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22 dic 2015

Immigrazione: capirsi per convivere

di Luciano Caveri

I Paesi scandinavi sono stati nel tempo i più generosi nell'offrire asilo alle persone in fuga da situazioni disperate nei loro Paesi d'origine. Ricordo, però, nelle mi esperienze a Bruxelles come molti colleghi, espressione di quella cultura democratica e accogliente, spingessero molto sulla necessità che a diritti seguissero i doveri. Specie nell'uso della lingua di chi li ospita, ma anche sulla conoscenza della cultura di chi li accoglie, oltreché delle norme di Diritto cui attenersi. Insomma: un'accoglienza consapevole che avesse in certi principi di integrazione un presupposto chiaro nel patto stipulato con chi arriva. Ci pensavo leggendo sul "Corriere della Sera" un pezzo molto interessante di Luigi Offeddu.

Questo il suo inizio: «Che cosa può pensare, e come può reagire, un uomo che ha sempre visto la madre o la fidanzata circolare in burqa, di fronte a una ragazza in calzoncini che gli sorride in una discoteca?». Questa domanda, la maggioranza del Parlamento danese se l'è posta davvero, nelle ultime settimane, davanti a una statistica ufficiale: fra gli uomini recentemente immigrati da Paesi di stretta osservanza musulmana, la possibilità che venga commesso uno stupro o un qualunque abuso contro una donna è di tre volte più alta che fra i cittadini danesi "doc". Insomma ruvidi ma razionali e dunque spiega ancora l'articolo: «Perciò, anche la Danimarca farà presto quello che hanno già fatto la Norvegia e la Baviera tedesca, quest'ultima rivolta agli alunni adolescenti: attraverso corsi regolari annessi a quelli linguistici, insegnerà l'educazione sessuale ai suoi ultimi arrivati, secondo i criteri morali e legali dell'Occidente. Con una differenza, rispetto a Oslo e Monaco di Baviera: a Copenhagen, i corsi saranno obbligatori e non volontari. Questo, perché la situazione viene già giudicata più grave che altrove: mentre gli immigrati extracomunitari rappresentano circa il dodici per cento della popolazione totale danese, fra il 2013 e il 2014 erano immigrati o figli di immigrati il 34,5 per cento dei condannati per stupro». Per capirci: questa non e xenofobia, ma aridità dei dati. E' dunque si sviluppa così il racconto: «In tutti e tre i Paesi, i temi principali dei corsi di formazione (così vengono chiamati) sono o saranno comunque gli stessi: come trattare una donna, imparando a rispettare la sua dignità e le sue libertà personali; come apprendere che non è proprietà del marito, del padre, del fratello; come accettare che le leggi del nuovo Paese di residenza non obbediscano a precetti religiosi ma ai diritti universali degli uomini e delle donne. La Norvegia, primo Paese ad aver attuato l'esperimento finanziato dal Governo già dal 2013 (quattro o cinque ore di corso alla settimana, affiancate all'insegnamento del norvegese), sembra darne ora un primo giudizio positivo, come ha rilevato ieri anche il "New York Times". Tutto iniziò dopo un'ondata di stupri nella città industriale di Stavanger, atti che spesso avevano un immigrato come sospetto colpevole. Le associazioni che si occupavano dell’integrazione inter-etnica diedero subito l'allarme: non era un problema risolvibile solo da poliziotti e magistrati, ma una "frattura" culturale profonda molti secoli. Negli ultimi anni è prevalsa invece la preoccupazione di discriminare i migranti e bollarli come "potenziali stupratori", e così la maggior parte dei Governi europei ha evitato di affrontare la questione». Va bene, dunque, accogliere i perseguitati, ma che sia chiaro che - come farei anch'io venissi catapultato in un Paese islamico, in modo esattamente inverso - non è possibile prescindere da meccanismi di comprensione e di alfabetizzazione della realtà dove si finisce per vivere. Altrimenti la mancanza di conoscenza alza degli steccati ancora peggiori di certi muri in costruzione in Europa.