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12 dic 2016

Cinque punti sulla politica

di Luciano Caveri

Capisco che questa settimana rischio di proporre un'overdose di politica e di conseguenza sceglierò nei prossimi giorni temi meno ponderosi e più consoni al calendario dell'Avvento. D'altra parte l'esito del referendum, fissato improvvidamente nell'ultima data utile, e la scia che si porta dietro obbligano a qualche riflessione. Non tanto sul contingente, perché le bocce non si sono ancora fermate e penso rotoleranno allegramente fino alle elezioni anticipate nel 2017 (in primavera o in autunno), quanto sul fatto che resta intatto il problema della democrazia rappresentativa.

Un primo punto: è risultato evidente che, se sollecitate, le persone vanno a votare e l'esito delle percentuali di partecipazione al referendum confermativo fanno tirare un sospiro di sollievo verso la tomba dell'astensionismo. Questo vuol dire che la disaffezione si ferma sul limitare dell'interesse reale in gioco e immagino che lo staff di tecnici della comunicazione a Palazzo Chigi tremasse sin dagli ultimi sondaggi "segreti" e qualcuno si sia chiuso in bagno a piangere con i primi exit poll noti nelle segrete stanze sin dal pomeriggio di domenica. E questa volta anche in Valle d'Aosta i cittadini ci sono stati. Che poi questo comporti ancora discussioni sul confine fra politica e antipolitica (tinta di antiparlamentarismo, che è una vecchia storia italiana) è un esercizio interessante, così come distillare con difficoltà i veri contenuti di demagogia e retorica, come se fosse una novità della politica, di cui invece sono componente sin dalla notte dei tempi. Un secondo punto: nella formazione della propria opinione non hanno pesato né i tradizionali comizi, con gli ormai consueti e pur meritori "quattro gatti", né un influsso troppo decisivo della televisione, che era - così dicono i dati ufficiali - piuttosto sbilanciata nei confronti del "sì", specie con una presenza massiccia di Matteo Renzi, caduto nella trappola della sovraesposizione. La scelta di personalizzare il referendum in termini plebiscitari («o con me o contro di me») è risultata letale e se davvero Renzi pensa che il quaranta per cento dei voti favorevoli alla riforma siano un suo bagaglio personale prenderà di nuovo un abbaglio. Lo stesso per altro di chi, sul fronte del "no", considera proprio patrimonio esclusivo quei voti e si sa che i successi hanno troppi padri. Siamo invece di fronte a dinamiche e flussi che gli esperti stanno chiarendo in queste ore e assistiamo ad un patchwork mica da ridere. Ma a influenzare l'opinione pubblica sono stati da una parte il vecchio e funzionante passaparola e poi il suo riversarsi in maniera netta e persino rozza sui "social". Un terzo punto: se davvero si pensa che dall'attuale palude si esca solo con il voto siamo di fronte ad un'incomprensione della posta in gioco. Partendo dal sistema di voto: oggi è in vigore un "Italicum", buono solo per la Camera perché il Parlamento renziano aveva già cancellato la legge per il vecchio Senato dandolo anzitempo per morto in spregio al buonsenso, che però si sa già verrà considerato in qualche sua parte incostituzionale dalla Consulta. Questo vuol dire che andrà fatta una legge per Palazzo Madama e che bisognerebbe mettere mano anche al sistema di voto per Montecitorio, a meno di tenere per buono l'intervento chirurgico sul testo dei giudici costituzionali. Comunque vada, un rischio pasticcio, tenendo conto che - per quanto corretto - l'Italicum era già una boiata. Votare a caldo, con un'Italia frastornata e con elettori nel frullatore di una politica in cui non si distinguono più coloro che stanno in maggioranza e opposizione, sarebbe, a mio modestissimo avviso, un rischio. Un quarto punto: sarebbe meglio, in questo senso, far sì che la prossima Legislatura avesse già un chiaro mandato costituente, perché è indubbio che - anche se ho difeso il testo esistente votando "no", perché tra molte scempiaggini si ammazzava anche il regionalismo - i meccanismi istituzionali vanno rimessi in sesto e va fatto con spirito costituente, immaginando che le scelte di mediazione se non ci sono significa riforme costituzionali unilaterali e non quell'ampio consenso che garantisce condivisione. So che questo significa grandi rischi, ma restare così penso sarebbe peggio. In questo alveo si inserisce anche la questione dell'Autonomia Speciale ed il nuovo Statuto per la Valle d'Aosta. Ribadisco come - in un eventuale percorso costituente - vada chiarita la natura pattizia, che è presupposto politico, senza il quale il rischio di colpi di mano esiste e lo si vedeva con chiarezza nella flebile e zoppicante intesa così come emergeva nel testo Renzi-Boschi. Un quinto e ultimo punto: le vicende della politica italiana, ma anche quelle - pur con le sue specificità - della politica valdostana, dimostrano che i partiti sono all'angolo e che l'eccesso di personalizzazione ed il venir meno di meccanismi democratici di partecipazione pesano moltissimo. Questo significa via vai dai partiti, personalità che prendono eccessivamente la scena, paranoia perenne per il risultato elettorale a detrimento di idee e progetti, una politica fatta solo di immagine e poco di studio e lavoro concreto. C'è un perenne "effetto annuncio" che rischia di ammorbare la concretezza e di servire solo a logiche di vanagloria degne di un lettino di psicoanalista. La comunità - intendiamoci bene - ha bisogno di esponenti che la rappresentino, ma devono essere saldamente legati ad una visione democratica, altrimenti perdono la trebisonda, smarrendo il senso della realtà.