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11 mag 2020

La Scuola è la Scuola

di Luciano Caveri

Ci sono tante cose che mi intristiscono di questo "coronavirus". L'elenco puntuale sarebbe troppo lungo e talvolta mi sono trovato commosso a vedere certe immagini di sofferenza e di solidarietà. Eppure, a ben pensarci, spicca in questa sorta di malinconia la Scuola, il luogo per eccellenza che segna la nostra stessa esistenza, visto che ci passiamo tanti anni e visto che quando invecchiamo abbiamo l'avventura di associare ogni passaggio scolastico ai nostri figli che crescono. Io ne ho due all'Università ed uno alle elementari e misuro con loro il tempo che passa e pure la speranza che la loro vita sia felice, sapendo come non basti più leggere, scrivere e far di conto. Anche se queste tre abilità sarebbe non male restassero in prima linea e non affogati in mille attività ultronee.

Eppure mi dà un indicibile disagio vedere le scuole, come si dice, "di ogni ordine e grado" vuote. Mi è capitato di comparare nella memoria quei portoni sbarrati con quell'affannarsi ad inizio lezione o lo sciamare alla fine della giornata. Mi piace immergermi in queste immagini, che sono la fotografia del domani e ci fanno, inevitabilmente, pensare a noi bambini, ragazzi, giovani. Epoche piene di quel desiderio di crescere, di capire, di imparare. E la Scuola è fatta da questo e non ci sarà mai insegnamento online sotto qualunque forma che possa sostituire lo stare insieme in classe, il vociare dell'intervallo, le tensioni di essere interrogati davanti ai tuoi amici, la grandezza di un professore bravo che spiega, la gioia e la disperazione di un voto. Oltretutto l'insegnamento a distanza, nel modello attuale pur fra tanta buona volontà, somiglia troppo all'insegnamento parentale, specie per i più piccoli, che hanno bisogno di fisicità, di sguardi, di rimbrotti e di tutto quello che scalda le emozioni da bambino, oltreché una didattica in carne e ossa. Scrive sul settimanale "Vanity Fair" Raffaele Mantegazza, che insegna Scienze pedagogiche nel dipartimento di Medicina e Chirurgia dell'Università di "Milano - Bicocca" ed organizza corsi di formazione per insegnanti, studenti, genitori, personale sanitario, educatori: «Come siederanno nei banchi i nostri ragazzi? Torneranno a mettersi in bocca la penna del compagno, a rubargli i calzini negli spogliatoi, a sputare i pezzettini di carta usando la "Bic" senza refil, come cerbottana? (...) "Preparatevi, ragazzi, al rientro verifiche e interrogazioni a gogo!". E' il post di un insegnante delle scuole medie, immediatamente successivo a quello nel quale, nella prima settimana di quarantena, aveva scritto: "E sia chiaro che io la verifica di martedì non la sposto!". Chissà se avrà poi scritto una nota sul registro elettronico: "Il coronavirus sabota le attività didattiche impedendo la realizzazione della verifica. Si chiedono provvedimenti". C'è stato un momento nel quale sembrava che la colpa fosse dei ragazzi (e del resto, quando mai non è colpa dei ragazzi?). Il meno che si diceva loro era "Che pacchia, eh!". Li si guardava di traverso perché si alzavano alle otto e mezza anziché alle sei e mezza (senza pensare che è insano che un tredicenne si alzi prima del sole per andare a scuola). Li si ricattava: "Vedrai quando riapriranno le scuole!". Erano stati loro, non c'era dubbio. Come quei compagni che hanno allagato la scuola per evitare la verifica, vuoi che qualche liceale in debito in latino non abbia sintetizzato un virus? Come in un racconto di Ballard o di Bradbury un virus che risparmia i ragazzi e permette loro di non andare a scuola suscita una tremenda invidia inconscia in alcuni adulti. Che razza di idea della scuola e degli alunni hanno le persone che parlano così. E chissà che scuola faranno ripartire». Già ci siamo anche noi adulti; genitori, parenti e affini, molti dei quali fingono - non si sa per quale forma di piaggeria - che il mondo della scuola nato d'improvviso a marzo sia ottimo e abbondante, come si scherzava dei pasti dei militari. E, per contro, si nota - e lo dico con dispiacere - quanto sia difficile il dialogo con alcuni insegnanti, che prendono in modo storto qualunque osservazione, anche la più umana, come se fosse una lesa maestà alla loro professionalità. Quando, invece, si è tutti sulla stessa barca in questa pandemia che ci ha cambiato la vita e sarà ancora così per molto tempo. Le critiche bonarie o la richiesta di chiarimenti non sono un gioco amico/nemico, quando in gioco ci sono persone, che sono figli o alunni, a seconda del punto di vista. Questo obbliga ad un'alleanza per il loro bene. Prosegue Mantegazza e lo abbraccerei: «Riprendere la scuola a suon di verifiche e di prove a crocette, aumentare ulteriormente l'ansia dei ragazzi rispetto all'essere "rimasti indietro con i programmi" sarebbe la sconfitta della scuola. E, per parlar chiaro, sarebbe la sconfitta definitiva. Dopo il "covid" la scuola si gioca tutto: è il momento di pensare davvero in modo radicale a cosa significa verificare gli apprendimenti e valutare; perché se i ragazzi in questi mesi hanno appreso tutto quello che avrebbero imparato a scuola, allora tanto vale chiuderle per sempre, le scuole. Molti di noi sanno che non è così, sentono oscuramente che quello che stiamo perdendo ad aule chiuse è l'essenziale della scuola, e ha a che fare con la relazione educativa ma anche con i contenuti, che in queste settimane davanti allo schermo i ragazzi stanno lavorando, stanno assumendo informazioni ma non stanno imparando. E' allora il caso di rendere meno oscura questa sensazione. Quando dicevamo che la scuola è l'ambito della socializzazione del sapere, venivamo guardati con benevola tolleranza dai campioni dei contenuti (o delle competenze, come è di moda dire oggi): sì, certo, facciamoli socializzare, facciamoli stare insieme nelle ore di mensa o negli intervalli; poi però, poche storie, sotto con i contenuti, e chi non impara peggio per lui. Purtroppo tutto questo era rafforzato anche dall'ingenua generosità di chi diceva: "A me interessa prima la socializzazione e poi la didattica"; il problema è che da nessuna delle due parti (gli istruzionalisti scatenati e i timidi socializzatori) si mettevano semplicemente insieme le due cose. La scuola non è un posto dove si socializza né un posto dove si impara ma l'unico posto nel quale si socializza l'apprendimento. Questo sta mancando a tutti coloro che vivono la scuola nella sua essenza: non il fatto che l'insegnante comunichi un contenuto a Paolo (il che tra l'altro accade anche a distanza. E non è un caso che gli insegnanti che sanno intrattenere relazioni significative con i propri ragazzi siano anche quelli che stanno utilizzando con più efficacia la didattica a distanza) ma che Paolo, Aisha e Babacar condividano i contenuti e ne facciano dei pre-testi per stare insieme. Quello che accade è che la III D impari, insieme, fianco a fianco; e che il mio compagno è contemporaneamente un aiuto per l'apprendimento e il fine del medesimo: non imparo per l'insegnante ma per i miei compagni di classe. Se poi questo significa passare il pomeriggio insieme a sorridere perché Dante ha scritto "Ed elli avea del cul fatto trombetta", va benissimo così, perché Dante ha scritto quel verso sapendo perfettamente che si riferiva a un tabù, a qualcosa di sconcio che ha avuto il coraggio di immettere in un poema cristiano». Il finale è da applauso in piedi e serve proprio per quell'alleanza che dobbiamo cementare fra noi parenti e loro insegnanti: «La classe è un gruppo di lavoro, di un lavoro faticoso e gioioso, anzi gioioso perché faticoso. A scuola si impara solo per e con gli altri, e il gruppo o il sottogruppo è un luogo nel quale non ritrovo (almeno non necessariamente) i miei amici ma i miei compagni di apprendimento. Una scuola che ha tollerato per anni frasi quali "il figlio di mia cognata ha la stessa età di mia figlia ed è già a Napoleone mentre noi siamo ancora a Robespierre" oppure "se inserite il ragazzino cinese in classe poi mio figlio resta indietro", una scuola che ha troppo spesso usato le valutazioni come classifiche e la corsa al profitto come competizione tra i ragazzi è una scuola che il "coronavirus" avrà sconfitto per sempre. Ma se la scuola in questi giorni ci manca, allora significa che essa è ancora un oggetto del desiderio; e in questo mondo desiderato e desiderabile, che dovrebbe essere uno dei posti migliori per un ragazzo nel quale passare le proprie mattine, la verifica dell'apprendimento dovrebbe emozionare come la scalata alla vetta, l'interrogazione come la parte da recitare davanti a un pubblico in silenziosa attesa. E questo non "nonostante" i contenuti ma proprio a partire dalla loro affettivizzazione». Ci si ragioni per evitare terribili pasticci alla ripresa a settembre.