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27 nov 2019

Due canzoni evocatrici

di Luciano Caveri

Arrivano come suoni dal passato certe canzoni del cuore che evocano persone e ambienti del proprio vissuto. Forse uno dei primi cantanti che ho visto dal vivo è stato quel gigante del cantautorato che è stato Francesco Guccini. Location - come si dice oggi - "Festa dell'Unità" ad Imperia, anni Settanta, quando il Partito Comunista era roba seria ed ho il vanto di aver conosciuto, qualche decennio dopo, personalità come Giancarlo Pajetta, Nilde Iotti, Ugo Pecchioli, Alessandro Natta (nato proprio ad Oneglia). Gente di carattere, comunque la si pensi, e con una cultura, pur ideologizzata, da far impallidire certi spocchiosi in circolazione ignoranti come delle scarpe. Le "Feste dell'Unità" erano passione e salamelle, politica e grandi bevute e naturalmente concerti. Per cui se ascolto Guccini torno ragazzo con il mio "cinquantino" d'ordinanza e la gioia di vivere. Ho ascoltato i dischi di Guccini ed ho letto cosa ha scritto, specie sul suo meraviglioso Appennino. Solo un montanaro narratore poteva evocare storie e ambienti con una maestria da troubadour.

Ma l'altra sera, in una compilation predisposta a mio gusto dall'insinuante "Spotify", mi spunta la grande canzone "Cyrano", che è stata scritta in collaborazione con Giuseppe Dati e musicata da Giuseppe Bigazzi. La canzone trae spunto dalla figura di Savinien Cyrano de Bergerac (1619 - 1655), poeta, letterato e pensatore del Seicento francese, reso celebre - lui ed il suo imponente e proverbiale nasone - dall'opera letteraria e teatrale "Cyrano de Bergerac" di Edmond Rostand, realizzata nel 1897. Una parte del testo - datato appunto anni Novanta - disegna l'aria di un'epoca e di una parte deleteria della politica. Bastano poche strofe per costruire uno scenario suggestivo a fil di spada: «Facciamola finita, venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti, venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false che avete spesso fatto del qualunquismo un arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese. Non me ne frega niente se anch'io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato; coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco e al fin della licenza io non perdono e tocco, io non perdono, non perdono e tocco!». Poi "Spotify" mi sforna un Giorgio Gaber anch'esso d'annata, nel 2003, quando era già morto, è uscito postumo il suo ultimo album, "Io non mi sento italiano", scritto con Sandro Luporini con cui ha combattuto anni di battaglie civili. Il brano che ha dato il nome all'album recita in un passaggio: «Questo bel Paese pieno di poesia ha tante pretese ma nel nostro mondo occidentale è la periferia. Mi scusi Presidente ma questo nostro Stato che voi rappresentate mi sembra un po' sfasciato. E' anche troppo chiaro agli occhi della gente che tutto è calcolato e non funziona niente. Sarà che gli italiani per lunga tradizione son troppo appassionati di ogni discussione. Persino in parlamento c'è un'aria incandescente si scannano su tutto e poi non cambia niente». Il tempo passa ma certe impressioni restano e allora al Quirinale c'era quel galantuomo di Carlo Azeglio Ciampi. E' vero che ho citato due vecchie canzoni e che da allora tante cose - non sempre in positivo - sono cambiate, ma in certi versi si ritrovano citati antichi vizi, magari rimasti in giro con vestiti nuovi. Tutto ciò rischia di renderci terribilmente dolenti, non fosse per fortuna che a certe azioni devono seguire le opportune reazioni, se ci si crede. Perché, per evitare qualunquismo, disfattismo e la peste della demagogia non tutto è lato oscuro ed ogni giorno si incontrano persone che affrontano le cose della vita con onestà e competenza. E questo fa bene sperare.