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20 mar 2018

Macroregione all'orizzonte?

di Luciano Caveri

L'Autonomia cammina su due gambe e bisogna che entrambe funzionino per stare in piedi: la prima deriva da quell'impasto che - a vario titolo - individua le ragioni della specialità, senza le quali neppure sarebbe nata una Regione autonoma e che non hanno solo motivazioni politiche nude e crude, ma quella ragioni "economiche, geografiche e linguistiche" scritte nel primo Decreto luogotenenziale del 1945 e nel senso comune di appartenenza, che pure non è più quello di allora. C'è quella bella canzone, "Todo cambia", del cantante e autore cileno Julio Numhauser, che recita: «Cambia ciò che è superficiale e anche ciò che è profondo cambia il modo di pensare cambia tutto in questo mondo».

Confesso che più di una volta mi sono baloccato con l'idea di fare uno spettacolo teatrale da solo sul palco con lo Statuto speciale in mano per far capire che cosa ci sia dietro non solo di storico e di giuridico ma anche di vivente e sociale in quelle nostre norme e nello sviluppo che esse hanno avuto. Compreso, naturalmente, l'anacronismo dovuto ad alcuni passaggi ormai datati. La seconda gamba, in uno Stato di Diritto, è che la Repubblica dia all'ordinamento valdostano quegli strumenti giuridici propri, di fonte statale ed ormai europea che ne consentano la piena espressione. Un equilibrio di poteri delicato, perché il regionalismo, a differenza del federalismo, è sempre qualcosa di "concesso" e reversibile. Lo si vede - e ne parleremo - da sentenze della Corte Costituzionale, quel giudice delle leggi che ha spesso oscillato, a seconda dei contesti, dando e togliendo poteri e competenze. Resta certo che se mai dovesse essere soppressa l'Autonomia oggi mai si parlerebbe di una Regione ordinaria, ma verremmo semplicemente risucchiati - con danni enormi sulla vita dei cittadini, compresi quelli che fanno spallucce sull'Autonomia - dall'Area metropolitana di Torino, che già misconosce le vallate piemontesi rientrate nel suo ambito. Di conseguenza ogni segnale finisce per essere un indizio, soprattutto di quel disegno che sarebbe stata, a mio avviso, la tappa due della Riforma costituzionale Renzi, le mortali - per la Valle - "macroregioni". Leggevo su "La Stampa" di ieri questo campanellino d'allarme: «Sopprimere la Corte dei Conti della Valle d'Aosta e assegnare le competenze a quella del Piemonte "in via sperimentale" per ovviare alla carenza cronica di organico e alle difficoltà nella copertura dei posti. La proposta - secondo quanto appreso dall'Ansa - è stata avanzata oggi dal Consiglio di presidenza, organo di autogoverno della Corte dei conti, riunitosi per esaminare le problematiche del settore. Le altre proposte sono le assegnazioni plurime oppure l'accorpamento delle sezioni territoriali in base alle macroregioni, da realizzarsi attraverso la via legislativa. Unire la Corte dei conti della Valle d'Aosta a quella del Piemonte sarebbe quindi una "soluzione intermedia"». Ora io non capisco questa storia, tenendo conto che oggi in Valle ci sono una sezione regionale giurisdizionale, prevista per ciascuna Regione da una normativa dell'inizio degli anni Novanta, e una sezione di controllo nata nel 2010 - con aspetti singolari nella sua composizione - con norma di attuazione dello Statuto e dunque neppure modificabile con legislazione ordinaria. Tra l'altro sulla prima delle due - protagonista oggi, con le tesi accusatorie, di una causa erariale molto cospicua verso una ventina di consiglieri regionali in tema di finanziamento al Casinò di Saint-Vincent - ci si chiede davvero come possa reggere l'idea di accorpamento totale o parziale sul Piemonte, che non sarebbe solo uno stravolgimento di quanto previsto dal legislatore con una regionalizzazione nella presenza della magistratura contabile, ma significherebbe anche disattendere una sentenza della Corte Costituzionale del 1995. In quell'occasione la Regione contestò, in punta di Statuto ma non solo, la nascita della sezione giurisdizionale e chi legga il dispositivo capisce che non si può oggi - sarebbe in spregio a quanto scritto dalla Consulta - immaginare uno spostamento su Torino, allargando la competenza alla Valle e non avrebbe neppure significato - lo dico rispetto a smentite locali e non giunte da Roma dove si è discussa l'ipotesi - avere magistrati pendolari dal Capoluogo piemontese, venendo meno a quel principio di incardinare in ambito regionale, che ha una sua dignità istituzionale. Ma, se i fatti servono a capire qualcosa, l'avvenimento è dimostrativo di una certa percezione, davvero residuale, della Valle d'Aosta, per altro visibilissima negli uffici statali o in quello che un tempo si chiamava "parastato": la tendenza, per supposte ragioni di economicità, a spostare altrove i veri centri decisionali, umiliando di fatto quell'elemento della specialità, che non può essere interpretata facendo di noi una sorta di Provincia in più del Piemonte, una costola che finisca per essere un'eccezione considerata una scocciatura sulla base di criteri demografici che ovviamente ci penalizzano. Lo si vede anche in maniera macroscopica nei concorsi effettuati da questi enti vari, che hanno ormai buttato via la logica di concorsi locali, che prevedevano anche la conoscenza della lingua francese. Una scelta che viola Statuto e Costituzione e che allontana tantissimi giovani valdostani dalla loro Valle, perché con certi megaconcorsi nazionali mai avranno la possibilità di restare qui.