Fa abbastanza impressione dover sempre inseguire le parole. Già lo è nella quotidianità, a fronte del fenomeno di un progressivo impoverimento nell’uso della lingua, che obbliga ad un lessico di base sempre più semplificato per farsi capire.
Si aggiunge poi la tendenza a creare sempre più gerghi specialistici. Quando mi sono occupato di Scuola, ma anche del settore Digitale, mi sembrava in prima battuta di essere un analfabeta e in lotta contro la scelta degli acronimi più bizzarri, che rendono la comprensione reciproca più difficile.
Mi fanno poi impazzire gli anglicismi che debordano e il paradosso che spesso non sono nati dall’inglese, ma derivano dal francese, dal latino o sono invenzioni italiane spacciate per inglesi.
Da qualche anno ha preso quota il termine bias (in italiano spesso tradotto come pregiudizio o distorsione), che può avere diversi significati a seconda del contesto. Attenzione alla pronuncia: in inglese suona baɪ.əs, in italiano bai-as, con la "i" lunga come in "bike" e la "a" breve come in "cat".
La parola – a dimostrazione dei passaggi fra lingue - deriva dal francese antico biais ("obliquo", "di traverso") ed entra nell'inglese nel XVI secolo con il significato di "linea obliqua" (nel gioco delle bocce).
La radice più antica parrebbe essere dal greco "epikarsios" (ἐπικάρσιος), che indicava qualcosa di trasversale o di traverso.
Il bias cognitivo è una distorsione sistematica del pensiero, che porta le persone a prendere decisioni o formulare giudizi in modo non del tutto razionale.
Propongo alcuni esempi comuni. C’è quello di conferma: tendiamo a cercare e dare più peso alle informazioni che confermano le nostre convinzioni, ignorando quelle che contraddicono. Lo si verifica in chi si fissa su argomenti senza mai ascoltare le buone ragioni degli altri.
Vi è poi un uso come effetto ancoraggio: ci basiamo troppo sulla prima informazione ricevuta (l’“ancora”) per prendere decisioni.La fretta, come si dice, è una cattiva consigliera e mai farsi prendere dall’ansia.
Esiste poi il temibile bias dell’ottimismo: crediamo che a noi capiteranno meno eventi negativi rispetto agli altri. Viene in mente, per chi conosce la montagna, la drammatica circostanza di incidenti che coinvolgono persone molto esperte, che non dovrebbero sbagliare.
In epoca di intelligenza artificiale e machine learning, che sempre più invaderanno la nostra vita, il bias si riferisce – ma non mi infilo in spiegazioni specifiche - a errori sistematici nei dati o negli algoritmi che portano a risultati distorti e che spesso ci chiudono nella gabbia delle nostre convinzionie e purtroppo anche dei nostri pregiudizi.
Segnalo poi l’effetto Dunning-Kruger (dal nome degli scopritori), che nella nostra vita constatiamo con una certa regolarità, vale a dire che persone con scarse competenze in un ambito tendono a sovrastimare le proprie capacità, mentre gli esperti spesso le sottovalutano. Su questo potrei citare nomi, cognomi ed indirizzi sia di chi vola alto senza avere le ali e chi, invece, ha enormi potenzialità ma si autolimita da solo.
Conseguenze di queste diverse storture nella vita quotidiana sono giudizi affrettati o incomprensioni, decisioni sbagliate basate su intuizioni anziché dati, cadere negli stereotipi, nelle discriminazioni, nella polarizzazione delle opinioni.
Come reagire? Facendo il contrario di quanto appena prospettato, usando di fatto quelle precauzioni che finiamo per non adoperare per una serie di automatismi, di scorciatoie che al posto di semplificarci i comportamenti causano dei danni non sempre riparabili.
C’entra tutto questo con la democrazia?
Certo che sì, perché i bias influenzano profondamente il modo in cui i cittadini percepiscono le informazioni politiche, prendono decisioni di voto e interagiscono nel dibattito pubblico.
Poiché i bias cognitivi sono delle "scorciatoie mentali" o distorsioni sistematiche del pensiero, spesso inconsce, che utilizziamo per semplificare l'elaborazione di informazioni complesse e questo influenza in modo enorme le scelte.
Porta, ad esempio, gli elettori a cercare, interpretare e dare credito maggiore alle informazioni che confermano le loro convinzioni politiche preesistenti, ignorando o sminuendo quelle contrarie. Questo alimenta la polarizzazione e favorisce gli estremismi.
Spunta ad esempio l’effetto Bandwagon (Carrozzone/Effetto Valanga): induce gli elettori a sostenere un candidato o un partito che sembra essere già in vantaggio (ad esempio, a causa di sondaggi iniziali o forte copertura mediatica), creando un circolo vizioso che rafforza ulteriormente la sua posizione.
Vi è poi l’effetto Framing (Inquadramento): dimostra come il modo in cui una questione viene presentata (la "cornice" linguistica o emotiva) possa influenzare le decisioni politiche, anche se il contenuto oggettivo rimane lo stesso. I politici lo sfruttano per enfatizzare aspetti a loro favorevoli.
Pesa inoltre il bias della negatività: gli scandali, gli errori o le notizie negative tendono a influenzare gli elettori in modo più forte e duraturo rispetto ai risultati positivi, talvolta compromettendo la percezione di un candidato anche a fronte di una lunga lista di successi.
Interessante anche l’esistenza sui Social – grazie alla manipolazione algoritmica che ci mette in contatto solo chi la pensa come noi - di "camere di risonanza" (echo chambers) e "bolle di filtro" (filter bubbles), soprattutto online, dove gli individui sono esposti solo a punti di vista che rispecchiano i propri, rafforzando i bias di conferma e rendendo più difficile il dialogo costruttivo.
Pesa la capacità di chi, in una logica populista, adopera le emozioni (come la paura o la rabbia) come strumento di manipolazione, rendendo i cittadini meno inclini ad analizzare la realtà in modo razionale e più propensi ad accettare semplificazioni distorte.
Insomma: bisogna essere sempre coscienti e vigili.