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05 giu 2017

Sull'omeopatia

di Luciano Caveri

La morte di un bimbo per un'infezione curata con un prodotto omeopatico al posto degli antibiotici riapre il dibattito sull'efficacia scientifica di certi prodotti. Ciò avviene a pochi giorni dalla decisione delle Autorità italiane che si occupano di farmaci di sostituire, in linea con quanto già avvenuto in altri Paesi, la scritta già presente sulle confezioni da "medicinale omeopatico senza indicazioni terapeutiche approvate" in "preparato omeopatico di efficacia non convalidata scientificamente e senza indicazioni terapeutiche approvate". Come da tutti gli studi effettuati sulle caratteristiche di questi preparati, insomma, sparisce la parola chiave, cioè "medicinale". Si tratta di un brutto colpo per chi pervicacemente e spesso in buona fede ci crede lo stesso, pur senza evidenza scientifica sui reali benefici.

La storia di questa medicina alternativa resta interessante e me occupai agli albori della mia passione giornalistica. Così la "Treccani" ne riassume le origini: "Dottrina medica elaborata da S.F.C. Hahnemann, agli inizi dell'Ottocento, basata sul concetto che la condizione di salute è dovuta a una "energia vitale immateriale" che controlla armonicamente le interazioni tra le varie parti del corpo. L'omeopatia rivolge l'attenzione diagnostica e le strategie terapeutiche essenzialmente sulla sintomatologia, come, del resto, in gran parte avveniva anche in seno alla medicina tradizionale del tempo, da Hahnemann chiamata allopatia. Ma, mentre questa mirava, in base al principio dei contrari, di derivazione galenica, a combattere i fenomeni morbosi con i rimedi rivolti a sopprimerli ("contraria contrariis curantur)", Hahnemann elaborò una strategia terapeutica opposta, basata sul principio dei simili, sintetizzato nell'aforisma "similia similibus curantur". Hahnemann asseriva che i vari medicamenti in uso, somministrati a dosi elevate a persone sane, provocano i sintomi caratteristici di determinate malattie che possono essere curate con dosi infinitesimali del medesimo farmaco. Egli formulò altri due "principi" basilari dell’omeopatia: l'efficacia di un medicamento, attraverso diluizioni progressive, anziché affievolirsi e svanire, man mano aumenta; questo paradossale rinforzo dell'effetto terapeutico sarebbe ulteriormente accresciuto sottoponendo le varie soluzioni a energici scuotimenti manuali (fenomeno indicato come "dinamizzazione"). Tale tripode concettuale (principio dei simili, principio delle diluizioni infinitesimali, dinamizzazione) si configura come il cardine di ogni indirizzo terapeutico omeopatico. La medicina ufficiale condivide il principio di base dell'omeopatia, tuttavia, non ne accetta l'applicazione pratica, poiché le diluizioni omeopatiche, almeno quelle più spinte, sono praticamente prive di principio attivo (oltre la diluizione "12 ch" - corrispondente a diluire successivamente per dodici volte una soluzione ad un centesimo del suo valore - è impossibile secondo le leggi della chimica trovare traccia di sostanza, mentre per l'omeopatia queste sono spesso le diluizioni più attive)". Insomma: si beve acqua e se poi questo ha un "effetto placebo" va bene, ma manca la dimostrazione scientifica che ci sia altro. Ricordo ancora quanto avvenne anni fa e fece gioire gli adepti dell'omeopatia. Lo evoca con efficacia Pietro Greco sul sito di "Cicap - Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze", riferendosi a quanto avvenne il 30 giugno 1988: «la rivista scientifica "Nature", una delle più note e prestigiose al mondo, pubblica un articolo sulla "Degranulazione dei basofili umani indotta da una soluzione altamente diluita dell'anticorpo anti-IgE". L'articolo è firmato, tra gli altri, da Jacques Benveniste, direttore dell'Unità 200 dell'Inserm, una delle maggiori istituzioni scientifiche francesi. Vi si afferma che un effetto molecolare (la degranulazione dei basofili) è stato conseguito grazie a una soluzione acquosa così diluita da non contenere neppure una sola delle molecole (gli anticorpi) che normalmente lo producono. Insomma, è come dire che un uomo caduto in mare è stato divorato non da uno squalo, ma dall'acqua che una volta ha ospitato un pescecane e che ha conservato memoria della sua voracità. Incredibile. E infatti l'articolo, che pure ha superato la barriera della "peer review", la revisione esperta da parte di anonimi colleghi, è accompagnato da una nota di John Maddox, l'allora direttore di "Nature", intitolata: "Quando credere all'incredibile". Nella nota il direttore non si dice affatto convinto dall'articolo, che pure ha pubblicato. Ovviamente, se vera, questa ricerca avrebbe sdoganato per sempre l'omeopatia, ma la teoria della "memoria dell'acqua" si dimostrò falsa. Infatti lo stesso direttore di "Nature" si recò con due collaboratori in Francia per accertamenti: "In breve: il 28 luglio 1988 "Nature" pubblica un resoconto dell'ispezione con un titolo che non lascia adito a dubbi: "Alta diluizione, un'illusione". Maddox sostiene che Benveniste non è riuscito a ripetere l'esperimento con successo. Che Stewart e Randi (ndr: gli scienziati con lui) hanno trovato svariate irregolarità nelle procedure di laboratorio. E che, dulcis in fundo, lui stesso ha scoperto che la ricerca del biochimico francese è stata finanziata con i soldi di un'azienda di prodotti omeopatici". Quell'esito, malgrado sporadici tentativi di far risorgere questa panzana della memoria, fu per me tombale e da allora cerco garbatamente di spiegare perché non credo al l'omeopatia a tutti quelli che, con fervido fideismo, bevono acqua a caro prezzo. E' evidente che se certe scelte alla fine non fanno male e se i pazienti osservano dei miglioramenti nel proprio stato di salute, ben venga ogni scelta, ma - senza prove accertate con metodo scientifico - tutto resta simile alle speranze derivanti dalla lettura degli oroscopi. Quando, invece, l'omeopatia fa male non ci sono alibi.