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02 lug 2019

Magris contro i muri

di Luciano Caveri

Ho letto con curiosità le dichiarazioni del presidente leghista del Friuli-Venezia Giulia, quando aveva sostenuto «Un muro», lungo 243 chilometri, «o altro» lungo il confine est dell'Italia. «E' un'ipotesi che si sta valutando col Viminale» aveva aggiunto in un'intervista con il "Fatto Quotidiano" «perché noi dobbiamo dare sicurezza ai nostri cittadini. Tranquillità nelle case, decoro nelle pubbliche vie. Ladri, delinquenti di piccolo o grande calibro non ne vogliamo». «Se l'Europa non tutela i suoi confini noi saremo costretti a fermare l'ondata migratoria che avanza attraverso altri Paesi dell'Ue con tutti i mezzi - ha detto ancora Massimiliano Fedriga - non possiamo mettere poliziotti a ogni metro, anche se le misure di vigilanza, grazie al nuovo piano del Viminale, stanno dando i loro frutti».

Poi su "Rai Tre" aveva corretto il tiro: «C'è stata molta licenza poetica da parte del giornalista, non ho detto questo. Noi abbiamo fatto un appello chiaro: Schengen va rispettata, i Paesi di confine devono presiedere e controllare, cosa che non viene fatto. Se questo continuerà a non essere fatto, siamo disponibili a valutare qualsiasi misura: i muri si alzano se le regole non si rispettano». «Sui 243 chilometri - premette - c'è licenza poetica, ma che ci sia allo studio la possibilità di barriere nei punti più critici... questo lo valuteremo. In settimana ho un incontro con Matteo Salvini e parleremo di tutte le possibilità in campo». A me questa storia del muro nella versione originale, poi corretta, non era piaciuta per nulla e dunque mi attesto sulle posizioni di un triestino doc come Claudio Magris, impastato da quelle frontiere che fanno dell'estremo Nord Est un crogiolo culturale e ciò crea diffidenze immediate rispetto ai muri. Ha scritto a proposito Magris sul "Corriere della Sera": «C'è chi ha nostalgia della "Cortina di Ferro" e magari pure del Muro di Berlino; chi ha concretamente vissuto all'ombra di quei muri ne ha un po' meno e considera ad esempio una carnevalesca e cupa regressione ai fantasmi del passato l'idea di sbarrare di nuovo la frontiera, a Trieste, tra Italia e Slovenia. Quando ero un ragazzino la frontiera, vicinissima, non era una frontiera qualsiasi, bensì una frontiera che divideva in due il mondo - la Cortina di Ferro. Io vedevo quella frontiera sul Carso, quando andavo a passeggiare e a giocare. Dietro quella frontiera c'era un mondo sconosciuto, immenso, minaccioso; il mondo dell'Est sotto il dominio di Stalin, un mondo in cui non si poteva andare, perché la frontiera, in quegli anni, era invalicabile, almeno fino al 1948, sino alla rottura tra Tito e Stalin e sino alla successiva normalizzazione dei rapporti tra Italia e Jugoslavia. Era l'Est - l'Est così spesso ignorato, rifiutato, temuto, disprezzato. Ogni Paese ha il suo Est da respingere. Ma quel mondo dietro la frontiera era anche un mondo che conoscevo bene, perché si trattava di terre che avevano fatto parte dell'Italia e che la Jugoslavia aveva occupato alla fine della seconda guerra mondiale; terre in cui ero stato da bambino, quindi un mondo familiare, noto». Anche noi valdostani ci siamo trovati con una frontiera, meno drammatica nel dopoguerra ma significativa - in negativo - quando Benito Mussolini nel giugno del 1940 decise di aggredire la Francia e la Valle d'Aosta si trovò ad essere luogo di guerra. Dunque capisco, pur nelle differenze, il disagio di Magris, che così prosegue: «In qualche modo sentivo che dietro la frontiera c'era un qualche cosa di noto e di ignoto e credo che la vita sia sempre, consapevolmente o no un viaggio dal noto all'ignoto e viceversa, partenze e ritorni a luoghi materiali e del cuore ogni volta nuovi. Quella chiusura divideva allora anche italiani da italiani e sloveni da sloveni; amputava l'esistenza come una cicatrice sempre fresca. Ora sembra che una parte del Governo italiano voglia rialzare le sbarre e ledere la nostra esistenza, l'esistenza di noi che viviamo a Trieste. E' una piccola tessera del grande, sdrucito e sporco mosaico della politica nei confronti del problema dei migranti. A parte le considerazioni generali d'ordine anzitutto umano e certo anche politico nei confronti del grande problema dei migranti, si tratta di una tessera assurda, un cerotto che non fermerebbe nulla e solo irriterebbe la pelle di chi se lo trovasse appiccicato addosso». Ma quel che conta in quella zona a vocazione mitteleuropea è qualcosa di valido anche da noi ed è la considerazione che frontiere e peggio ancora i muro sono un elemento grave e antistorico, per altro non risolutivo di quei flussi migratori che altrimenti vanno risolti in modo stabile. Su questo Magris, che sottoscrivo: «La realtà, la nostra vita quotidiana a Trieste è una realtà transfrontaliera, un'esistenza che pressoché ignora quel confine di Stato e lo valica di continuo come si valica il limite di un rione per andare a fare acquisti, a tuffarsi in mare in un'altra spiaggia, andare a cena, passeggiare in un bosco o in un altro adiacente. Tutto ciò non cancella la dolorosa, colpevole e intricata Storia che ha creato quel confine - la violenza nazionalista, fascista e non solo fascista, italiana nei confronti degli slavi, la vendetta di questi ultimi indiscriminata e ingiusta come è spesso la vendetta, gli esodi come quello istriano, il confine invisibile fra italiani e sloveni nella stessa città. Tutto ciò soffocava la vita di Trieste, spingeva molte delle sue forze migliori ad abbandonare la città. Una delle mie fortune è stata quella di essere - in quegli anni ciechi, come li definisce Quarantotti Gambini - ancora un ragazzo che l'età proteggeva dal senso pesante di chiusura e di un grigio futuro. Da tanti decenni la situazione è migliorata; l'atmosfera è divenuta più aperta e più libera e non solo nei rapporti tra italiani e sloveni, oggi tanto più vivi e sereni, ma in generale nell'esistenza della città, nella qualità della sua vita». Contro i muri e gli odi fra Paesi europei vale l'ammonimento finale del celebre scrittore triestino: «Rialzare sbarre significherebbe ottundere questa vitalità, questo piacere di vivere e non si vedono orde immani in arrivo tali da giustificare la trasformazione di una città in una caserma, in cui giustamente è vietato l'ingresso a chi non è un soldato. La città, oggi, non è una città invasa; il riciclaggio del denaro sporco, di cui mi diceva un funzionario della Questura, che vede nascere e sparire di continuo ristoranti e ritrovi, è più pericoloso dei neri che cercano di vendere occhiali o, nei giorni di pioggia, ombrelli. Non è solo in nome dell'accoglienza e della fraternità umana che è insensato rialzare quelle sbarre; in questo caso le sbarre rialzate colpirebbero non solo i disperati in cammino, ma anche la stessa qualità di vita».