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20 gen 2019

Pensieri su New York

di Luciano Caveri

Non può essere un soggiorno in chiave turistica a far giudicare una città sulla quale per altro esistono testimonianze approfondite ed autorevoli, per cui risulta di conseguenza inutile ogni mio tentativo di comparazione o scimmiottamento. Ma è vero che, dedicando qualche giorno in più del consueto, si può riflettere seriamente su che cosa si possa ricavare da una città come New York, che fa parte - per la messe di storie accumulate, specie per via della televisione - di un immaginario collettivo. Quella sorta di memoria accumulata che ti dà ovviamente un senso di déjà vu, che si accompagna alla vasta letteratura accumulata giocoforza nella propria vita, compartecipando anch'essa alla formazione delle proprie convinzioni e alimentando il mito di qualche cosa di unico e come tale prezioso.

Ha ragione - e mi sono adeguato - chi dice che la città va vissuta consumando la suola delle scarpe e senza l'ambizione di vedere tutto. Così come ha ragione chi dice come l'aspetto multiculturale finisca per essere un tema dominante, nella evidente contraddizione fra l'identità americana (marcata dal motto federalista "E pluribus unum", in italiano "Dai molti uno") e la discussa filosofia del melting pot a stelle e strisce, vale a dire quella miscellanea eterogenea di gruppi, individui e religioni, molto diversificati tra loro per ceto, condizione, appartenenza etnica, che convivono entro la stessa area territoriale geografica e politica. Riferita inizialmente proprio alla società americana, l'espressione ("crogiolo") è usata per indicare anche in Europa un particolare modello o ideale di società multietnica in cui dopo un certo tempo, segnato dal succedersi delle generazioni, le culture e le identità specifiche degli immigrati sarebbero destinate a fondersi con quelle dei Paesi di accoglienza. Tema vasto e di grande attualità ed è chiaro che il modello newyorkese, pur pieno di contraddizioni come in altre zone dei vastissimi Stati Uniti, resta da studiare e chi valuti l'impatto delle migrazioni che hanno fondato la città, ha la possibilità di accesso ad una vasta documentazione per rifletterci sopra. Ho avuto la fortuna di studiare diversi aspetti della storia americana, per cui non mitizzo affatto il percorso e non nascondo le contraddizioni, ma certo si evidenzia alla fine almeno il tentativo di conciliare una cittadinanza americana con l'appartenenza, che certo sfuma nel tempo, da una delle tante culture d'importazione che hanno fatto proprio di New York - e lo è ancora - uno dei poli d'attrazione, tenendo conto di tutti i problemi di governance di una megalopoli. Eppure l'impressione che questa vecchia città, che ha questa almeno apparente capacità di una continua rinascita, come potrebbe essere negli aggiornamenti periodici dei nostri apparati digitali, viva questa dimensione plastica è ben visibile nella skyline, dove ardite costruzioni contemporanee convivono con vecchi grattacieli. Una dimensione dinamica che spezza quella logica rinunciataria che ammorba spesso il Vecchio Continente e l'impressione è che certi valori di fondo, comunitari, come dovrebbero essere, attraversino gli Stati Uniti, di nuovo "E pluribus unum", attraverso quel ruolo della Costituzione come elemento aggregante, che discende davvero ad un livello popolare. Un cenno ancora alla sicurezza: grande tema che colpisce come un "ko" fulminante la politica europea. Oggi Donald Trump, che ha attraversato il cielo della politica come un fuoco d'artificio colorato, ha fatto sua la vulgata populista, rappresentata in maniera statica dall'idea di costruzione del muro con il Messico. Ma la verità è che l'impressione di uno sforzo sulla sicurezza si evidenzia non solo nelle muscolose procedure per l'ingresso e dalla banale ma concreta presenza della Polizia, ma dall'attenzione sempre presente per la legalità come caposaldo del "chi sbaglia paga" in una logica non solo puritana ma di civile convivenza. Questo non esclude errori e orrori, che mi sono ben presenti perché il mito americano nasconde rughe e faglie, ma il senso di sicurezza non c'è così in altre grandi città europee e l'Italia è fanalino di coda. Capisco cosa vive un americano che finisca alla stazione "Termini" a Roma che sembra un "suk" mediorientale, che arrivi a "Fiumicino" e venga assalito da tassisti abusivi, che vada al Colosseo assaltato da venditori ambulanti abusivi, che verifichi ad ogni angolo del centro forme di accattonaggio da sfruttamento. Quella stessa incertezza che fa sì che molti cittadini senta l'impulso di sposare la pancia e non il cervello, di cavalcare l'odio come base della vita, di vivere in fibrillazione per le condizioni mai chiari della vita collettiva. Insomma, si gira il mondo per tornare al proprio campanile, per capire se e come le cose possano andare meglio e naturalmente per evitare che possano andare anche peggio, coltivando la segreta speranza che le cose migliori servano per migliorare noi stessi e le nostre condizioni di vita.