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16 ott 2016

La montagna al guinzaglio della città

di Luciano Caveri

"La montagna torinese fagocitata dall'area metropolitana?". Mi ero messo da parte un articolo del professor Michele Corti, scritto alcuni fa, perché mi era parso interessante ed oggi aggiungo profetico. Ora che quel che si temeva è avvenuto con la "governance" della Città metropolitana di Torino nelle mani della metropoli sabauda - con gli ormai noti risultati, frutto del bizzarro sistema di voto che sovrastima proprio gli eletti in città, mortificando il resto - con buona pace di chi ritiene che tutto vada bene per una montagna "rose e fiori", mentre si avvicina solo il camposanto e quindi le rose ed i fiori sono quelli di una corona funebre.

Scriveva Corti nel 2012: «La soppressione delle Provincie può essere l'occasione per le Alte Terre per proporre soluzioni che facciano uscire dal falso dilemma dei "costi della politica" riportando l'attenzione sui reali problemi di rappresentanza territoriale di un "sistema montagna" che non conta nulla perché frammentato. La Provincia di Torino comprende sei Comunità montane ed una lunga serie di valli ricche di tradizioni linguistiche e culturali. Tutti conoscono la valle Susa, parecchi le "valli valdesi" (Pellice, Chisone e Germanasca) ma il torinese comprende numerose altre valli: val Cenischia, val Sangone, val Chiusella, valle Sacra, valle Orco, val Soana, valli di Lanzo. Su 315 Comuni della Provincia di Torino la metà dei comuni sono montani e due terzi del territorio. Solo il sei per cento della popolazione, però, risiede in montagna. Nell'area metropolitana torinese (32 comuni) risiedono i due terzi della popolazione. Abbiamo evidentemente di fronte due realtà opposte che possono (con difficoltà) convivere in una stessa Provincia (visto che non serve a nulla) ma che non possono convivere nella stessa "area metropolitana". Questo Ente, infatti, oltre che sostituirsi alla provincia ereditandone competenze - "ritagliate" artificialmente tra Regione e Comuni - assumerà - cosa che più conta - anche le competenze dei comuni in materie fondamentali». Già questa impostazione aveva vanificato la speranza di chi sognava una "Provincia Alpina" che potesse mettere insieme le vallate alpine torinesi e cuneesi e d'altra parte le stesse Province sono diventate - come quella di Cuneo, appunto - delle strane creature non più elettive e la riforma costituzionale Boschi-Renzi dovrebbe sopprimerle, mortificando anche il regionalismo, per cui sul territorio i veri protagonisti saranno gli immarcescibili Prefetti ed il federalista Luigi Einaudi di certo ne resterebbe esterrefatto. Aggiungeva in un altro passaggio l'autore: «La "soluzione" individuata dal Governo per la Provincia di Torino dimostra tutta l'insipienza dei "tecnici" e la loro considerazione (pari a zero) per le istanze di autogoverno della montagna e per la sua specificità. Con l'aggravante del peso dei torinesi nella squadra di Governo». Per aggiungere poi più avanti con acume ed intelligenza: «Tornando a Torino la "vera" area metropolitana è quella che comprende i Comuni di prima e seconda cintura ed è costituita dai trentadue comuni della "Agenzia per la mobilità del territorio", o secondo altre proposte, da ventiquattro o cinquanta Comuni. In tutti i casi, "larga" o "stretta" che sia si tratta, come è insito nella definizione di "area metropolitana", di una "corona" più o meno ampia intorno al nocciolo del comune cittadino. Nulla ha a che fare il concetto di "area metropolitana" - basato su densità demografiche omogenee, su reti di trasporto che tendono a livellare i tempi di percorrenza tra i "nodi" - con le aree montane. Le nuove competenza dell'area metropolitana e del "Sindaco metropolitano" applicate a remote valli alpine mettono in capo a decisori della grande città scelte che rischiano di non tener in alcun conto gli interessi e la realtà locale determinando l'azzeramento di ogni residua espressione di autogoverno e partecipazione ed instaurando la percezione di "essere commissariati da Torino". Il passo è breve da qui alla perdita di ogni residua identità, voglia di "resistere sulle terre alte", al cedimento alla tentazione di cedere, una volta per tutte, alla tentazione di scendere a valle e vivere nella vera "area metropolitana", la sola realtà individuata quale "spazio umanizzato", luogo riconosciuto quale spazio antropizzato "appropriato" in grado di esprimersi attraverso una adeguata e riconosciuta forma istituzionale di rappresentanza territoriale. Il ragionamento del Governo è stato: "Istituita l'area metropolitana con un milione e mezzo o due milioni di abitanti, dove si concentra la dimensione economica e il gettito fiscale cosa rimane della vecchia Provincia di Torino? Avanzi, frattaglie. Li aggreghiamo all'area metropolitana e pace all'anima loro". I tecnocrati ragionano così. La montagna con il cinque per cento della popolazione è diventata un "peso". Serve per l'acqua, per l'energia, per le piste da sci, per far passare la "Tav", per la rappresentazione della "wilderness". Meno "indigeni" ci sono a rompere le scatole, con le loro pretese, con i loro diritti di proprietà, con la loro pretesa di trarre qualche beneficio dalle risorse dei loro territori, con i loro patetici comunelli meglio è. Questo progetto di "area metropolitana" che colonizza le alte valli, che arriva al Moncenisio, che si estende oltre le piste da sci (proiezione nella dimensione ludica della città) anche sugli alpeggi (che proiezione urbana non lo sono per nulla) ha almeno il merito di far vedere con chiarezza a chi vive e lavora nelle Alte Terre cosa c'è dietro la maschera di "solidarismo" e di "buonismo" delle élites urbane dominanti. Prefigura un progetto di duro colonialismo». Parole sante, cari lettori, e questo potrebbe essere il destino della Valle d'Aosta: vince il "sì" al referendum, si passa al secondo passo con la nascita delle macroregioni (che sarebbe come la circoscrizione elettorale delle europee con i valdostani annegati in Piemonte, Lombardia e Liguria) e la nostra "Petite Patrie" diventerebbe di fatto la settimana vallata dalla Città metropolitana di Torino e «adieu!». Ben triste per noi e per quei valdostani e valdesi, che scrissero nel 1943 la "Dichiarazione di Chivasso" a tutela delle popolazioni alpine, fotografando la protervia colonialistica del regime fascista e sperando in un orizzonte federalista: oggi, purtroppo, tocca constatare che quella speranza è più lontana che mai, perché il centralismo di quello che nella Dichiarazione definirono il «fanfarone Roma Doma» oggi sembra tornare in una logica autoritaria in progress. Una scelta che emargina la montagna con la complicità di un mondo economico-finanziario che non vuole in mezzo alle scatole comunità locali alpine forti e consapevoli nel nome dei molti business da combinare.