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04 lug 2023

La vecchia storia del nazionalismo

di Luciano Caveri

Chissà se poi alla fine mi dovrei vergognare di definirmi un "nazionalista valdostano”, rifugiandomi magari nella definizione apparentemente più rassicurante nell’area ”patriottismo”. Vecchia storia, perché le parole cambiano di significato e “Nazione” nel periodo post bellico puzzava parecchio per l’uso distorto fattone da fascismo e nazismo. Non a caso la destra estrema, talvolta neofascismo, aveva usato la parola come fosse una bandiera, quando altri prendevano la stessa parola con le pinze. Oggi, anche al Governo, usano Nazione (e lo fa anche chi in passato si diceva federalista…) come lancia in resta contro l’Europa ed è una vera tristezza che non si capisca quanto sia un male questa logica. Antonio Polito ieri sul Corriere, con il solito acume e il dono della sintesi, ha scritto: ”La contraddizione tra sovranismo e nazionalismo può stupire solo chi ha creduto in questi anni alla propaganda dei cosiddetti «populisti», cui non è stata certo estranea, dall’opposizione, Giorgia Meloni. D’altra parte il termine «sovranità» fu inventato (da Jean Bodin, a metà del Cinquecento) per fondare le basi teoriche dell’assolutismo monarchico, in cui il sovrano è «legibus solutus» e non ha altro potere sopra di sé se non quello divino. Mentre invece il concetto di «nazione» è il prodotto della Rivoluzione francese, e deriva dal pensiero democratico di Jean-Jacques Rousseau". Passiamo al secondo e opportuno distinguo: ”I nazionalismi non sono poi affatto uguali. Nella storia l’idea di nazione è stata usata sia per liberare popoli oppressi, come nella costruzione dell’Italia unita, sia per opprimere altri popoli, come è avvenuto con la Germania nazista. Ancora oggi il nazionalismo ucraino, che fin dalla Costituzione del 1991 si basava sulla cittadinanza, cioè sull’uguaglianza civile tra tutti i residenti, compresi quelli che si dichiaravano di nazionalità russa, si batte da tempo per entrare nell’Unione europea; mentre quello russo, avverso all’Europa, «si pone come centro anche etnico di una rinnovata sfera imperiale, in un progetto super-etnico, chiuso e dominatore» (Andrea Graziosi in «L’Ucraina e Putin», Laterza)”. Che bella serenità che ha chi, come me, è un federalista nel filone di pensiero di chi ha sempre posto attenzione, al di là dei distinguo storici che ci possono stare (l’URSS fu indispensabile per sconfiggere il nazismo con cui però all’inizio fu alleata), a come fascismo e comunismo abbiano sempre avuto principi nazionalistici, pur di diversa finte ideologica e culturale, inaccettabili. Polito si cala, infine, nella realtà attuale: “C’è quindi una buona ragione per cui un’Italia uscita a pezzi dalla guerra, sotto la guida di De Gasperi, volle a tutti i costi partecipare fin dall’inizio sia al progetto atlantico sia al progetto europeo. Fu senza dubbio un atto di patriottismo, una specie di «seconda Costituzione» che segnò allora e in parte ancora segna il perimetro delle forze politiche abilitate a governare il nostro Paese. Se si pensa che il Movimento Sociale Italiano, progenitore di Fratelli d’Italia, votò nel 1949 contro il Patto Atlantico su basi «nazionaliste» e contro «l’imperialismo americano», si capisce quanta strada abbia fatto la destra di Giorgia Meloni nell’individuare dove veramente risieda l’interesse nazionale. Molti osservatori dicono che la premier ha due facce, una aggressiva e «sovranista» in patria e una accomodante ed «europeista» a Bruxelles. Ma a parte il fatto che questo già sarebbe un progresso, bisogna ammettere che finora la premier se l’è cavata piuttosto bene nella dimensione europea. Grazie soprattutto alla posizione senza ambiguità sull’Ucraina; ma anche grazie all’adozione di una disciplina di bilancio di stampo «draghiano». Meloni sembra insomma consapevole della contraddizione insita nella sua politica, e prova ad aggirarla senza perdere voti a vantaggio di una destra anche più «sovranista», che Salvini si propone di incarnare. Per questo ha finora adottato un criterio: su quello che è stato fatto prima di me, tipo Mes, resto contraria; ma esalto ciò che si fa in Europa ora che ci sono io, vedi patto sui migranti. È un tentativo comprensibile di salvare capra e cavoli. Non può però durare all’infinito. Il passo successivo è riconoscere che nell’interesse nazionale italiano c’è anche la credibilità garantita dal rispetto dei patti assunti dai governi precedenti, come nel caso del Mes e del Pnrr. La firma dell’Italia impegna anche lei. Appena eletto presidente nel 1958 Charles De Gaulle, il campione di tutti i «sovranisti», confermò a sorpresa il sì di Parigi ai Trattati di Roma che avevano istituito la Comunità economica europea, firmati dall’ultimo governo della Quarta Repubblica, cui i suoi seguaci si erano ferocemente opposti. Per la semplice ragione che era nell’interesse della Francia. Non dovremmo essere noi a ricordarlo a una «nazionalista»”. Chissà, appunto, se lo capirà e se la smetterà di criticare quel Draghi che di sicuro le ha dato una mano per evitare gaffes in Europa e non mi pare molto ripagato.