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09 dic 2017

A sciare in pullman, pensando al passato

di Luciano Caveri

Leggo che i pullman low cost di "Flixbus" si sono lanciati in collegamenti fra grandi città e località sciistiche. Nel caso della Valle d'Aosta da Milano verso Pila e Breuil-Cervinia. Ho letto che altre compagnie analoghe, ad esempio in partenza da Roma verso località appenniniche, fanno la stessa cosa. Segno che c'è business nel settore, anche perché per molti le tariffe autostradali sono ormai - pensiamo alle autostrade valdostane - un vero deterrente! Con la propria macchina, che già costa, si può scegliere da larga parte della Lombardia di andare dove i pedaggi costano meno, ad esempio l'autoBrennero. Mi tornano alla memoria quel passaggio fra gli anni Ottanta e Novanta in cui mi occupai del turismo dello sci, prima come presidente di uno dei primi Consorzi, quello del "Monterosa Ski" e poi per alcuni anni come amministratore della società degli impianti di Brusson e ciò mi consentì di essere per un lungo periodo di essere vice presidente della "Associazione nazionale esercenti funiviari - Anef".

Una posizione utile per capire di più sul settore degli impianti di risalita e sull'indotto turistico ad esso collegato. Devo dire di avere vissuto sul crinale di due epoche: il primo legato al boom dello sci in Italia, il secondo nell'epoca di una drastica riduzione che obbligava e obbliga ad ingegnarsi. Se oggi la caccia è al ricco mercato estero, allora ci si batteva attorno agli "sci club" che organizzavano i pullman. Ricordo anche di aver partecipato a qualche serata nella pianura lombarda a caccia di sodalizi che andavano convinti a venire a sciare da noi con sistemi di scontistica ed anche anche qualche regalino a chi alla fine decideva dove spostare i flussi di sciatori. Gli anni d'oro dello sci "su gomma" e trasporto collettivo seguono l'eco popolare della valanga azzurra. Trovo un vecchio articolo di Flavio Vanetti sul "Corriere della Sera", che così evocava i fatti di quarant'anni fa: «Primo, secondo, terzo, quarto, quinto. A Berchtesgaden, proprio sotto il Nido dell'Aquila di Adolf Hitler. Il 7 gennaio di 2014 lo sci italiano indosserà l'abito buono e festeggerà i quarant'anni dell'avvio della "Valanga Azzurra", la nazionale che cambiò lo sci: il 7 gennaio 1974, nello slalom gigante sulle Alpi della Baviera, Pierino Gros s'impose davanti a Gustavo Thoeni, Erwin Stricker, Helmuth Schmalzl e Tino Pietrogiovanna. "Si era già vinto prima, d'accordo. Ma quella fu la massima espressione di un dominio che andava a radicarsi - spiega Mario Cotelli, il direttone tecnico di quei giorni e memoria ambulante di un ciclo indimenticabile - tutto cominciò lì, anche se la valanga era stata annunciata nelle settimane precedenti e proseguì in quelle successive, coinvolgendo il gruppo dei velocisti e trascinando pure le donne: nel magico periodo tra il 5 e il 13 gennaio 1974, infatti, Claudia Giordani, la ragazza attorno alla quale stavamo ricostruendo il nucleo femminile, vinse a Les Gets, primo e unico successo di un'italiana tra le porte larghe fino al 1993 e all'era di Deborah Compagnoni"». Più avanti cosi si spiega Cotelli: «Il soprannome "Valanga Azzurra" nacque però la domenica dopo, in Francia. "Massimo Di Marco, della "Gazzetta dello Sport", era assente in Germania. Venne a Morzine e mi chiese di raccontare il pokerissimo. Gli dissi che i cinque erano stati come palle di neve che , rotolando, diventano valanga. Titolò così". Era sdoganato un periodo storico ben preciso, formato da vari atleti: "Gustavo e Piero erano i più forti, ma gli altri provavano a raggiungerli: lo spirito competitivo è stato decisivo"». Ricordo anche che della squadra da record faceva parte anche il valdostano Franco Bieler. Ed esisteva un altro gressonaro, che così viene ricordato a Cotelli nello stesso articolo, in cui si cita la fine di una storia: «Che cosa frenò per sempre la nostra valanga, scioltasi di fatto verso il 1979? "La disgrazia di Leo David, campione annunciato, fu un motivo: avrebbe raccolto l'eredità di Thoeni e Gros. Il secondo fu l'intromissione della Federazione, presieduta da Arrigo Gattai: diede retta ai senatori e bloccò, oltre al ricambio che volevo impostare, la rivalità interna, il segreto di quello squadrone". Nel dirlo, la voce di Cotelli ancora oggi tradisce malinconia». Più recente un articolo di Enrico Martinet con lo stesso Cotelli, che ho avuto l'onore di conoscere, si parla della crisi rispetto all'epoca d'oro e così dice: «Questo è il grande guaio dello sci di oggi, per arrivare in cima bisogna spendere un sacco di soldi. Brutta piega. Per fortuna in Italia c'è un'organizzazione "comunista", nel senso che ci sono le forze armate con i settori atleti, altrimenti addio campioni. Una famiglia per un ragazzo che vuole fare agonismo spende tra i quindici ed i ventimila euro l'anno. Pochi possono permetterselo. Così addio valligiani. Figli di muratori, di artigiani o contadini non possono sostenere spese di questo genere. Se poi i figli bravi sono due, tutto diventa utopia». E poi Cotelli cita di nuovo Leo, che ricordo purtroppo a casa sua - io ero amico della sorella Daniela - su quella sedia a rotelle su cui era stato costretto dal suo dramma: «Purtroppo non ebbe il tempo di diventare il più grande. Era più di un talento. Era un ragazzino quando decisi di fargli fare la Coppa Europa e la vinse. Era acerbo, tecnica da affinare, inguardabile, ma una centralità sugli sci innata, grandissimo innovatore. E volava, pareva non toccasse la neve». Da allora l'entusiasmo per lo sci diminuì e neppure personaggi come Alberto Tomba hanno fermato la costante diminuzione e il progressivo invecchiamento degli sciatori italiani su cui sarà bene lavorare.