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23 ott 2016

Quando si parlava di federalismo

di Luciano Caveri

Quando nel 1991 presentai alla Camera dei Deputati la proposta di legge costituzionale "Norme per la costituzione dello Stato federale" eravamo in un periodo particolare: "Tangentopoli" (detta anche "Mani Pulite") non era scoppiata - lo sarà un anno dopo - e non si parlava ancora, cioè si verificherà due anni dopo, di Riforme costituzionali in Parlamento, conseguenti in particolare alla crisi profonda della Prima Repubblica. Si era fermi al lavoro, avvenuto con la "Bicamerale Bozzi", a metà degli anni Ottanta e solo nel 1993 inizierà i suoi lavori quella "Bicamerale De Mita - Iotti" di cui sono stato membro, presentando ovviamente le tesi federaliste.

La Lega, che allora si chiamava ancora "Lombarda" ed aveva due parlamentari (Giuseppe Leoni con me in Ufficio al Gruppo Misto) e quello che - per l'esperienza a Palazzo Madama - diventerà il "Senatùr", vale a dire Umberto Bossi, non aveva ancora dato quella scossa in chiave federalista (poi di fatto abbandonata con la partecipazione al Governo Berlusconi nel 1994), di cui rimase traccia nella Riforma del regionalismo approvata unilateralmente dal centrosinistra nel 2001 con conferma referendaria. Si tratta della Riforma ora fatta a pezzi con cinismo e con capriola dal rigurgito neocentralista della Controriforma Boschi - Renzi, tra qualche settimana anch'essa oggetto di un cruciale referendum confermativo. Quella proposta, depositata in Parlamento, fu - dai tempi della Costituente - l'unico testo all'attenzione della Camera di impronta federalista, che cadde nel vuoto di un'Italia distratta, che non aveva coscienza di essere alla vigilia di grandi rivolgimenti politici. Ogni tanto la riguardo e, se dovessi metterci mano, ora che ho accumulato più esperienza cambierei alcuni aspetti, limando alcune ingenuità, ma il disegno resta valido. Ma - diciamolo subito - il clima rispetto a qualche speranza di allora si è fatto terribilmente cupo e una serie di concause escludono che ci sia oggi una volontà di fare dell'Italia uno Stato federale. Dovrebbero capirlo, ma lo annoto incidentalmente, quelli che proclamano che con il "sì" alla riforma renziana, grazie all'intesa sugli Statuti Speciali, si assisterebbe a nuovi rapporti con il Centro, mentre è ovvio che chi immagina che le Speciali diventino oasi fiorite nel deserto del regionalismo vedono solo un miraggio fasullo. Meglio comprarsi un cammello e prepararsi al peggio se la riforma passasse. Uno dei passaggi più interessanti di quei ragionamenti sul testo presentato allora (frutto di un lavoro all'interno dell'Union Valdôtaine, dove allora esisteva ancora un pluralismo ed interesse per il federalismo non a parole) riguardava - anche se capisco che sembra un rompicapo intellettuale - di come smontare la macchina statuale e ricomporla in una logica federale. Si scelse di usare nel primo articolo un'espressione forte, che temevo potesse essere intercettata nelle forche caudine delle verifiche tecniche degli Uffici della Camera, vale a dire "I popoli delle regioni (seguiva l'elenco delle Regioni attuali), nell'esercizio della loro sovranità e del loro diritto di autodeterminazione, si costituiscono in Repubbliche e liberamente si uniscono con vincolo federativo nella Repubblica federale italiana". Capisco che si trattasse di una posizione molto forte - questa è una delle ingenuità rinvenibili - perché certo non c'è un eguale interesse di tutti questi citati "popoli" a muoversi in senso federalista, ma bisognava comunque cercare - nella guerra di posizione delle Riforme - di scavare una trincea molto avanzata. Per altro, sia chiaro, che i nuovi referendum in Catalogna ed in Scozia dimostrano come il principio di autodeterminazione, anche nell'Europa attuale e con tutte le difficoltà contingenti di un centralismo dovuto anche alla crisi economica, resti una carta da giocare con coraggio, laddove necessario. Specie quando nell'alveo della democrazia si scegliesse di ledere diritti acquisiti e obblighi pattizi di tipo politico, come nel caso appunto della piccola Valle d'Aosta, che rischia di essere trattata come una pallina da ping-pong in giochi di potere che vedono lo Stato Nazionale che mostra i muscoli in una logica ormai anacronistica sia per il superiore livello comunitario, che pure va riformato, sia per quella democrazia locale senza la quale la costruzione statuale vira con decisione verso modelli venati - a diversi livelli possibili - d'autoritarismo. E' bene rifletterci.