”De gustibus non est disputandum”: la frase proviene dal latino classico ed è un’espressione proverbialmente attribuita alla saggezza popolare romana, anche se in realtà non compare in forma esatta in nessuna delle opere maggiori di autori latini.
Ci penso, quando vado in giro per lavoro o diletto dei gusti gastronomici dell’umanità.
Già in giro delle Regioni italiane ha aspetti stupefacenti e si trova una varietà tale da lasciare basiti e talvolta non ci si capacita d’inventiva.
Esempio: la valdostana - generalmente associata a una bistecca impanata con fontina e prosciutto crudo - è una torta salata diffusa in Toscana. La si trova infatti in tutti i bar e fornai di Lucca.
Esiste - se si allarga l’orizzonte - addirittura un’antropologia del cibo. L’antropologo del cibo è uno studioso che analizza il cibo come fatto culturale. Non si occupa solo di cosa mangino le persone, ma di come, quando, con chi, perché e con quali significati.
In pratica, il cibo viene visto come una lente per comprendere le società umane.
Preciso sul tema l’antropologo Claude Lévi-Strauss. A suo avviso, il modo in cui una cultura tratta il cibo riflette il modo in cui struttura il pensiero e l’organizzazione sociale.
In più usava uno schema (cibi crudi, cotti e fermentati) per mostrare che la cucina non è solo nutrizione, ma un linguaggio simbolico. Cucinare significa trasformare la natura attraverso la cultura, e ogni società codifica queste trasformazioni in modo specifico.
Con logiche specifiche, contrapposte e anche complementari. Pensiamo alla pasta e al riso, alla birra e al vino, alla carne e al pesce. Si può immaginare, anche se il mondo globalizzato è in grado di vendere il ghiaccio agli esquimesi e il sushi nella Terra del fuoco, che esistano mappe geografiche che definiscono degli ambiti, cui ci si attiene pur nella logica crescente del misto di culture.
Quindi i cibi come le bevande sono cemento di identità culturale, caratterizzanti anche riti e simboli trasfusi ad esempio nelle religioni e pure nei divieti che ne conseguono.
Casi ben noto di tabù è il consumo di carne di maiale per l’ebraismo e l’islamismo, così come periodi di digiuno come la Quaresima dei cristiani e il Ramadan del mondo islamico, per non dire dell’ovvio divieto di mangiare carne di mucca per gli indù o il vegetarismo per molti buddisti.
Molti cibi tradizionali di culture non occidentali possono risultare difficili da comprendere o accettare per chi è cresciuto in contesti europei o nordamericani. Questa difficoltà spesso nasce sempre .da differenze culturali. Ho assaggiato in Oriente insetti e aracnidi fritti, ma senza troppo entusiasmo, così come ho mangiato i salamini di renna in Lapponia o cibi giapponesi anche se non ho neppure ben capito di cosa si trattasse.
Non mangerei mai carne di cane, mentre da ragazzo - per farmi uno scherzo - mangiai carne di gatto spacciata per coniglio con orrore per la scoperta in fase digestiva. Sulle frattaglie mantengo qualche curiosità, ma in certi casi - ad esempio il cuore - mi sono fermato e non parlatemi di sashimi di pesce vivo.
Comunque sia, a me piace esplorare ovunque e, nel limite delle possibilità linguistiche, scoprire le logiche alimentari da chi ci abita.
Certo bisogna sempre relativizzare le cose. Ci sono parecchi piatti italiani che sembrano avere radici antichissime, magari per il loro aspetto rustico o l’uso di ingredienti semplici, ma che in realtà sono nati solo nel Novecento, o addirittura negli ultimi decenni.
Eccone alcuni esempi choc: la pasta alla carbonara, che nasce nel secondo dopoguerra, probabilmente grazie all’influenza degli americani (uova in polvere e bacon). Non esistono tracce scritte precedenti agli anni ’40.
E il tiramisù? Sembra un dolce da lunga data, che per la prima volta tra gli anni ’60 e ’70, con origini contese tra Veneto e Friuli. Prima non esiste nessuna menzione del tiramisù nella cucina italiana.
Al contrario ci sono piatti italiani che sembrano moderni e nel solco slow food, ma che in realtà hanno origini molto antiche — spesso addirittura medievali o romane. Tipo acqua cotta, zuppa di farro, ricotta con il miele o mostarda di frutta.
A tavola bisogna stare all’erta!