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12 mar 2017

La Valle d'Aosta di Azzeccagarbugli

di Luciano Caveri

Era facile prevedere che il presidente Augusto Rollandin, come ha fatto sempre e a maggior ragione è avvenuto in questa Legislatura in cui ha avuto sin dall'inizio una maggioranza risicata (solo 18 consiglieri su 35), si sarebbe battuto fino in fondo per restare in sella. In queste ore, con inusuale velocità, si è sveltita la pratica della sospensione di "consiglieri chiave" del ribaltone in corso per via della sentenza d'appello del processo dei Gruppi (che qualche giornalista ha chiamato - nell'onda populista - sui "costi della politica"). Si vedrà nelle prossime ore come la sostituzione dei consiglieri in attesa della Cassazione influirà sulla possibilità di proseguire la strada interrotta della mozione di sfiducia costruttiva con cambio di Esecutivo. Certo, il presidente Rollandin nel comunicare prima ai giornalisti - con i membri della "sua" maggioranza - che al Consiglio Valle la notizia dell'iter dei decreti sospensivi ha compiuto uno sgarbo istituzionale ed ha indebolito quelle funzioni prefettizie del Presidente della Regione, che vanno gestite con attenzione e neutralità.

Questa peculiarità dell'assenza del Prefetto è un caposaldo dell'ordinamento valdostano ed un suo uso sbagliato può nuocere al sistema autonomista che già vacilla e non gode di grandi simpatie. Per altro non stupisce che Rollandin si batta per restare al suo posto, costi quel che costi, in una logica che va al di là della politica stessa e diventa argomento da lettino di psicoanalista. Per lui una vita senza la possibilità di comandare è un destino inaccettabile, da "viale del tramonto" e per questo si è battuto sempre come un leone per tornare anche dopo sconfitte che avrebbero stroncato chiunque. Lo ha fatto contando su una base elettorale costruita con pazienza e con il beneplacito di parte di una società valdostana, che ha sempre amato la sua gestione dei dossier "en petit comité". Tre sono le modalità, che sono e restano la sostanza della sua longevità politica e sono state fil rouge del suo destreggiarsi negli ultimi quarant'anni: la prima è più interna ed è la tattica di epurare chi non considera "fedelissimo", cambiando spesso i cavalli e valorizzando certi "ronzini" per evitare di avere competitori con dissimulazione delle sue reali volontà; la seconda è il "divide et impera" e consiste nel blandire gli avversari con una sorta di fascinazione, facendoli avvicinare al suo sistema di potere in realtà sulla distanza solo per depotenziarli; la terza fare esplodere scientemente un problema grave e che solleva parte dell'opinione pubblica per poi risolverlo lui stesso con plauso generale, anche se era stato lui il vero autore dell'iniziativa, ma si conta sull'oblio e sul lieto fine. Il tutto condito da indubbie capacità di racconto delle sue gesta a vantaggio di un bacino elettorale curato con abilità e senza troppo badare alla coerenza fra l'affermazione di certi valori e la realtà concreta. Verrebbe da dire che i voti, come si dice dei soldi, non puzzano. In più, come molte persone sole al comando, ha alimentato un mito di invincibilità, di vicinanza al popolo, di lavoratore instancabile e solutore unico di problemi complessi. L'attuale evidente e triste decadenza della Valle d'Aosta è invece la chiara dimostrazione di una realtà dipinta del suo ruolo salvifico ormai inesistente e forse mai esistito e sarà la ricostruzione storica a sfrondare molti elementi dell'epica rollandiniana. Ma intanto il rimescolarsi delle carte attuale dice solo una cosa: si può forse trascinare ancora per qualche tempo questa cocciutaggine di non vedere come il problema di fondo sia ormai politico nella sua sostanza più profonda e vale per il futuro di questa comunità in crisi grave e che deve ricostruire una sua identità istituzionale, economica e pure culturale, perché senza radici vecchie e nuove si scompare dalla scena. Per cui alla fine - e lo dico anzitutto a me stesso - questo conta più di giochi e giochetti, ricorsi e controricorsi, alleanze e separazioni.