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18 dic 2017

L'informazione non è un palcoscenico

di Luciano Caveri

Fa impressione come le notizie volino ormai con la velocità della luce. L'altro giorno ero a casa e "Sky", ma anche "RaiNews24", si sono occupate del terrorista "fai da te" che ha cercato goffamente di farsi saltare nella metropolitana di New York. Stando sul divano a migliaia di chilometri dall'evento in progress, era possibile sbirciare anche su "Twitter" i fatti in costruzione e ciò offriva materiale prezioso. Anche se, come sempre capita, girava in Rete qualche filmato "fake news", nel senso che si trattava di roba riguardante altri attentati che veniva riciclato. Tocca sempre fare attenzione a cosa circoli sul Web e bisogna mantenere vigili spirito critico e capacità di osservazione per non venire pescati all'amo.

Un tempo non sarebbe stato possibile seguire questa diretta, che certo dà freschezza all'informazione, ma con il rischio insito nell'immediatezza di fornire anche notizie distorte, avendo difficoltà di filtro nella mole immensa che si accumula in una specie di imbuto e spetta ai giornalisti selezionare - e non è mai facile - quanto ritenuto credibile. Il flusso di notizie va alimentato in queste maratone televisive e dunque si tratta sempre di scegliere per evitare anche di aiutare nel loro scopo i "cattivi" ed anche di discernere con un minimo di ragione le notizie fra quelle ufficiose (le più ambite nella corsa all'audience fra reti televisive) e quelle ufficiali, che hanno i tempi di attesa che hanno. In una democrazia la cronaca nera - di cui gli attentati di stampo religioso islamista fanno parte - non può essere nascosta, ma non si deve sottostimare come il clamore degli avvenimenti e la paura con seguente siano esattamente negli scopi anche del più imbranato dei "lupi solitari". Così nell'etica del giornalista - anche se ormai la materia è trattata anche in contenitori televisivi dove presentano persone che nulla hanno a che fare con il giornalismo e l'Ordine professionale è inerme - si crea il problema serissimo di come impostare l'informazione. Da una parte evitando chissà quali censure ed omissioni e, dall'altra, evitando di diventare una potente cassa di risonanza. Il tutto - ricordo come caso di scuola le famose Torri Gemelle proprio a New York, di cui seguii tutto lo svolgersi in televisione, fin dallo sbirciare casuale dal televisore nel mio ufficio al Parlamento europeo, acceso senza audio - prevede ormai una seria riflessione sulla trattazione di certe notizie. Non ho particolare certezze, se non una considerazione che viene da una certa familiarità con l'informazione. La gestione delle dirette è un fatto complicato ed in una televisione dove spesso si scelgono le persone più per la loro avvenenza e per la spigliatezza nella conduzione tutto va bene sino a quando - anche con l'uso del gobbo elettronico - si leggono notizie in modo assolutamente professionale, ma su copioni precostituiti. Molto cambia - ma questo somiglia in parte ai comizi politici quando si tratta di improvvisare e non di leggere un compitino, magari scritto da altri - di fronte all'imprevisto e lì si misura il grado di conoscenza e di competenza. Questa storia della cultura e della competenza, patrimonio costruito nel tempo, è uno degli argomenti significativi in questo mondo in cui l'informazione è perennemente sul palcoscenico. Tantissimi anni fa feci per alcuni giorni il corso da "radiocronista", ma già usando anche le telecamere. Venivo dalla gavetta, cioè dall'epoca delle radio e televisioni libere (almeno noi le chiamavamo così con qualche illusione presto spenta), ma quell'esperienza - a contatto con vecchi reporter "Rai" e, per la dizione, con Arnoldo Foà - mi spalancò un mondo. Come immagino avvenga oggi per i tanti ragazzi che si laureano in giornalismo ed ottengono in contemporanea il tesserino da professionista, che spesso diventa l'anticamera del precariato o della disoccupazione. Allora questa storia di riuscire a dare le notizie senza finire per esserne complici in qualche misura non esisteva, ma quel che è certo è che certe regole, che oggi chiamiamo con consapevolezza deontologiche, ci venivano inculcate in un passaggio di testimone da generazione a generazione. Perché il giornalismo, a dispetto del fatto che quasi tutti sono lavoratori dipendenti, resta una professione con un penchant di lavoro liberale, se non persino artigianale nella costruzione della notizia e nelle diverse modalità possibili per proporle.