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29 ago 2016

Riforma costituzionale e Statuto: problema politico

di Luciano Caveri

Mio zio Séverin Caveri, politico onesto e grande federalista, scrisse questa frase: «Les prémisses de l'existence même de notre liberté valdôtaine et des droits consacrés par le Statut régional sont politiques». Questa osservazione brevissima è il punto di partenza di ogni ragionamento riguardante lo Statuto speciale attuale e l'impatto su di esso del referendum costituzionale, qualunque sarà l'esito della consultazione, che vinca il "no" e dunque la Costituzione resti tale e quale o che vinca il "sì" e dunque si apra una scenario di cambiamento. Ricordo, infatti, che a Costituzione vigente il punto è e resta il grave ritardo nell'emanazione di quelle norme di attuazione che attualizzano lo Statuto nella logica di un'Autonomia dinamica, che altrimenti resta statica e si inaridisce.

Naturalmente c'è anche in questo scenario il rischio di nuovi attacchi all'esistenza stessa della nostra specialità, visto che anche qualche esponente del "no" - ancora di recente a Courmayeur pure il professor Valerio Onida - sembra porla in discussione! Nel caso in cui la nuova e pessima Costituzione entrasse in vigore per un voto popolare positivo, si aprirebbe una stagione di riscrittura dello Statuto di Autonomia con una procedura piuttosto misteriosa, visto che si parla della necessità di un'intesa sul suo contenuto, ma non si capisce con chi tratterebbe la nostra Regione autonoma e con quali meccanismi di negoziazione, con un regionalismo ordinario ridotto ormai a poca cosa. Oltretutto, nella stessa occasione a Courmayeur, l'ex presidente della Camera, Luciano Violante, esponente del "sì", ha clamorosamente esplicitato che, per ora, le Speciali sono rimaste perché, senza i rappresentanti di quelle Regioni o Province autonome al Senato, la riforma non avrebbe avuto i voti per essere approvata a Palazzo Madama! Come dire - ed io l'ho sempre detto - che con la "maggioranza bulgara" nell'eventuale nuovo Parlamento, frutto della riforma Renzi-Boschi e dei meccanismi della nuova legge elettorale detta "Italicum", la cancellazione delle Autonomie differenziate sarebbe uno scherzo da ragazzi: altro che nuovo Statuto! In questo clima mefitico, in cui distinguere fra amici e nemici è un vero azzardo, resta - grosso come una casa - il problema politico, come si spiega nella frase che ho usato come incipit. Mio zio Séverin segnalava, infatti, il problema centrale: le norme di rango costituzionale (articolo 116 della Costituzione e Statuti speciali conseguenti) non sono di per sé stesse la giustificazione dell'autonomia, ma esse originarono da una logica pattizia di tipo "politico", che oggi lo Stato non può ritenere "carta straccia" o bocciare come anacronismo da superare come se niente fosse. Solo una forma di Stato federalista e non il pasticciaccio centralista che sarà sottoposto al giudizio delle urne avrebbe potuto far ritenere discutibili, in una logica di maggior autogoverno e libertà, quell'impegno politico che si sostanziò nei Decreti luogotenenziali e successivamente nello Statuto e nel corpus di norme di attuazione e di norme particolari presenti nella legislazione ordinaria. Dunque torna in primo piano la "politica" che, nella nostra regione, deve assumersi la responsabilità di non accettare che l'Autonomia finisca per essere oggetto di balletti attorno a norme giuridiche che svuotino la sostanza dell'esistenza della Valle d'Aosta, rovesciando maldestramente i termini della questione, per cui la morte dell'ordinamento valdostano e delle Istituzioni avverrebbe nel nome dell'eguaglianza e ponendo fine a "privilegi". Questo atteggiamento pretende risposte chiare da parte della politica valdostana, uscendo dalla logica di piegarsi al potente di turno amichevole con i suoi #staisereno e pronto in realtà a trasformarsi nel boia che taglia la testa alla Valle d'Aosta. La risposta, che pure prevede un cammino giuridico nelle istanze internazionali, in primis l'Unione europea, dev'essere anzitutto politica e con toni e atteggiamenti che non siano all'insegna dell'attesa rassegnata e della difesa di maniera, come se gli interessi da tutelare non fossero quelli di un popolo, di una comunità, ma del destino transeunte di chi dovrebbe occuparsene.