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21 nov 2017

Dimissioni, dimissioni, ma...

di Luciano Caveri

"Dimettere" è un verbo che fa parte del linguaggio ospedaliero, quando ti mandano a casa dopo una degenza, ma è da lì - o meglio dal latino "dimittere" - che deriva il suo altro uso, legato ad una parola al plurale, che è "dimissioni", cioè la scelta di abbandonare un ruolo che si ricopre. Tema caldo in queste ore per la pervicacia con cui Carlo Tavecchio, discusso e discutibile presidente del calcio italiano, si è arroccato nella difesa strenua del suo posto, come aveva già fatto in passato per alcune uscite infelici che ne avevano dimostrato la pochezza, ma questa volta la richiesta delle sue dimissioni è a furor di popolo, dopo l'uscita con vergogna degli Azzurri dal Mondiale in Russia del prossimo anno. Io - ma questo non c'entra con il tema del giorno - approfitterei della questione anche per riflettere sullo status dei calciatori, che spesso sfuggono ai loro doveri malgrado i ponti d'oro.

L'Italia, ma anche in parte ciò vale anche per la Valle d'Aosta che non è in questo "anglosassone" o "scandinava" ma saldamente "latina", non ama molto questa scelta e lo si vede spesso in politica dove si aspetta l'ultimo minuto ed in certi casi l'ultima sentenza per andarsene, a meno appunto che ad agire siano cogenti norme giuridiche che agiscono come ghigliottine. L'acido giornalista Roberto Gervaso ha scritto una cosa in più, altrettanto sacrosanta: «In Italia, il modo più sicuro per conservare il proprio posto è minacciare le dimissioni». Leggevo da "La Repubblica" un gustoso pezzo di Antonio Gnoli, intitolato "Quel bluff di Cincinnato", che mi ha smontato una certezza della mia cultura classica: "La storia non conosce molti esempi di dimissioni. Almeno di quelle eclatanti, plateali, improvvise, che lasciano il segno e si tramandano nel tempo. Le più celebri discendono da Lucio Quinzio Cincinnato che solo dopo sedici giorni di esercizio del potere, sconfitti gli Equi che erano un pericolo per i Romani, se ne torna al suo campicello. «Il caso di Cincinnato corrisponde solo in parte all'idea che noi abbiamo delle dimissioni», osserva Luciano Canfora. «Quello di Cincinnato fu un bluff. Certo, con il suo gesto passò l'idea di un capo che si ritira dopo aver fatto il suo dovere. Ma la verità è che a Cincinnato venne affidata la dittatura, cioè una magistratura un po' speciale. Gesto bellissimo, le dimissioni, ma costituzionalmente non anomalo perché la dittatura era una forma di potere a tempo. Poteva al massimo durare sei mesi». Distrugge un mito? «Semplicemente gli do la giusta proporzione. Poi è anche vero che lasciò il potere»". Quindi occhio all'espressione "fare il Cincinnato", perché alla fine il beau geste rischia di essere fortemente ridimensionato. Aggiunge Gnoli, citando sempre il professor Canfora: "Come Celestino V, un sant'uomo che fece il gran rifiuto. «La cosa è controversa. C'è perfino chi sostiene che dietro quel gesto c'era l'Ordine dei Templari al quale lui obbedì. Ma resto della convinzione che abbia ragione Dante quando scrive "che fece per viltade il gran rifiuto"». In ogni caso è un atto di nobiltà separarsi dal potere. «Spesso lo si fa perché obbligati. I casi di dimissioni che io conosco sono tutti un po' inquietanti. Pensi alle dimissioni di Luigi Facta. Siamo nel 1922. Lui è il Capo del governo, chiede lo stato d'assedio, i ministri lo votano, il Re lo sconfessa. A quel punto si dimette e Vittorio Emanuele dà l' incarico a Mussolini. Un altro caso è quello di Bethmann- Hollweg». Era Primo ministro in Germania. «Più esattamente aveva la qualifica di cancelliere. Viene costretto alle dimissioni. Il capo di Stato maggiore Ludendorff gli manda il principe ereditario a comunicargliele. L'alternativa che gli si presenta è secca: o va via o ci sarà un colpo di stato. Corre l' anno 1917, Bethmann è incline alla pace. Ludendorff per l' inasprimento del conflitto. Si chiarisce cosa c'è dietro quel gesto». Ci si dimette anche per altri motivi. «Mi fa pensare a Vittorio Emanuele III che abdica a favore del figlio Umberto in piena campagna elettorale per il referendum su monarchia o repubblica. Lì era chiaro che con quel gesto pensava di guadagnare i favori del popolo lanciando un ipotetico nuovo sovrano. Togliatti, allora ministro della giustizia, fu durissimo contro quell'abdicazione che aveva tutta l'aria di essere un' operazione politica»". Fine delle citazioni e quel che resta è l'evidente impressione che ci voglia coraggio per dare le dimissioni prima che ci si trovi costretti - come capiterà a Tavecchio - a darle perché messi con le spalle al muro. A quel punto diventa solo, come si dice in quasi piemontese, un «Coraggio, scapuma!».