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21 gen 2017

McDonald's: una storia americana

di Luciano Caveri

Quanto il cibo possa avere una componente sociale e persino ideologica non l'ho certo inventato io. Sarà che a tavola passiamo una parte importante della nostra vita, ma tant'è: se ci fate attenzione il tema resta sempre uno dei più importanti nelle nostre conversazioni. Non è male neppure inseguire storie avvincenti, quelle che vengono definite "success stories". Non ricordo con esattezza quale sia stata la prima volta in cui sono entrato a mangiare in un "McDonald's". Sicuramente non è avvenuto in Italia, visto che l'arrivo del gigante americano del fast food avvenne per la prima volta nel 1985 a Bolzano, quando ero già più che ventenne. Per cui, non essendo stato prima negli Stati Uniti, suppongo che ciò sia avvenuto in Francia negli anni Settanta, direi a naso a Parigi in gita scolastica, quando la multinazionale dell'hamburger aveva ceduto il marchio in franchising per poi - con una complessa vicenda giudiziaria contro un certo Raymond Dayan che aveva alcuni locali - decise di rimpossessarsene, inaugurando poi un ristorante ufficiale a Strasburgo nel 1979.

Un irraggiamento mondiale ben noto e implacabile, come ricordava con ironia Andy Warhol, attento più di altri ai tic della nostra epoca contemporanea: «La cosa più bella di Tokyo è "McDonald's". La cosa più bella di Stoccolma è "McDonald's". La cosa più bella di Firenze è "McDonald's". A Pechino e a Mosca non c'è ancora niente di bello». Naturalmente Pechino e Mosca nel frattempo sono arrivati e credo che siano davvero pochi i Paesi del mondo senza un "Mc". Tuttavia, come spiegavo all'inizio, a differenza dei miei figli, non ho avuto nessuna iniziazione da piccolo di quelle che in qualche modo ti segnano, anche se a dire il vero i miei due figli più grandi - non per una logica anti-logo ma per proprio gusto - non ci vanno, mentre il più piccolo non sfugge allo spazio giochi e all'allettante regalo del menù "Happy Meal". Per cui mi capita di andarci e confesso anche di aver provato ad Aosta - dove pur tardivamente è arrivato il "McDonald's" nell'area dove un tempo c'era il "RistorAgip" - quel "McDrive" che consente l'americanata di ordinare e ritirare il cibo stando in macchina. Certo il "Mc" resta un fenomeno commerciale impressionante, anche se obbligato a cambiare pelle per certe polemiche che negli anni l'hanno investita: dalle condizioni di lavoro al cibo spazzatura, dall'essere simbolo per gli anti-americani alla concorrenza di catene più salutiste. Il caso più divertente è stato in Italia quel "Mac Bun" nato in Piemonte con prodotti piemontesi a "chilometri zero", poi ribattezzato per non avere guai con il gigante mondiale "M** Bun", con le stelline a copertura e lo slogan irridente: «slow fast food»! Ma "Mc" ha saputo resistere e persino mutare pelle seguendo il mercato ed ora ne capisco meglio certe ragioni, dopo aver visto al cinema il bel film "The Founder" di John Lee Hancock con Michael Keaton, che racconta la storia vera di Ray Kroc, fondatore della catena "McDonald's". Una vicenda personale di successo da "sogno americano", ma venata da un evidente cinismo, quello con cui vennero spodestati i fondatori veri e propri, i fratelli Dick e Mac McDonald. Una sconfitta, forse, attenuata a colpi di milioni di dollari, ma che non nasconde la realtà di come un piccolo localino, ma con geniali innovazioni, possa diventare una ragnatela fitta in tutto il mondo con un fatturato senza eguali, che sfama ogni giorno l'uno per cento della popolazione mondiale!