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27 ott 2018

A difesa delle Assemblee

di Luciano Caveri

Ho sempre difeso e sempre difenderò le assemblee degli eletti: che siano un Consiglio comunale o regionale, una Camera nazionale o un Parlamento come quello europeo o il più vasto "Consiglio d'Europa". So bene la differenza che esiste fra di loro, ma li unisce - al di là dei poteri veri e propri che sono in grado di esprimere - l'idea positiva che in un emiciclo siedano persone con posizioni diverse che siano in grado di discutere fra loro di argomenti utili per le comunità di cui sono espressione. So bene che l'anti-parlamentarismo è vecchia storia, oggi alimentata dallo strapotere dagli Esecutivi, che siano sindaci o presidenti di Regione con le loro Giunte fatte da assessori o forme di Governo complicate come nell'Unione europea con Commissione e Consiglio. Ma - in epoca di Web e di "social", che incarnano ipotetiche democrazie digitali - rivendico l'efficacia e la genuinità di trovarsi dal vivo, faccia a faccia, per discutere di persona, com'è doveroso fare.

Tuttavia dobbiamo riflettere sui doveri di chi è eletto e lo dico non in termini polemici ma strettamente istituzionali. Per capirci: se gli spazi del parlamentarismo si riducono, i primi a ribellarsi degli spazi ridotti devono essere consiglieri e parlamentari, affermando i loro ruoli essenziali negli equilibri di potere. Ma c'è un passo in più, che è fatto di credibilità: bisogna che chi rappresenta la volontà degli elettori sia degno del ruolo assegnato per onestà e dignità. Quest'ultima prevede che toni e comportamenti siano consoni al ruolo e non per ragioni censorie, ma perché esistono limiti di buonsenso e di educazione che, se superati, fanno venir meno aspetti morali e di decoro. E, oltre alla "forma", esiste anche la "sostanza", fatta di impegno e necessità di approfondire temi e argomenti per fare bene. Certo, gli elettori dovrebbero metterci del loro, scegliendo persone competenti e "pulite". Chissà quanti sanno dell'esistenza dell'articolo 54 della Costituzione e della sua doppia articolazione: "Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge". Questi due termini "disciplina" (intesa come obbedienza alle regole) ed "onore" (dignità personale e integrità morale) temo siano da molti considerati fuori moda, ma la scelta dei costituenti avvenne con grande attenzione, così come i sintetici doveri dei cittadini di fedeltà alla Repubblica e obbligo di osservare Costituzione e leggi. La "cittadinanza" significa consapevolezza e ne parlo spesso anche con amici e conoscenti che assistono agli spettacoli degradanti di certa politica o con aggressività sposando gli estremismi populisti e le ondate demagogiche o - persin peggio - quasi con rassegnazione attraverso un atteggiamento passivo allo spettacolo degli uni e degli altri, che sfocia in un astensionismo non solo elettorale ma morale. Ne scriveva anni fa sulla "Treccani" Pietro Ignazi: «In questo sentimento di rivalsa popolar-populista c'è molto di plebeo, di folla da tricoteuse di fronte ai palchi della ghigliottina; e quindi qualcosa di molto italico, cioè di una società civile debole e striminzita che non è stata in grado di trovare spazio e riconoscimento, stretta tra il vecchio establishment dei salotti buoni e dei poteri forti, e i nuovi arrampicatori sociali espressi dalla politica». Scriveva così una decina di anni fa e forse le cose si sono ancora più complicate nel rapporto fra eletti ed elettori, fra istituzioni e cittadini, fra politica e vita quotidiana. Ma bisogna prendere posizione, senza chiudersi nella gabbia dei propri convincimenti. Scriveva Norberto Bobbio: «Prendere posizione non vuol dire parteggiare, ubbidire a degli ordini, opporre furore contro furore, vuol dire tender l'orecchio a tutte le voci che si levano dalla società in cui viviamo e non a quelle così seducenti che provengono dalla nostra pigrizia o dalla nostra paura, esaltate come virtù del distacco e dell'imperturbabilità, ascoltare i richiami dell'esperienza e non soltanto quelli che ci detta un esasperato amor di noi stessi, gabellato per illuminazione interiore. E soltanto dopo aver ascoltato e cercato di capire, assumere la proprie parte di responsabilità».