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27 set 2017

L'autunno della montagna

di Luciano Caveri

Arriva l'autunno e personalmente lo vivo - come ogni distacco dall'estate che lo precede - con una specie di rassegnazione. Perché l'estate, specie se piuttosto generosa come quella appena trascorsa, lascia dietro di sé il segno del rimpianto per i bei momenti vissuti, specie in vacanza ma non solo. Amo le lunghe giornate che ti accompagnano fino al tramonto e quando si accorciano stento a farmene un ragione, anche se sta avvenendo con dolcezza. Ma poi, appunto, arriva l'autunno e devi comunque fartene una ragione nel ciclo delle stagioni. Così trovi quel lato piacevole, sia nei giorni di bel tempo ma anche in quelli di pioggia, trovando le molte ragioni per amare questa stagione. Che poi Giuseppe Ungaretti ha riassunto nei suoi versi fulminei: «Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie».

La fortuna di vivere sulle Alpi ti consente di osservare soprattutto i colori partendo da cielo sino alla terra, scendendo di quota dalle cime fino alla pianura, in un tripudio senza eguale in altro momento. Di questo bisogna saper godere, senza distrazioni. Ma in fondo questa stagione, chiusa la pagina del turismo che affolla la Valle e non ancora aperta la pagina del grande turismo invernale dello sci, si presta più di ogni altra cosa ad una riflessione sulla montagna. Mi venivano in mente tre cose su cui pensare e ve le propongo, forse disordinatamente. La prima deriva da una rilettura che ho fatto di questi tempi e che riguarda un libro prezioso che più di altri avevo amato da ragazzo - era il 1977 - "Il mondo dei vinti" di Nuto Revelli (1919 - 2004). Così lo presenta ancora oggi Einaudi: "La fame, il lavoro infantile, l'emigrazione, le guerre insensate, la convivenza tra partigiani e nazifascisti. E poi l'abbandono delle montagne, l'avvento di un nuovo mondo: l'industria, i grandi allevamenti, il turismo che sfigura il paesaggio. Nei racconti dei 270 intervistati da Revelli - i contadini e montanari delle valli cuneesi, i vinti di sempre - scorre una linfa poetica che affiora negli scatti della memoria, con immagini e parole capaci di lasciare il segno. A volte cariche di dolore per le sofferenze e la durezza delle vite passate, a volte cariche di ingenuità. Il ritratto della condizione umana di una minoranza costretta a lasciare il proprio ambiente e i propri modelli di vita diventa lo specchio di una società malata". Scriveva Revelli nelle prime pagine: «Non sono un nostalgico delle società pastorali, non sono il turista che ama trascorrere il week-end in campagna. Non ho mai detto a un montanaro "beato te che respiri quest'aria sana, beato che vivi delle nostre cose perdute». Annotava Alessandro Galante Garrone: «Ha ragione Nuto Revelli. Abbiamo ammazzato la montagna ed ora non ci resta che il mondo dei vinti"». A quarant'anni da quel libro si può dire che molto è perduto, ma forse non tutto è perduto. La seconda cosa che mi viene in mente, nel medesimo filone è di come - se quelli di Revelli erano incontri con il registratore poi opportunamente sbobinati - nel 1968 uscì quel libro "Lassù gli ultimi" del fotografo biellese Gianfranco Bini (1935 - 1977), che raccontava per immagini quel mondo contadino oggetto dello stesso filone che fu poi del grande scrittore cuneese. Bini venne in parte rimproverato di avere proposto immagini «costruite», ma credo fosse un giudizio ingiusto, perché in quegli scatti sono stati ritratti personaggi ed il loro ambiente che risulteranno preziosi in futuro in una chiave antropologica. Altrettanto importante è il fatto che, a fronte di molti bravissimi fotografi che ritraggono paesaggi, per fortuna c'è chi scava nell'umanità e nella civiltà della montagna nel solco di Bini. Ci sono anche nelle "Teche Rai", ma anche in molti filmati di amatori in "8mm" o in "Super8", un pozzo profondo di immagini interessanti. Di recente ho visto un "16mm", di cui non si conosce l'origine, con immagini preziose di una "Battaglia delle reines", la prima estiva ad Aosta nel 1961. Infine la terza considerazione, legata a questo stesso filone documentaristico. Si tratta del lavoro utile della "Association valdôtaine des archives sonores - Avas", che ha accumulato . trasmettendo anche periodicamente su "Radio Rai Vd'A" - un quantitativo enorme di testimonianze registrate, anch'esse utile per ricostruire - e così ha fatto anche nel pubblico il "Bureau régional ethnologie et linguistique - Brel" - un patrimonio del passato che serve a tracciare meglio alcuni aspetti della civiltà alpina. Ma l'autunno più che altri momenti invita alla riflessione. E in fondo l'autunno di certa cultura alpina vale non solo per una visione nostalgica fatta da chissà quali rimpianti, perché il mondo avanza e si evolve. Ma vale il solito discorso: senza radici non si va da nessuna parte e la memoria ha valore se non diventa come i fogli di un erbario, che imprigionano le piante, ma non ci sono semi buoni da far fruttare per il futuro. Così riflettere sull'avvenire della civilisation valdôtaine e sulla civilisation alpine nel suo complesso non diventa un esercizio da moviola in bianco e nero, ma uno stimolo per capire da dove si riparte. Altrimenti non ci sarà più una primavera.