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17 mag 2018

Quella montagna abbandonata

di Luciano Caveri

Lo Statuto d'Autonomia valdostano rifletteva una realtà diversa da quella attuale, essendo datato 1948 e opera di costituenti che avevano in media 41 anni, e dunque nati nei primi del Novecento. Gli stessi politici valdostani non erano giovanissimi: il costituente eletto in Valle Giulio Bordon era del 1888 (sessant'anni), come il primo Senatore Ernest Page, mentre il primo Deputato Paul-Alphonse Farinet era del 1893 (55 anni). Allora era ampiamente dominante il mondo contadino ed anche chi lavorava in fabbrica o in miniera non abbandonava campi e bestiame. Così, scorrendo le materie statutarie, si riflette su una Valle dove l'acqua irrigua è importante, come le consorterie e i boschi, la zootecnia e il miglioramento fondiario.

Oggi ci sono - ma i dati del 2016 sono ancora peggiorati - circa duemila aziende agricole, di cui mille nell'allevamento (ottocento con bovini) e questo vale - cifra choc rispetto a metà del secolo scorso - solo l'1,6 per cento del "Prodotto interno lordo" valdostano. Eppure, quando ci si guarda attorno, bisogna riflettere come questo assottigliarsi del settore agricolo abbia nel tempo conseguenze gravi sul territorio montano dove viviamo, che da sotto le cime sino al fondovalle non è ambiente selvaggio (in inglese "wilderness") ma terra coltivata e curata dai montanari. Il progressivo abbandono crea oggi situazioni allarmanti con l'allargarsi come non mai dei boschi, con terreni incolti sempre più vasti (spesso di proprietà pubblica), con il degradarsi di terrazzamenti e l'abbandono di colture regredite in modo impressionante, come la viticoltura o le attività cerealicole. Prendete qualche sentiero o qualche strada interpoderale ed incontrerete un inselvatichimento impressionante, fatto di disordine e degrado, terreno pericoloso in caso di incendio ed all'origine di smottamenti di varia gravità, così come avviene con l'abbandono del reticolo di canalizzazioni indispensabili per una regimazione delle acque. In questi possibili e tristi sopralluoghi, vallata dopo vallata, è facile constatare come questo colpisca tanti villaggi ormai deserti e abbandonati con esempi straordinari di architettura del passato ad un passo dal collasso. Bisogna riflettere su questa situazione di una montagna che rischia di essere desertificata con buona pace di chi gongola nella convinzione che questo sia un salutare ritorno alla Natura, senza rendersi conto che questa montagna abbandonata ci cadrà sulla testa ed è il segno della resa di una parte importante della cultura alpina. Chissà cosa scriverebbe un autore della montagna vero e non d'importazione come Mario Rigoni Stern che osservava il suo Altipiano di Asiago, ma avrebbe potuto dire delle nostre montagne che ben conosceva, visto che scriveva tantissimi anni fa qualcosa di profetico: «l'infittirsi degli alberi e l'abbandono delle terre un tempo coltivate a pascolo, i luoghi diventano sempre più selvaggi. Non si va più a raccogliere la legna e l'abbandono fa crescere il sottobosco, così aumentano le vipere che lì trovano in abbondanza il loro cibo preferito, i topi, ma aumentano anche le volpi, le donnole, le faine e gli uccelli rapaci. Luoghi così inselvatichiti non sono buoni nemmeno da funghi, i sentieri si inerbano e spariscono tra rovi e spini. Anche ai piedi delle montagne, dove queste si raccordano con le colline prima della pianura, dilagano le robinie e così quei luoghi diventano sempre più impraticabili. I cinghiali, che qui, a memoria d'uomo non si sono mai visti, ma che qualche pseudo ambientalista ha voluto introdurre di nascosto portandolo dall'Appennino, di notte vanno sui pascoli delle malghe e con il grifo rovinano la cotica erbosa per cercare radici e larve. Nei boschi alti sono tornati i cervi, che disturbano i caprioli i quali, a loro volta, allontanano i caprioli. Arriveranno anche i lupi, speriamo, che riporteranno equilibrio tra gli erbivori». I lupi sono tornati con preoccupazione degli allevatori rimasti e dalle sue parti è stato reintrodotto anche l'orso, che è un soggetto che non ha paura dell'uomo, ma ciò avviene mentre il degrado della presenza umana impoverisce le Alpi in barba a quell'ambientalismo che - se deve scegliere fra l'uomo e l'animale - sceglie quest'ultimo, come se in fondo odiasse la specie cui appartiene. L'abbandono fisico e culturale di ampie parti delle montagne, mentre le grandi località turistiche mutano il proprio storico "dna", è tema politico significativo, che non riguarda solo il pubblico che con le sue squadre forestali dovrà arrestare il degrado ed arginare i danni, ma si tratta di qualcosa di più profondo e cioè di un progetto ambizioso che, sfidando il senso di sfiducia e le difficoltà di operare, lavori per un ragionevole ripopolamento, invertendo anzitutto quel decremento demografico che colpisce senza pietà e quell'urbanesimo attorno ad Aosta che svuota le valli con un centralismo insulso.