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02 mar 2016

Babel food: cibo e luoghi comuni

di Luciano Caveri

Mi ha sempre interessato capire di più sul cibo e le sue evoluzioni, divertito sempre dai rischi che si prendono nella convinzione che ci siano sempre tradizioni millenarie o almeno secolari di prodotti che, invece, si sono affermati sulla scena da poco tempo. Illuminante è il libro "Babel Food: Contro il cibo kultura (Intersezioni)" di Franco La Cecla per "Il Mulino", che racconta come la Pasta - simbolo italiano affermatosi nel mondo - sia una costruzione culturale e non una verità che arrivi da chissà quale passato. Dice La Tecla: «La pasta in Italia c'era, ma non era un cibo così diffuso e così a buon mercato. Era considerato una stranezza o un lusso». Parliamo dell'Ottocento non del Medioevo.

Non a caso cita poi un passaggio di una lettera del grande conte di Cavour: «E' il 26 luglio 1860. Camillo Benso, conte di Cavour così scrive in una lettera un po' in codice e un po' in ironia: "Nous seconderons pour ce qui regarde le continent, puisque les macaroni ne sont encore cuits, mais quant aux oranges, qui sont déjà sur notre table, nous sommes bien décidés à les manger". Il conte, che sta cercando di portare avanti l'operazione Unità d'Italia, comunica in francese che non è ancora arrivato il momento di tentare l'annessione di Napoli (les macaroni), capitale del Regno delle Due Sicilie, ma che i tempi sono invece più che maturi per l’impresa garibaldina». Le "oranges" sono, infatti, il riferimento alla Sicilia. Con l'autore si attraversano storie molte avvincenti, compresa la scoperta che il più innovativo dei pastifici si deve alla famiglia "Agnesi" di Oneglia in Liguria e pure il fatto, tutto contemporaneo, che gli italiani si stanno facendo portare via le catene di negozi di pasta da grandi gruppi orientali (per altro la Svizzera Romanda con "Nespresso" ha scippato persino il caffè espresso!). Sul recente "Expo" di Milano, nelle sue premesse, La Tecla non è molto tenero: «Un simbolo di questa Babele è stata la grande fiera paesana battezzata con l'altisonante nome di Expo. A Milano, lungo un decumano, decine di padiglioni inventati da annoiate archistar hanno offerto il mondo del cibo come qualcosa in cui anything goes, tutto fa brodo. Accanto alla fatica di trent'anni di lavoro del nostro "Slow Food" per liberare il cibo dalla negatività della contraffazione e dall'ingiustizia della produzione facevano sfoggio di sé prodotti da sempre simbolo della peggiore agricoltura industriale e della devastazione del pianeta. Accanto a storie commoventi di caffè e di frutti nativi c'erano i colossi del cibo come commodity. E la fiera voleva dare l'illusione di una multietnicità che nulla ha di diverso da quella che si trova oggi in qualunque supermercato superfornito con il suo bancone bio, celiaco o vegano». Aggiunge ancora - e sottoscrivo con convinzione - con grande sagacia: «Era una visione triste e preoccupante, la sconfitta di un tentativo di fare del cibo qualcosa di conviviale e giusto, e il riprendere potere dei peggiori spettri della grande produzione e dei peggiori veleni. Il tutto sormontato da un cattivo gusto a metà tra il pacchiano e il trash. E infatti il culmine di tutto ciò era nel Padiglione Zero il cumulo di cibo buttato, immenso, colorato, marcescente, ma falso, di plastica. Come di plastica erano gli animali da cortile, le pile di frutta, gli ortaggi e le sedie di spaghetti che accompagnavano i visitatori. La Babele espressa in quell'Expo oggi minaccia il senso profondo del cibo come rapporto tra persone e risorse, tra mondo contadino e mondo urbano, tra chi cucina e chi mangia, tra chi trasmette le storie e la convivialità attaccata ai cibi. Quando dico babel food intendo indicare proprio questo pericolo». Vale poi la pena di leggere tutta la parte assai critica di certi eccessi della cucina in televisione e di certo misticismo ridicolo della Cucina come Cultura. E invece ci sono altre strade, come una che condivido in particolare nella congerie di libri e riviste sul tema: «I ricettari fanno parte di un processo che tende a congelare i cibi in un dato momento della loro storia culturale (e per questo sono ottimi documenti storici). Questa "findusizzazione" della cucina è però deleteria alla trasmissione del sapere gastronomico che ogni cultura possiede. Ci sono segreti, gesti, ossessioni, atmosfere che è solo possibile imparare nel racconto che si snocciola tra il pelare le patate, lo sgranare i fagioli, il mettere le melanzane sotto sale, il preparare la conserva di pomodoro, il capitozzare i cetrioli sfregando il pezzo decapitato sul restante corpo per mandare via l'amaro, mettere la pentola a bollire "senza guardarla" e tutte le operazioni che richiedono una sufficiente dose di superstizione domestica per essere condotte a buon fine. E' stupido certamente ricordarlo, ma la cucina è diretta discendenza della magia, dell'alchimia e le volute di vapore, i fuochi, le nubi che si addensano nella cappa sono il pegno del nostro legame con gli antri dove la materia del mondo bolle, si coagula, si riscatta, metamorfizza il mondo trasfigurandolo». Belle espressioni, avvincenti, in un libro utile per capire.