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22 lug 2020

Culicchia e il "politicamente corretto"

di Luciano Caveri

Mi è capitato in passato di raccontare la storia dell'espressione "politically correct", nata negli States negli anni Trenta in area comunista, per affermarsi come bandiera progressista negli anni Sessanta, ma poi dal decennio successivo si è spostata in area radical-chic e infine dagli anni Ottanta con il reaganismo viene usata in modo sprezzante dalla Destra. Importato in Italia, il "politicamente corretto" mantiene i suoi fans ed arma i suoi detrattori. A me è capitato di dire che il "politicamente corretto", troppo spesso nella sua versione più ottusa e guardinga, viene sbandierato in Italia e paralizza molti ragionamenti «per paura di...». Di fatto è una sorta di censura preventiva assolutamente ridicola e ciò non ha nulla a che fare con doveri, obblighi e norme. Ora, anche se legittimamente non si deve essere sempre d'accordo ma per gran parte lo sono, esce una geniale raccolta per Feltrinelli dello scrittore e saggista Giuseppe Culicchia, il cui titolo è tutto un programma e ne risulta una lettura godibile grazie ad una scrittura e a contenuti mai banali. Si chiama, infatti, "E finsero felici e contenti: Dizionario delle nostre ipocrisie".

Ipocrisie che sviluppa per temi e esempi e cresce nella lettura il tifo contro ottusità, storture, baggianate che vengono spacciate come verità e dogmi da stolti in pompa magna, principi della banalità e sacerdoti appunto dell'algida correttezza politica. Culicchia è fulminante e non sfugge alla constatazione di come i "social" risultino amplificatori perfetti e diabolici. Qualche esempio delle molte verità distillate dall'autore? Comincerei con «"Terzo Mondo" non esiste più. E' stato sostituito dalla dicitura "Paesi in via di sviluppo", o meglio ancora "emergenti". Dire: "Sai caro, mi piacerebbe tanto adottare un negretto". Fare subito ammenda: "Ops, volevo dire un piccolo africano"». Irresistibile sul sesso: «Oggi come oggi, il sesso risulta accettabile solo se femminile, lesbico, omosessuale, transgender o ancora meglio lgbtqi. Quello maschile è infatti fortemente discriminatorio nei confronti delle donne per il solo fatto di esistere. Del resto la stessa "O" finale del sostantivo maschile "sesso" in quanto a discriminazione la dice lunga, e chissà che qualcuno non se ne esca prima o poi con la proposta di passare a "sessa", o ancora meglio a "sess*". Per bonificare la lingua inglese dal sessismo, c'è chi nel frattempo ha cambiato il sostantivo "emancipated" con "efemcipated". E se non si capisce perché nessuno abbia ancora "pensato seriamente di sostituire la parola "manager" con "womager", Michela Murgia nel 2019 ha proposto di abolire il sessista "Patria" per passare al più paritario "Matria": e pazienza se esisteva già la Madrepatria». Graffiante su «"Gay", sostantivo di origine anglosassone diventato anche in Italia l'unico universalmente accettato per indicare quelli che un tempo si sarebbero comunemente detti "froci", "checche", "sorelle", "invertiti", "omo" e via di questo passo, oppure più tecnicamente "omosessuali", anche se perfino quest'ultimo vocabolo oggi è da evitare poiché discriminante. Anche se i gay spesso si chiamano tra loro proprio "froci", si sconsiglia vivamente di imitarli, così da non essere accusati di essere fascisti». Idem su «"Maschi" [che] andrebbero aboliti, specie se bianchi e occidentali. Ma ci arriveremo. Quelli cosiddetti "Alfa" incarnano il Male Assoluto e sono colpevoli di tutte le sofferenze patite dall'Umanità nel corso dei secoli. Tra amiche anche fortemente critiche nei confronti del patriarcato e dell'antropocene fallocentrico, a un certo punto della serata lagnarsi perché "non ci sono più quelli di una volta"». Da non perdere «"Burqa", in Italia c'è chi s'interroga se sia più politicamente corretto dire che le donne islamiche devono poterlo portare "liberamente" nei loro Paesi e anche in Occidente, o se al contrario sia più politicamente corretto affermare che per la donna si tratta di un'imposizione e che dunque le donne islamiche devono lottare per ottenere la libertà di non portarlo, sottraendosi alle pressioni di padri e mariti e fratelli e parenti maschi. Alle donne bianche occidentali progressiste convinte che si tratti di un indumento identitario che le donne islamiche portano "liberamente", come si sentirebbero loro a girare così in città d'estate quando, complici i mutamenti climatici, a Milano e altrove il termometro supera i quaranta gradi». Fantastico «"Suore", far notare come ormai non solo a Roma vengano molto spesso importate dall'estero. Un tempo si pensava che portassero sfiga, soprattutto se al volante di una "Prinz" verde. Se superstiziosi contare sul fatto che oggi come oggi sono in costante diminuzione, mentre le "Prinz" verdi sono praticamente scomparse. Dire sempre: "E dai, non fare la suora". Esclamare con piglio deciso: "Vorrei che qualcuno mi spiegasse perché mai non possono dire messa". Sta di fatto che oggi come oggi sono le sole donne provviste di velo che non diano origine a dibattiti anche feroci e/o a editoriali anche lucidi e/o a discussioni anche accese. Pare che alle cene eleganti ci fosse chi si travestiva da suora. Ma si trattava appunto solo di cene eleganti». Tutto dedicato a chi nella Giunta valdostana si fa chiamare così: «"Assessora" lo si deve usare in luogo di "assessore" se si tratta di una donna, così da contrastare il maschilismo della lingua. Chiedersi se la stessa cosa valga anche per "architetta" nonostante la tetta. Chiedersi anche come fare con dentista, elettricista, logopedista, autista, guardia giurata, ovvero se sia il caso di usare lo stesso metro, quindi volgerli al maschile qualora chi fa tali mestieri sia un uomo, e dunque passare a "dentisto", "elettricisto", "logopedisto", "autisto", "guardio giurato" eccetera». Libro da leggere.