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19 set 2018

Via Web i nostri dati non sono un dono

di Luciano Caveri

Un giorno verrà in cui prenderemo più sul serio la questione di come il mondo digitale consenta un controllo occhiuto su tutti noi, che pure ci sciacquiamo la bocca con norme sulle privacy che dovrebbero essere a prova di bomba ed invece somigliano in modo inquietante ad uno scolapasta. Flavio Pintarelli sul sito "Il Tascabile" ha scritto un articolo molto interessante sui dati, che mi permetto di citare per il suo vivo interesse. L'inizio è la nostra vita quotidiana: «Al mattino, quando lo avviamo (sempre che non lo avessimo lasciato acceso la sera prima), il nostro smartphone invia a uno dei tanti soggetti - il produttore del telefono, quello del sistema operativo, quelli dell'app che abbiamo installato e altri ad essi legati - a cui il nostro pezzo di hardware ci collega, l'informazione che il "device" è attivo».

«Se nel corso della settimana, mettiamo dal lunedì al venerdì - continua l'articolo di Pintarelli - questo dato viene registrato più o meno ogni giorno alla stessa ora, chi lo raccoglie può ragionevolmente presumere che noi abbiamo una routine quotidiana consolidata e, quindi, che potremmo essere lavoratori o studenti della scuola dell'obbligo, ad esempio. Se poi sul nostro smartphone abbiamo attivato la geolocalizzazione, verranno registrati anche i nostri tragitti quotidiani, che finiranno per fare parte di quell'insieme di dati che trasmettiamo a tutti i soggetti a cui siamo legati per suo tramite. Per tutti loro, sarà così più semplice capire per quale motivo ci siamo svegliati quella mattina. Infatti se una ventina di minuti dopo essere usciti da casa il nostro smartphone raggiunge un indirizzo che corrisponde a quello di un'azienda e da qui non si muove per le successive quattro ore sarà piuttosto facile per chiunque abbia i mezzi per raccogliere, processare e analizzare quei dati presumere che quella è l'azienda per la quale lavoriamo. Tutto questo processo avviene in modo automatico senza che vi sia, da parte di chi raccoglie, processa e analizza i dati, alcuna frizione o interferenza con le nostre faccende di tutti i giorni. Questo accade perché ogni dispositivo che noi utilizziamo crea una traccia digitale fatta di dati che possono essere aggregati, analizzati e letti per ricavarne un gran numero di informazioni. E man mano che a venire digitalizzato è un numero sempre più alto di oggetti di uso comune, come sta accadendo proprio adesso con la cosiddetta "Internet of Things", le dimensioni della nostra traccia digitale aumentano di conseguenza, trasformandola in qualcosa di più concreto dell'ombra delle nostre abitudini di consumo. La mole di dati che, potenzialmente, siamo in grado di produrre oggi come oggi assomiglia molto a un vero e proprio profilo ombra della nostra esistenza, il corrispettivo virtuale di noi stessi di cui, spesso e volentieri senza una piena consapevolezza, cediamo la proprietà e il controllo ai produttori di "device" ed ai fornitori di servizi digitali». Insomma "regaliamo", come si trattasse di un "dono" elementi importanti della nostra vita e Pintarelli evoca un celebre sociologo francese vissuto a cavallo fra i due secoli scorsi: «Il meccanismo del dono, così com'è stato classicamente descritto da Marcel Mauss in uno dei suoi saggi più celebri, prevede tre momenti fondamentali basati sul principio della reciprocità: "il dare", "il ricevere" (che presuppone "accettazione") ed il "ricambiare". Nel contesto dell'attuale capitalismo di piattaforme - quello che sulle operazioni di raccolta, processo e analisi dei dati basa gran parte, se non tutto, il proprio potenziale competitivo - questo tipo di relazione sembra configurarsi nel modo che descriverò di seguito. Il momento del "dare" è occupato dall'offerta gratuita di un servizio, il "dono" che la piattaforma offre per creare una relazione con il proprio utente. Nel momento del "ricevere", l'utente accetta il "dono" sottoscrivendo i termini che regolano l'utilizzo del servizio. E' al loro interno, ed è a questo punto che lo schema di Mauss subisce una perturbazione, che viene configurato il momento del "ricambiare", ovvero la cessione dei propri dati personali e di utilizzo del servizio. Dati che verranno poi rivenduti contribuendo a creare il valore della piattaforma stessa. Quello che ruota intorno a questa relazione di "dono" geneticamente modificata, in cui il momento del "ricambiare" perde la sua natura non obbligatoria e flessibile in termini di modalità e di tempo, è un equivoco squisitamente linguistico ed è lo stesso che ha reso, rende e probabilmente continuerà a rendere difficile articolare un discorso intorno alla proprietà personale dei dati. Perché se prendiamo per buona la frase di Wittgenstein secondo cui "i limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo", allora le parole che usiamo per parlare di dati ne creano la realtà e, di conseguenza, anche il modo in cui i dati influenzano e trasformano il nostro modo di giudicare la realtà che ci circonda è legato a esse. Finché continueremo a concepire i nostri dati come una parte di una relazione di "dono", sarà difficile tanto sviluppare una coscienza dell'importanza della loro proprietà tanto provare a ipotizzare soluzioni di design in grado di dimostrare una responsabilità civica e politica del valore dei dati che produciamo». Sul piano etimologico sono queste riflessioni che preludono alle considerazioni finali: «La parola "dato" deriva infatti da un altro sostantivo maschile latino, questa volta della quarta declinazione: "dàtus" ovvero "il dare"; ed è risalendo lungo questa radice che si è affermato il suo significato di "elemento immediatamente presente alla conoscenza, prima di ogni forma di elaborazione" (dizionario "Treccani"). Un elemento che, proprio in virtù della sua immediata presenza alla conoscenza, poteva essere il mezzo per la risoluzione di un problema matematico o la base per l'elaborazione di una teoria da parte di un filosofo. Quello che dovremmo chiederci però, a questo punto, è se l'etimologia e il significato che siamo stati abituati a dare alla parola "dato" siano ancora utili per aiutarci a capire la natura di tutte quelle operazioni che vanno oggi sotto il nome di "big data"? La risposta è no. E non si tratta, in realtà, nemmeno di una questione di novità rispetto ad un ipotetico passato in cui quella situazione di presenza immediata del dato alla coscienza poteva avere un qualche valore. Ogni volta che noi parliamo di dati ci riferiamo sempre a un sottoinsieme degli infiniti elementi del mondo che sono stati isolati da qualche strumento o processo di misurazione. Anche in questo caso, l'equivoco è squisitamente linguistico. Tanto è vero che, nel 2014, in un libro intitolato "The Data Revolution: Big Data, Open Data, Data Infrastructures and their Consequences", Rob Kitchin fa notare come la parola "capta" (dal latino "captare, catturare") avrebbe, rispetto alla parola "data", un maggior valore esplicativo dei processi di trattamento e costruzione a cui è sottoposta l'informazione». La conclusione di Pintarelli è questa: «Così, se li pensiamo come una forma di "dono", non ci poniamo alcun problema sulla proprietà dei nostri dati. Dall'altra parte, invece, è emerso il modo in cui l'uso delle parole contribuisce a costruire delle prospettive sulla realtà che, almeno in questo caso, sono funzionali a dissimulare dei rapporti di potere. Ovviamente per sfuggire le accuse di complottismo, bisogna dire che non sempre c'è una volontà malevola dietro questi equivoci linguistici. C'è però spesso una tendenza a servirsi di abitudini familiari per descrivere in modo semplice processi la cui complessità non dovrebbe essere ridotta, bensì spiegata e dispiegata. Come si pone rimedio a questa situazione? La domanda è essenziale, critica ed è difficile darle una risposta. Credo però, e questo è un tentativo che può essere dibattuto a lungo, che per portare al centro del dibattito pubblico le questioni relative al ruolo che i dati stanno ricoprendo all'interno della nostra società (dalla loro proprietà alla proprietà dei mezzi necessari per processarli e metterli a valore) sia necessaria in primo luogo un'approfondita opera di educazione e formazione. Il mondo in cui viviamo sta infatti attraversando un'epoca di cambiamenti profondi che abbiamo il dovere di condividere tra noi essere umani, aggiornando, se necessario, i concetti con cui siamo abituati a pensare la realtà in modo da aiutarci a riflettere nel modo più fedele possibile quella che stiamo vivendo. Solo in questo modo sarà possibile per noi cominciare a ragionare su come poter progettare ambienti fisici e digitali in grado di costruire un diverso e più consapevole rapporto tra noi utenti e i dati che produciamo». Considerazioni forse complesse ma che dimostrano che o avremo regole più determinate o il "Grande Fratello" sarà sempre più il nostro Angelo/Diavolo custode.