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18 ott 2018

Ad un secolo dalla fine della Grande Guerra

di Luciano Caveri

Si avvicinano quelle date che portarono un secolo fa alla fine della Prima Guerra mondiale. Solo cent'anni - che sono una bazzecola con i tempi della Storia - ci dividono da quegli avvenimenti ed invece, morti i protagonisti di quella guerra irta di battaglie terribili con armi nuove assolutamente letali e con le popolazioni civili colpite dalle nuove modalità del conflitto, sembra che la celebrazione sia rimasta solo in termini ufficiali, direi retorici, senza suonare come un ammonimento nel ricordo dei fatti e soprattutto delle tragedie. Una mancanza di memoria collettiva che, invece, sarebbe stata preziosa e non andava sprecata, come avvenuto, in questo periodo in cui l'Europa rischia grosso, disgregandosi in nuovi nazionalismi roboanti e talvolta aggressivi, che rischiano di minare alle sue radici il percorso che - dal 1918 in poi - grazie anche alla capacità visionaria dei federalisti ha portato a un processo d'integrazione europea, acceleratosi dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Altro conflitto che fu anche sul Vecchio Continente ripetizione di ostilità, diventate ancora più feroci con l'arrivo sulla scena di orrori come l'Olocausto con il folle genocidio e la Bomba Atomica, elemento centrale della successiva "guerra fredda". Ricordo in parte il contenuto di un documento ufficiale di chiusura vera e propria delle operazioni belliche: "Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12. Bollettino di guerra numero 1268 firmato da Armando Diaz, comandante supremo del Regio Esercito: «La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di Sua Maestà. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente»". Nella smemoratezza "popolare", ma anche di gran parte del mondo intellettuale italiano, ammesso che ce ne sia ancora uno visto che ormai aleggia un silenzio su fatti attuali ancora più gravi, c'è la fortunata eccezione di un fotografo valdostano, che mi onora della sua amicizia, Stefano Torrione, che vien da una vecchia e prestigiosa famiglia della Valle. Stefano - e chiude domenica al Forte di Bard dopo un grande successo a Trento - è stato protagonista, come autore, di una mostra fotografia (ora libro grazie al successo di un crowfunding, cioè una raccolta di fondi online) su "La Grande Guerra Bianca". ll reportage è stato appunto realizzato in occasione del centenario della Grande Guerra e pubblicato da "National Geographic Italia" nel numero di marzo 2014 (il primo servizio di un'edizione straniera ad essere tradotto e ripreso dal sito internazionale nationalgeographic.com). La mostra ideata e realizzata da "National Geographic Italia" con la cura di Marco Cattaneo, amplia e completa questo straordinario lavoro. Il fotografo ha dedicato quattro anni a percorrere la linea del fronte, sulla lunga cresta di confine tra il Passo dello Stelvio e l'altopiano carsico, dove le truppe austro-ungariche e italiane si affrontarono in zone impervie in cui mai si era combattuto, fino a tremila metri di altitudine, tra le cime e i ghiacciai delle Alpi centrali e orientali. L'itinerario del fotografo, accompagnato dall'alpinista della Commissione storica della "Sat" Marco Gramola, segue le tracce lasciate dalle migliaia di uomini mandati a combattere e a morire in condizioni proibitive: trincee, baracche, gallerie scavate nella roccia, postazioni di combattimento, ma anche armi e oggetti personali ritrovati in quota, testimonianza di uno degli eventi più tragici della storia dell'umanità. Ne parla anche, in un bell'articolo, Francesco Battistini - con foto dello stesso Torrione - sul settimanale "7" ieri in edicola con il "Corriere della Sera", che ricorda - fra l'altro - quanto scritto nella prefazione del libro: "Non un sasso si è mosso da certi luoghi in un secolo, dice lo scrittore del Premio Strega, «e questa è la malinconia e la consolazione di noi che andiamo in montagna: ragazzi, uomini, vecchi ritroviamo ogni cosa uguale, camminiamo fra i nostri ricordi e impariamo che la vita di un uomo dura quanto il cadere di una foglia per il tempo della montagna. Perfino gli alberi lassù crescono più lentamente e un cembro di cent'anni può avere l'aspetto di un arbusto»". Dice Torrione al giornalista del "Corriere": «Ho sempre fotografato le persone, non la loro assenza. Ma quando scali dieci ore ed entri in una camerata scavata nella roccia, coi letti e gli oggetti tutti lì, la presenza c'è. Eccome, se c'è. E senza la fatica bestiale del costruire, lo sforzo enorme del sopravvivere, il coraggio che ci volle a rimanere mesi in posti dove quasi nessuno era mai passato prima. Quei luoghi così irraggiungibili non avevano alcun interesse, prima del Quindici-Diciotto. Non importavano nemmeno alla gente di montagna, che infatti non ci andava: a cosa serviva costruire qualcosa in cima alla Marmolada?»". Insomma: prima che la Natura cancelli, con il tempo, le tracce di quei soldati e di quegli avvenimenti, nel lavorio continua delle montagne, Torrione ha lasciato la sua testimonianza, meglio di molti discorsi rievocativi, più efficace - per chi vorrà scorrere il libro - su quelle trincee sulle Alpi, luogo di dolore e di paura. Ricordo cosa pesò sul futuro della Valle d'Aosta di allora l'esito della Grande Guerra, quando i valdostani erano circa ottantamila: 8.500 giovani inviati al fronte, 1.557 caduti, 3.600 finiti in ospedale per ferite o malattie (ed in tanti rimasero invalidi permanenti), 850 fatti prigionieri. Molti dei caduti furono Alpini del "Battaglione Aosta", unico tra tutti i battaglioni alpini cui venne conferita la "Medaglia d'oro al valor militare" per le azioni sul Monte Vodice e sul Monte Solarolo con azioni di una violenza e di un coraggio indicibili. Stefano mi ha ricordato un giorno come ci fosse nella sua scelta anche una ragione familiare: un cugino di suo nonno, il soldato Valentino Torrione, classe 1896, morì appena diciannovenne proprio in quella guerra il 3 settembre 1915 per le ferite riportate in battaglia. C'è in suo ricordo un albero nell'impressionante Parco delle Rimembranze del cimitero di Aosta, dove si vede - come avviene anche nei monumenti ai Caduti in tutta la Valle - quale gravoso tributo di vite umane costò quella strage dall'altra parte delle Alpi. Una terribile ferita ancora aperta per chi ne voglia avere una storica consapevolezza.