipendenti e inefficace rispetto ai risultati concreti che riesce a generare sul campo.
Certi meccanismi di riconoscimento sono opachi e li ho vissuti, quando lavorai per un label in favore delle comunità Walser, infine fallito anche per incomprensibili ostilità interne alle stesse comunità, manifestatesi quando l’iter era ormai maturo. Nel frattempo sono diventato sempre più scettico sugli eccessi di riconoscimenti sfornati da UNESCO, talvolta con arrivi improvvisi di chi salta la fila con una velocità persino sospetta.
Per cui sono perplesso della notizia, emersa durante l'assemblea recente dell’UNESCO a New Delhi, in cui è stato annunciato il riconoscimento della “cucina italiana” come Patrimonio Culturale Immateriale dell'Umanità e non compartecipo al giubilo generale e non perché io sia bastian contrario.
L'UNESCO - così ho letto - ha valorizzato la cucina italiana non solo per i suoi ingredienti iconici (pasta, mozzarella, vino, tiramisù e via dicendo), ma per il suo ruolo sociale e culturale: un "rito conviviale" che unisce famiglie e comunità, promuove la sostenibilità (con ricette anti-spreco), la biodiversità bioculturale e il rispetto per gli ingredienti stagionali e territoriali. È descritta come un modo di "prendersi cura di sé e degli altri, esprimere amore e riscoprire le radici culturali", trasmesso di generazione in generazione attraverso famiglie, scuole e feste.
Che si sappia che i riconoscimenti UNESCO legati al cibo e alle tradizioni alimentari rientrano principalmente nella “Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità”. Non esiste una categoria specifica “patrimonio gastronomico UNESCO”, ma diverse tradizioni culinarie e diete sono già state iscritte perché considerate espressioni fondamentali dell’identità culturale di un popolo, da cui discende che un bollino non si nega a nessuno.
Ricordo la “Dieta Mediterranea” (2010, poi ampliata nel 2013) con Italia, Spagna, Grecia, Marocco, Portogallo, Croazia, Cipro (Paesi “comunità emblematiche”). Fu il primo elemento alimentare al mondo riconosciuto come patrimonio immateriale.
Nello stesso anno “Dieta tradizionale messicana”, vale a dire cucina ancestrale di Michoacán (mais, fagioli, squash).
Tre anni dopo spunta la “Cucina tradizionale giapponese – Washoku” per il rispetto per la natura e uso stagionale degli ingredienti.
Segue la “Dieta tradizionale coreana – Hansik e Kimjang” per preparazione e condivisione del kimchi.
Negli anni 2000 è la volta di “Nsima, patrimonio culinario del Malawi” per un piatto a base di farina di mais.
Non poteva mancare “Iftar e le sue tradizioni socio-culturali” tradizione multinazionale (tra cui Turchia, Azerbaigian, Iran, Uzbekistan…), che è un pasto serale in occasione del Ramadan.
Non dimentichiamo le pratiche e i saperi tradizionali specifici. Spiccano l’Arte dei pizzaiuoli napoletani, la Cultura della birra in Belgio, la Tradizione del pane piatto (lavash, katyrma, jupka, yufka) di Azerbaigian, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Turchia, la Preparazione del pane di zenzero croato, la Tradizione del kimchi in Corea del Nord, Canto e cucina del dolma in Azerbaigian, la Cultura del couscous di Algeria, Marocco, Mauritania, Tunisia, la Cucina singaporiana di strada, la Cultura del tè turco, la Tradizione del pane francese (baguette), la Cultura del borek (Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Turchia, Uzbekistan), I Saperi e pratiche legate alla coltivazione e consumo del fico d’India in Messico.
Ci sono poi tradizioni alimentari o agroalimentari rilevanti legate occasioni come, in Italia, alla festa di San Giovanni Battista e la tradizione del “maccu” e alla “Festa della Palombella e cucina tradizionale”.
Aggiungo “La transumanza” in Italia, Austria, Grecia (include pratiche casearie tradizionali), “Saperi e pratiche legate alla coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria”, “Arte della falconeria” (include tradizioni alimentari legate alla caccia).
Con oltre 1.200 siti iscritti nella lista del Patrimonio Mondiale, la critica più comune è che il marchio stia subendo una svalutazione. Se "tutto è patrimonio", il valore del singolo riconoscimento diminuisce.
Inizialmente la lista doveva includere solo i tesori "insostituibili" dell'umanità. Oggi, l'allungamento continuo della lista rende difficile per l'organizzazione stessa monitorare lo stato di conservazione di tutti i siti.
Uno dei problemi centrali è l'uso del logo UNESCO come strumento di marketing territoriale.
Molti Paesi candidano siti non per proteggerli, ma per attirare flussi turistici. Questo porta spesso all'overtourism (sovraffollamento), che finisce per danneggiare l'integrità fisica del sito e la qualità della vita dei residenti.
Il processo di selezione è diventato nel tempo sempre più politico e meno tecnico.Le decisioni finali spettano a un comitato di rappresentanti governativi, che spesso scambiano voti tra loro per far approvare le rispettive candidature, ignorando i pareri negativi degli organi tecnici consultivi.
Gli Stati competono per chi ha più siti (come Italia, Cina e Spagna), trasformando un progetto di cooperazione internazionale in una "gara di prestigio" nazionale.Sono stati verificati effetti sociali collaterali, come avvenuto in città diventano vetrine per turisti, perdendo le attività commerciali tradizionali a favore di negozi di souvenir e affitti brevi. Il riconoscimento di una festa o di un'arte artigianale può portare a una sua "spettacolarizzazione" forzata, snaturandone il significato spirituale o sociale per la comunità locale.
Chiamare tutto “patrimonio dell’umanità” è un gesto solo apparentemente inclusivo, ma in realtà rischia di diventare un cartello da affiggere.
Sarebbe ora di fermarsi a riflettere e bloccare la produzione in corso, che rischia di essere infinita.