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29 giu 2020

La concretezza

di Luciano Caveri

La politica italiana, ed ormai di riflesso quella valdostana, in evidente perdita di originalità rispetto al passato, vivono di parole che diventano - anche tutte sole - degli slogan. In realtà assomigliano ai flash che illuminano la scena, destinati a spegnersi in fretta dopo un lampo. La parola oggi protagonista è "concretezza" e lo annota con intelligenza, nella sua rubrica colta ed efficace sulle parole pubblicata sull'Ansa, Massimo Sebastiani: «Cominciamo alle elementari a distinguere tra astratto e concreto e non smettiamo più: quell'impostazione, che sembra anche piuttosto intuitiva, ci seguirà per sempre e sarà il motivo per cui, ad un certo punto della nostra vita certamente ci sorprenderemo (o sorprenderemo altri) ad usare espressioni come "andiamo al concreto" oppure "sì ma in concreto che vuol dire?"».

«E' stata la settimana dei richiami alla concretezza - ricorda Sebastiani - Da parte del Presidente della Repubblica, innanzitutto, ma anche delle opposizioni e degli industriali. E non solo. Nessuno ha dubbi su cosa significhino questi richiami e per lo stesso motivo tutti concordano sulla loro necessità e sul fatto che si arrivi dunque, e possibilmente presto, ad una conclusione. Quando sentiamo la parola "concreto", "concretezza", "concretamente", infatti, automaticamente sappiamo che stiamo parlando di qualcosa che si contrappone ad "astratto" e cosa questo possa significare ci sembra molto chiaro». Forse nessuno meglio di Victor Hugo ha scritto sul tema, quando osserva: «L'utopia deve accettare il giogo della realtà, deve essere inquadrata nei fatti. Ogni idea astratta deve trasformarsi in un'idea concreta; ciò che ogni idea perde in bellezza, lo acquista in utilità; viene rimpicciolita, ma è più efficace». Di fronte a mille voli pindarici a promesse ed effetti annuncio, alla fine, la concretezza è un pavimento solido su cui posare i propri piedi. Mai come di questi tempi se ne avverte l'utilità in una fase storica in cui bisogna costruire su delle macerie evidenti, che sono materiali, morali e ideali. So bene quanto l'appello alla concretezza possa essere, anch'esso, effimero. Lo ricorda lo stesso Sebastiani: «Insomma, non c'è dubbio che abbiamo qualche difficoltà a ricomprendere nella categoria del concreto, come ci viene spiegato a scuola e come intuitivamente lo immaginiamo quando ci richiamiamo alla concretezza, un arcobaleno, un odore, un riflesso sull'acqua o anche una nuvola, anche se conosciamo ormai perfettamente l'origine fisica di tutti questi fenomeni. E d'altra parte: la paura, che è un sentimento e quindi non rientra nei cosiddetti nomi concreti, è forse meno concreta? E l'ansia? E a quante realtà concrete possiamo dare vita con la volontà, che non si tocca, non si sente, non si vede e non si annusa? Se fosse così semplice distinguere, non si sarebbero affannati per secoli pensatori di ogni inclinazione e provenienza sul tema del concreto. Fino a quello più ambizioso di tutti, Hegel, per il quale il concreto non è il mattone o la casa, ma una sintesi, parola tanto cara al filosofo, di elementi diversi: non è astrazione ma non è neanche la concretezza come la intendiamo quando diciamo "andiamo al concreto". Per questo, spiega Hegel, al di là del diritto (astratto) e della morale (individuale, personale), c'è il concreto, cioè l'eticità ovvero la proiezione di quella morale nel mondo della collettività, ovvero la famiglia, la società civile e infine lo Stato. E un esistenzialista cattolico come Gabriel Marcel parlava di "universale concreto" per indicare l'umanità non come concetto astratto come totalità concreta degli uomini. L'etimologia della parola sembra essere assai più vicina a Hegel che ai nostri maestri e maestre elementari. "Concretus" è il participio passato del verbo "concrescere" e vuol dire "denso, coagulato, rappreso": da "cum" e "crescere", cioè "crescere insieme", restituisce l'idea di un singolo insieme ad altri che dà vita ad una moltitudine, ad un insieme (ad una sintesi?)». Concordo sulla necessità, alla fine, di capirsi sull'uso della parola, risalendo alle proprie radici. L'idea del "crescere insieme", in una Valle d'Aosta lacerata da divisioni e incomprensioni profondissime - e ciò può avvenire anche per ottime ragioni ed io stesso ne ho avute di mie - è forse la necessaria premessa a qualunque altro ragionamento. Non per una vecchia parola che torna ogni tanto e cioè "consociativismo", che è una gestione del potere che annulla maggioranza ed opposizione in una serie di compromessi spesso occulti che creano una zona grigia difficilmente distinguibile dal cittadino, ma perché ci sono momenti in cui le buone volontà devono incontrarsi e non su chissà quali ridondanti progettualità, ma su punti precisi su cui avere le idee chiare e condivise. Facile a dirsi, difficile a farsi.