Leggo dei troppi morti sulle montagne del Nepal. Una tragedia causata da nevicate eccezionali e valanghe distruttive.
Lo spiega bene il Corriere della Sera: “Le valanghe che si sono abbattute nei giorni scorsi su vasti territori del Nepal sono conseguenza di una situazione meteo eccezionale: in trent'anni, secondo i dati elaborati dal laboratorio osservatorio Everest K2 Cnr, situato alla base dell'Everest, sono stati registrati solo quattro eventi di nevicate improvvise e così abbondanti: hanno influito a renderle imponenti e, di conseguenza, distruttive per le spedizioni alpinistiche”.
La piramide! Non sono mai riuscito a visitarla, ma per anni - quando presiedevo i parlamentari “Amici della montagna” del Parlamento - ne seguii i destini e i necessari finanziamenti per garantire ricerche utili sin dai primi tempi del manifestarsi del cambiamento climatico, che oggi sappiamo obbligare a maggior attenzione in montagna.
Lo ricorda Reinhold Messner sullo stesso giornale, segnalando i maggiori pericoli anche sulle nostre montagne: “Nelle Alpi assistiamo a una perdita di permafrost, una colla naturale che tiene assieme le montagne. I ghiacciai sono tutti in movimento, si aprono più crepacci di una volta. La gente deve imparare a convivere con questi problemi, e non bisogna mai sentirsi troppo sicuri. Non bastano dieci anni di scalate per farti diventare un alpinista esperto”.
E in altra parte aggiunge: “Mettere un piede in montagna non è come andare sui prati, il rischio c’è sempre. È molto importante che tutti sappiano che la montagna è migliaia di volte più forte di noi. Come umani siamo molto limitati nelle nostre capacità di sfuggire a una valanga, di riuscire a salvarci all’ultimo momento. Finché la gente andrà in montagna, avremo dei morti; e maggiore sarà l’afflusso, maggiori saranno le vittime”.
Nelle montagne dell’Himalaya si stanno moltiplicando spedizioni alpinistiche e di trekking. Immagine plastica: le code per salire in cima all’Everest, che evidenziano una fitta attività commerciale, che sarà redditizia ma può oggi portare in cima al mondo persone che non hanno preparazione e sono trascinate lassù con logiche assai dubbi di business, svilenti per la montagna e principi di etica.
In un articolo su La Stampa, raccolto da Enrico Martinet, lo stesso Messner è ruvido come sa essere lui, che frequentai da parlamentare europeo, essendo stato anche lui eletto in quegli anni.
Ruvido quando dice che “l’alpinismo, è l'arte di non morire”. E aggiunge rompendo tutta una certa aria retorica che avvolge troppo spesso l’alpinismo: “Gli alpinisti vanno dove la morte è una possibilità. E anche per i trekker in cerca di avventura in vallate remote si deve aver presente che lì ci sono pericolo e rischio.
Cinquant'anni fa non c'erano comunicazioni, non c'era neanche la possibilità di essere soccorsi da un elicottero. Allora le vallate del Nepal erano la fine del mondo. Oggi abbiamo perso il contatto con la natura, pensiamo di non averne bisogno. Molta gente pensa di aver il controllo di ogni cosa che può accadere perché ha il telefonino. Crede di poter avere in questo modo la sicurezza, ma non è così.
In quei luoghi c'è la morte. So che questa mia filosofia non è sempre apprezzata, ma è il semplice frutto, direi il logico frutto, di aver consapevolezza della realtà della montagna non abitata. Per poterla affrontare occorre avere il controllo di sé, e soprattutto essere preparati nei minimi dettagli”.
In troppi lo dimenticano e vivono in un eccesso di confidenza nella logica “a me non capiterà mai”, talvolta rassicurati dalla chance di poter chiamare i soccorsi. Ma l’alea è un azzardo che incombe sempre e il confine fra vita e morte diventa sottile.