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05 ago 2015

Democrazia parlamentare umiliata

di Luciano Caveri

Mi capita spesso di citare il costituzionalista Michele Ainis e la sua rubrica su "L'Espresso" da cui mi abbevero ogni settimana per le brillanti intuizioni, prevalentemente intrise da osservazioni giuridiche che riguardano le Istituzioni repubblicane. Il professore, come molti suoi colleghi del settore, non è per nulla tenero con il modo di governare del giovane Matteo Renzi. Osserva nella più recente delle sue rubriche: «Il nostro premier viene continuamente messo in croce per l'eccesso di decreti, maxi-emendamenti, voti di fiducia. Vero: i decreti legge infiocchettati in diciassette mesi dal Governo Renzi sono trentasette, ci cadono addosso a settimane alterne. E quasi sempre il Parlamento è costretto a convertirli con una pistola puntata sulla tempia, perché l'Esecutivo chiede la fiducia. E no, non va bene, obiettano i puristi della Costituzione scritta: i padri fondatori regolarono i decreti come strumento eccezionale, mica normale. Così fan tutte, controbiettano i cantori della Costituzione materiale; ed in effetti Renzi non è il primo né l'unico ad abusare dei decreti legge. Per dirne una, nello stesso arco di tempo Monti ne aveva adottati quarantuno». Si rassicuri Ainis, perché nel frattempo, anche questa settimana, c'è stata una fiducia in più...

Ma c'è un altro strumento che il Governo adopera con grande spregiudicatezza, saltando a piè pari il ruolo del Parlamento, oramai supino: «C'è un altro abuso, tuttavia, di cui non parla nessuno, forse perché nessuno ne è al corrente. Ha sempre a che fare coi decreti, però di un'altra specie: quelli legislativi, che il Governo può approvare - recita l'articolo 76 della Costituzione - sulla scia di una legge di delega timbrata dalle Camere. Un altro strumento eccezionale, nelle intenzioni dei costituenti, perché la funzione legislativa spetta al Parlamento. E infatti loro, anime candide, ne previdero l'uso per le materie tecniche, rispetto alle quali solo il Governo dispone delle competenze necessarie. Se serve un nuovo Codice di procedura civile, per esempio, sarebbe troppo pretendere che i nostri mille parlamentari impugnino la penna d'oca del giureconsulto. Domanda: quanti codici ha vergato il gabinetto Renzi? Risposta: i suoi decreti legislativi fin qui sono novantotto, il triplo dei decreti legge. Per appurarlo, basta collegarsi al sito web del Consiglio dei ministri, armandosi d'un pallottoliere. E scoprendo così che gli interventi spaziano dagli ammortizzatori sociali ai fuochi d'artificio, dalle ferrovie all'importazione dei furetti. Che in una sola seduta di decreti legislativi ne vengano approvati quattro (il 17 luglio) o perfino otto (il 27 marzo). Ma che sono anche di più quelli che s'annunziano nel prossimo futuro. E infatti, se il "Jobs Act" recava cinque deleghe, la riforma Madia sulla Pubblica amministrazione ne ospita diciotto. Dove i "principi e criteri direttivi" - ai quali la Costituzione sottomette l'esercizio della delega - spesso coincidono con la parola magica degli illusionisti: "abracadabra". Dove gli "oggetti definiti" - altro requisito costituzionale - in questo caso definiscono l'universo mondo: Porti, Prefetture, voto di laurea, Camere di commercio, Dirigenza pubblica, Codice militare, Registro automobilistico. E dove il punto d'approdo è sempre uno: il rafforzamento del Governo». Questo è il punto: stiamo progressivamente vedendo uno svuotamento dei poteri del Parlamento, per quanto in teoria si dovrebbe ancora essere in un regime parlamentare, ma Renzi fa il presidente "eletto dal popolo", per altro non avendo mai personalmente avuto alcun tipo di legittimazione popolare che lo riguardasse. Chiude Ainis: «Caro dottore, troppe vitamine. Perché ogni democrazia si regge sull'equilibrio dei poteri; ma quando l'Esecutivo prende il sopravvento sul legislativo, allora diventa una "democratura", per dirla con Eugenio Scalfari. Tanto più se lo strumento del dominio è la legislazione delegata, che per sua natura si consuma sotto un cono d'ombra. I decreti legge vanno pur sempre convertiti dalle Camere, sicché innescano un dibattito pubblico, in cui l'opposizione può levare la sua voce. Invece i decreti legislativi vengono cucinati nel chiuso di palazzo Chigi, in qualche conciliabolo fra il premier ed i ministri interessati; noi ne veniamo a conoscenza soltanto a babbo morto. E i controlli? Il parere delle Commissioni parlamentari non è vincolante; e infatti nel febbraio scorso, a proposito dei decreti sul "Jobs Act", il Governo se n'è infischiato allegramente. In quel caso protestò Laura Boldrini; adesso non protesta più nessuno, benché ogni riforma (ultimo caso: la stretta sulle intercettazioni) viaggi sui binari della legislazione delegata. Sarà che in politica, a lungo andare, la prepotenza diventa una prova di potenza. O forse sarà che ci mancano le energie d'un tempo. Nel 1992, con una svalutazione galoppante e la lira fuori dallo "Sme", il Governo Amato chiese quattro maxi-deleghe su pensioni, Sanità, Pubblico impiego, Enti locali. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si dichiarò contrario ai pieni poteri dell'Esecutivo, il presidente della Camera (Giorgio Napolitano) idem. Ora, invece, tutti silenti. Abbiamo delegato al Governo pure la parola». Tutti silenti: questo è l'aspetto più triste della vicenda, che umilia la democrazia parlamentare.