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29 mar 2016

La politica, il clientelismo e... la montagna

di Luciano Caveri

Mi capita di discutere - sai che novità in questi tempi - di questo crescente disimpegno in politica rispetto al tempo che fu. Lo dico senza rimpianti, perché ogni epoca ha i suoi "pro" ed i suoi "contro", ma ho già più volte scritto qui che la constatazione di una militanza politica che si è fatta sempre più rara è evidente. E naturalmente è inutile dirlo - come fanno i parroci che tuonano in chiesa contro gli assenti alle funzioni di fronte a chi invece c'è - a coloro che sono ancora presenti e lo fanno senza tornaconto ma per una sincera adesione. Leggevo, al contrario, l'altro giorno una riflessione amara del sociologo Luciano Cavalli: «Chiusa un'epoca di grandi ideologie (di massa) in che modo i partiti possono ancora attrarre elettori, iscritti, nuovi quadri e le altre tipiche figure che ruotano loro intorno? In un modo solo: con il clientelismo».

«Hanno quindi costruito grandi reti clientelari - continua - facendo leva sulle risorse pubbliche e sulla propria collocazione sempre più interna alle istituzioni. La massa clientelare che oggi pesa gravemente sul paese. Enorme è ormai il numero dei clienti "desti" che cioè dal sistema traggono vantaggio attuale (per esempio l'impiego), e dei clienti "in sonno" che cioè mantengono un legame con il partito per avere un credito da riscuotere in caso di bisogno. Dalla matassa del clientelismo anche gli uomini migliori dei partiti divengono, ovviamente, dei prigionieri. Ciò impedisce spesso, fra l'altro, alle personalità locali non conformiste di affermarsi come leader nazionali: perché sono condizionate dalla rete clientelare». Coltivo ancora una speranza che, pensando proprio alla Valle d'Aosta e alla crisi profonda della nostra Autonomia obbligata a cercare nuovi assetti perché molto è cambiato attorno a sé rispetto al dopoguerra, ci siano spazi per un coinvolgimento in politica non solo legato al "do ut des", che - intendiamoci bene - non ha nulla a che fare con la valorizzazione dei meritevoli, ma mi riferisco a certo e ben visibile utilizzo di incapaci e schiavi nella spasmodica ricerca di voti personali. Il proverbio è notissimo: "Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna" ed è riferito all'abilità di trasformare un disastro in un successo, se si è capaci a girare la frittata. L'origine del proverbio è piuttosto misteriosa. Non esiste alcun riferimento nei Testi sacri dei musulmani e qualcuno dubita che si riferisca al Profeta ma potrebbe anche essere, su cui di questi tempi è meglio non scherzare, come invece noi facciamo con l'Altissimo e coi Santi. La frasetta diventata familiare è secentesca e figura nei Saggi del filosofo e politico Francis Bacon, che così disegna la "sfrontatezza": «Una persona sfrontata farà molte volte quello che fa il miracolo di Maometto, che fece credere alla gente che avrebbe fatto venire a sé una montagna. Dalla cima avrebbe offerto le sue preghiere ai fedeli. Le persone si riuniscono. Maometto chiama la montagna, e le ordina di spostarsi e andare da lui. Lo fa più volte. E visto che la montagna se ne restava ferma, per nulla imbarazzato, disse: "Se la montagna non viene da Maometto, allora Maometto andrà alla montagna". Sono persone del genere che, anche se hanno promesso grandi cose e hanno poi fallito in modo vergognoso, riescono comunque a infischiarsene, fare spallucce e andare avanti come se niente fosse». In realtà - e questa cosa è interessante - il famoso detto non ha, almeno nella nostra cultura, solo valenze negative. Per cui, in politica, potrebbe invece suonare come una sorta di riscatto: essere di più attenti, vicini e all'ascolto dei cittadini, ma trovando formule nuove - sottolineo nuove - per andarli a cercare e non aspettare che bussino alla porta. Circostanza quest'ultima oggi più che mai improbabile.