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27 mar 2019

Quel pullman in fiamme e l'integrazione

di Luciano Caveri

La minaccia di trovarsi bruciati su di un pullman, per via della follia del loro autista senegalese, dev'essere stata un'esperienza terribile per i ragazzini salvati in extremis dai Carabinieri alle porte di Milano. Eppure proprio il fatto che molto si deve, per avere allertato le Forze dell'ordine con coraggio e astuzia, a due ragazzini - uno di origine egiziana e l'altro marocchina - ci deve fare riflettere non per una melensa esaltazione di eroismo da barattare con semplicismo con la cittadinanza che né Ramy né Adam hanno, ma sul fatto che esiste qualcosa di più profondo su cui riflettere. Per farlo bisogna uscire dalla drammaticità dell'evento, che mostra come l'Italia non sia al riparo né dai "lupi solitari" fuori di testa e neppure dal rischio di azioni mirate e meno artigianali degli islamisti.

E il nodo è l'integrazione di chi, per le circostanze dell'esistenza propria e dei propri genitori, si trova a vivere e ormai per lo più a nascere qui da noi, provenienti da quei Paesi vicini o distanti di altri Continenti del Sud del Mondo. Questo vale per quei ragazzini a cui dobbiamo guardare con attenzione perché sono cittadini di domani e solo uscendo dai cliché e dai pregiudizi si potrà capire come porsi di fronte al delicato esercizio di come conciliare le loro culture di partenza nel loro insieme e i principi fondanti della nostra democrazia, che in certi casi stridono con usi e costumi con cui sono stati formati. Non sto facendo una graduatoria di civiltà, ma sappiamo come le regole del nostro vivere comune - basta leggere la prima parte della nostra Costituzione - sono per noi la base del contratto sociale che ci lega e non sono patrimonio scontato di chi viene da società in cui diritti e doveri si declinano diversamente e spesso in modo inconciliabile con il nostro percorso occidentale. Certo, le nostre sono modellistiche con difetti e asperità ma nulla di comparabile con mancanza di libertà fondamentali e diritti civili che sono fra le concause, assieme alla povertà ed alla mancanza di chance per la propria vita, che spingono alla fuga verso i nostri Paesi. Questi ragazzini "nuovi italiani" o meglio "nuovi europei" devono, nel difficile equilibrio di non sradicarli dalla propria identità, essere accompagnati nel cammino dell'integrazione, che consenta loro di vivere una cittadinanza piena e consapevole. Cittadinanza italiana che, tra l'altro, non dev'essere una gimcana di continue difficoltà burocratiche per chi dimostri con i fatti di averne diritto nel patto che stipula con chi lo accoglie. Ma sempre sapendo però che questo deve avvenire con consapevolezza, come dimostrano Paesi come la Svizzera o gli Stati Uniti con passaggi di apprendimento e di approfondimento con prove finali serie di accertamento dei requisiti e non solo di carte bollate e certificati vari. Questo non è indottrinamento ma la necessità di avere, specie per i giovani, forme di conoscenza e basi su cui costruire una consapevolezza su dove ci si trovi. Questo dovrebbe valere, nel nostro piccolo, anche per la Valle d'Aosta con strumenti che non deleghino solo alla scuola il peso di questa responsabilità. Esiste una coscienza che deve svilupparsi su dove si vive, perché solo una conoscenza è la chiave di ingresso giusta, sapendo che ognuno porta poi con sé nel posto dove sceglie di radicarsi idee, pensieri e esperienze che possono essere arricchenti per la comunità. In una logica - per evitare buonismi senza senso - di patti chiari amicizia lunga per fare in modo che la convivenza da civile non diventi incivile e si manifestino certi orrori come in Francia o in Belgio, dove giovani di seconda o terza generazione di emigrati coltivano odio e risentimento, agitando la bandiera dell'estremismo islamico.