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11 lug 2023

Dietro la pizza

di Luciano Caveri

Mi ha sempre profondamente divertito constatare come la stessa cosa cambi a seconda degli usi e dei costumi su cui impatta. Segno che la globalizzazione esiste e rischierebbe di imporre tristi serialità, ma viene mitigata grazie alla differenza delle culture, che sanno reinterpretare in modo straordinario qualunque cosa per evitare piattezza e conformismo. Il caso della pizza è davvero straordinario. Ormai non esiste Paese al mondo dove, che sia un chioschetto scassato o un locale standard di una multinazionale, non ci sia una più o meno ammiccante scritta “Pizza”, ma ognuno aggiunge elementi propri di differenziazione e originalità. Ha ragione l’intellettuale francese Jacques Attali a sintetizzarne il successo: ”Se c’è un piatto universale, quello non è l’hamburger bensì la pizza, perché si limita a una base comune – l’impasto – sul quale ciascuno può disporre, organizzare ed esprimere la sua differenza”. Insomma, come la tela per un pittore, ognuno può esprimere i propri gusti. Per me la pizza ha il gusto antico ed evocatore di quella ligure dell’infanzia cucinata dalla mamma Brunildee quella mangiata sotto l’ombrellone comperata al bar della spiaggia appena sfornata. È la prima socialità con i compagni del Ginnasio alla vecchia Grotta Azzurra di Aosta. Poi si snoda nelle abitudini con familiari e parenti in quella mappa mentale (il proprio TripAdvisor) di pizzerie viciniore in Valle d’Aosta, rassicuranti quando scatta la frase "È andassimo a mangiare un pizza?” o l’altra proposta, da quando la pizza é diventata a domicilio, ”ordinassimo la pizza?”. A conti fatti, in quelle parti di linguaggio che fanno parte di un patrimonio comune dell’umanità, la parola “pizza” spicca e mi ha fatto, come capita spesso, chiedermi da dove venga questa parola di uso universale. E mi stupisco per lo spazio enorme proposto da Etimologico. Il descrittivo iniziale è chiaro: “FORMAZIONE ROMANZA DI ORIGINE LATINA: probabilmente derivato del latino volgare “pisiāre ‘pestare, schiacciare con le mani’ attraverso una variazione. pitsiāre con rafforzamento della fricativa e genere femminile dovuto al sinonimo latino placenta ‘focaccia’ “. Chiaro? Non molto, ma almeno le radici passare e remote appaiono. Ma poi l’anonimo autore si allarga non poco e le origini della parola si complicano: “La semplicità fonetica di una parola come pizza, con le varr. pinza sulla costa alto-adriatica e pitta in Calabria e nel Salento, la espone a molteplici interpretazioni etimologiche, che si contrappongono secondo almeno quattro filoni: quello greco-semitico, orientato verso il bacino del Mediterraneo (Fanciullo, Alinei & Nissan), quello germanico che chiama in causa Goti e Longobardi (Princi Braccini), quello di ascendenza diretta indoeuropea (Kramer 1) e quello del sostrato con epicentro illirico (Hubschmid, Kramer 2). Tutte le proposte hanno qualche argomento forte a proprio favore, ma nessuna è in grado di render conto di tutte le varianti e della loro distribuzione geografica. L’ipotesi greco-semitica si fonda sulla presenza di pitta in calabr3/3 in salentino in continuità coi Balcani (greco pit(t)a, albanese pite, serbo pita, rumeno pită, ungherese pite, turco pita), che a loro volta sono debitori della Siria e della Palestina (aramaico pitā, dalla radice verbale ptt ‘sbriciolare, sminuzzare’); l’efficacia della motivazione dal verbo semitico si arresta però di fronte alle varr. pizza e pinza. L’ipotesi germanica si fonda sul fatto che solo la fenomenologia fonetica del gotico e del longobardo è in grado di spiegare le varr. pitta, pizza e pinza, che si riscontrano nei testi medievali come corrispondenti al latino buccella ‘boccone’ e ‘panino’ e che chiamano in causa il gotico “bita e il longobardo “pizzo ‘morso, boccone’ (alto tedesco bizzo ‘morso’, tedesco Bissen); ma il contatto romanzo-germanico ha confini ben precisi che non hanno giurisdizione sul Mediterraneo. L’ipotesi indoeuropea, poi abbandonata dal suo stesso sostenitore, è in grado di dominare l’area italiana e balcanica, ma si fonda sulla ricostruzione di una forma “pĭtu ‘cibo’, che è priva di consistenza e di evidenza. L’ipotesi del sostrato aggiunge a questi difetti l’evocazione di un fantasma pĭtta, privo di fondamenti storici”. A questo punto si tirano le fila: “La conclusione che emerge da questi confronti è che una soluzione unitaria non pare possibile; il calabrese e il salentino pitta è in continuità con l’area mediterranea e risale in ultima analisi all’aramaico pittā, documentato fin dal sec. II d.C., mentre pizza (con la var. pinza), le cui prime attestazioni in documenti latini datano alla fine del sec. X, è riconducibile alla famiglia del latini pi(n)sāre “pestare, schiacciare con le mani". A questo verbo risalgono diversi termini culinari, che indicano cibi ottenuti manipolando una sfoglia di acqua e farina, come i pici senesi, che sull’Amiata diventano piciarelli e nell’Umbria adiacente picchiarelli”. Mi fermo qui perché si rischia davvero di perdersi in mille rivoli, anche se è davvero affascinante scavare nelle parole, che mostrano interscambi e assonanze. Resta chiara la sua complessa semplicità e cioè una base che sostiene un mondo culinario che ne approfitta a beneficio dei nostri palati.