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05 nov 2016

L'Appennino ferito dal terremoto

di Luciano Caveri

Torna come una coltellata alla schiena, nella dinamica drammatica dei crolli e con il miracolo di nessun morto nel sisma, una scossa di terremoto fortissima a scuotere - nelle prime ore di una domenica mattina in cui era tornata l'ora solare - il Centro Italia. Mi metto nei panni di quelle popolazioni spaventate e stordite dalla paura, perché il terremoto - l'ho vissuto nella mia cara Imperia - è qualcosa di insinuante, che provenendo dalle viscere della terra è come un nemico invisibile che si trasforma in un'inquietudine. Specie quando gli esperti ci ammoniscono su rischi non ancora conclusi ed il "male di vivere" diventa contagioso, per quanto la forza di quelle terre colpite e nella memoria storica delle popolazioni siano qualcosa di acquisito e non ci può essere stupore perché la terra trema.

Scriveva Francesco Petrarca, riferendosi al terremoto del 1349, che interessò per nove mesi l'Appennino centrale dal 22 gennaio al 9 settembre del 1349: «Ai terremoti non v'è rimedio alcuno. Se il cielo ci minaccia con le folgori, pure si trova scampo nelle caverne. Ma contro i terremoti non vale la fuga, non giovano nascondigli». Oggi verrebbe da dire: «prevenzione, prevenzione, prevenzione» per evitare che quel che abbiamo visto già tante volte si ripeta e ogni volta si giochi allo stupore ed all'indignazione, aspettando la dolorosa tappa successiva. Certo quel che colpisce è di come questo sisma distrugga monumenti antichi che avevano attraversato secoli, come quando le conseguenze di inondazioni in Valle d'Aosta avevano colpito uno storico villaggio walser o quando è capitato che la valanga colpisse rascard secolari. Mi ha stupito positivamente la scelta del direttore Mario Calabresi di dedicare, prima della scossa di ieri, alcune pagine de "La Repubblica", che partono da questa riflessione sulla base delle tappe precedenti del terremoto e dunque ora ancora più valide: «Una terra ferita che non può essere dimenticata, la spina dorsale dell'Italia che trema dal 24 agosto e ora rischia di finire inghiottita nella paura e nel disinteresse. Giovedì notte nessuno è rimasto sotto le macerie ma forse anche per questo i riflettori rischiano di spegnersi in fretta, lasciando gli sfollati lontano dalle case, i municipi e le scuole lesionati e pericolanti, le pievi, gli affreschi e i monumenti feriti e inavvicinabili. Questo territorio è parte fondamentale dell'identità italiana, non può diventare un buco nero da dimenticare, dobbiamo salvare le comunità, i paesi, il paesaggio e la storia. Dobbiamo metterli in sicurezza, intervenire prima che altre scosse possano rendere irrecuperabile un patrimonio su cui poggiano la nostra civiltà e la nostra cultura». E più avanti una preoccupazione evidente per chi abbia a cuore quella montagna appenninica già così terribilmente in crisi economica e sociale, ma anche con un rischio di svuotamento culturale in atto: «Se i borghi resteranno deserti, senza più nonni, figli e nipoti, le macerie accatastate e i turisti lontani allora saremo tutti più poveri e avremo perso un pezzo della nostra anima». Ha scritto Giovanni Lindo Ferretti, lo scrittore e cantautore della montagna reggiana dalla singolare parabola politica umana: «L'Appennino è una montagna a dimensione umana: abitabile e abitato da così lungo tempo da essere, il lavorio dell'uomo nei secoli, parte sostanziale del paesaggio. Tanto geografia che storia. E' nella civiltà dell'abitare, nella coltura che ne ha determinato la cultura, nel racconto, in tutto ciò che colgono i sensi, che risuona la presenza di chi ci ha preceduto. Creazione e Creature trovano compimento e non ci sono morti alla fine del tempo». L'ultima frase fa parte della sua svolta mistica, dopo essere stato un punk antagonista. Ma quando vedo le case distrutte mi viene in mente il grande Francesco Guccini, cantore degli Appennini, con quel suo "Radici", che dà il senso struggente di come ogni abitazione distrutta sia una terribile perdita:

«La casa sul confine della sera oscura e silenziosa se ne sta, respiri un'aria limpida e leggera e senti voci forse di altra età, e senti voci forse di altra età...

La casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre, come tu la sai e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l'anima che hai, se vuoi capire l'anima che hai...

Quanti tempi e quante vite sono scivolate via da te, come il fiume che ti passa attorno, tu che hai visto nascere e morire gli antenati miei, lentamente, giorno dopo giorno ed io, l'ultimo, ti chiedo se conosci in me qualche segno, qualche traccia di ogni vita o se solamente io ricerco in te risposta ad ogni cosa non capita, risposta ad ogni cosa non capita...

Ma è inutile cercare le parole, la pietra antica non emette suono o parla come il mondo e come il sole, parole troppo grandi per un uomo, parole troppo grandi per un uomo...

E te li senti dentro quei legami, i riti antichi e i miti del passato e te li senti dentro come mani, ma non comprendi più il significato, ma non comprendi più il significato...

Ma che senso esiste in ciò che è nato dentro ai muri tuoi, tutto è morto e nessuno ha mai saputo o solamente non ha senso chiedersi, io più mi chiedo e meno ho conosciuto. Ed io, l'ultimo, ti chiedo se così sarà per un altro dopo che vorrà capire e se l'altro dopo qui troverà il solito silenzio senza fine, il solito silenzio senza fine...

La casa è come un punto di memoria, le tue radici danno la saggezza e proprio questa è forse la risposta e provi un grande senso di dolcezza, e provi un grande senso di dolcezza...»

Fatemi solo aggiungere una frase: l'Appennino è un cuore che non deve cessare di battere e lo dico dalle Alpi, da montagne che esistono per l'insieme dalla sua storia verso altre montagne anch'esse espressione di civiltà.