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05 dic 2014

Si tornerà all'acciaio di Stato?

di Luciano Caveri

Dopo la stagione delle privatizzazioni delle imprese pubbliche - in parte fasulla, tipo "Poste italiane" o "Ferrovie" con SpA a capitale del Ministero dell'Economia - sembra che sarà il settore siderurgico, per decisione del premier Matteo Renzi, a tornare allo Stato. Si parla di Taranto, a suo tempo privatizzata, con il "Gruppo Riva" che acquistò una buona parte di "Ilva", grande fabbrica pugliese oggi scossa dalle vicende giudiziarie, specie a seguito delle gravi vicende di inquinamento del sito industriale con ricaduta sulla salute dei lavoratori e della popolazione. Ora potrebbe tornare al settore pubblico, in considerazione del numero enorme di occupati e - si dice - del valore strategico di una produzione di questo genere. Per analogia, se i tedeschi ora proprietari non accetteranno soluzioni di compromesso, anche per lo stabilimento siderurgico di Terni si potrebbe andare verso una soluzione simile per evitarne la chiusura. L'acciaio pubblico è passato ai privati dagli anni Ottanta in poi e lo stabilimento "Cogne" di Aosta seguì queste procedure, quando a presiedere l'"Iri" era Romano Prodi. Vinsero la gara per l'assegnazione della fabbrica gli svizzeri Marzorati, che ancora oggi reggono lo stabilimento. Che il settore siderurgico italiano vada male lo dimostrano le vicende di quel che è rimasto nel settore. Pensiamo anche a Piombino, già "Lucchini", che ora, ma anche con una diversificazione verso il settore alimentare, finirà nelle mani di un gruppo algerino. Ma se guardiamo all'Europa - pensiamo alla Francia o al Belgio - c'è poco da essere confortati e non a caso la Commissione europea ha sviluppato un piano d'azione che "aiuti il settore a fronteggiare le sfide contingenti e a porre le basi per riconquistare competitività in futuro grazie all'innovazione e agli stimoli a favore della crescita e dell'occupazione". A fronte di crisi del settore che sta chiudendo o ridimensionando fabbriche in diversi Paesi membri, questi gli scopi dell'iniziativa di Bruxelles, frutto anche di una spinta del Parlamento europeo: "La Commissione intende sostenere la domanda sia interna che estera di acciaio prodotto nell'Unione Europea grazie a interventi che permettano alle imprese siderurgiche europee di ottenere accesso ai mercati dei Paesi terzi in condizioni di pratiche commerciali leali. La Commissione europea vuole anche impegnarsi a ridurre i costi dell'industria, compresi quelli causati dalla regolamentazione europea. Innovazione, efficienza energetica e processi produttivi sostenibili sono aspetti imprescindibili dei prodotti d'acciaio di prossima generazione, essenziali in altri importanti settori industriali europei. Il Piano d'azione prevede anche misure mirate per sostenere l'occupazione in questo campo, accompagnare le ristrutturazioni e far restare in Europa una manodopera altamente qualificata". Per quel che mi riguarda, non essendo più dentro le vicende europee, non so bene se questa impostazione agevoli di fatto, come vuole fare Renzi, il ritorno del pubblico con delicatissime implicazioni in materia di limiti agli aiuti di Stato nel solco dei principi assai rigidi della concorrenza. Il dominus della situazione sarebbe la "Cassa Depositi e Prestiti", che deve la sua ricchezza prevalentemente alla gestione del risparmio postale (buoni fruttiferi e libretti). Scriveva, nell'ottobre scorso, Giorgio Meletti sul "Fatto Quotidiano": «è la zia ricca d'Italia, quella a cui fai gli auguri di Natale quando ti serve l'aiutino per cambiare la macchina sperando che il prestito diventi regalo. Di fronte a qualsiasi ostacolo si chiama in causa la "Cassa Depositi e Prestiti". Ci sono decine di miliardi di fatture non pagate dalla Pubblica amministrazione? Chiediamo a "CdP", diranno ministri tecnici e politici. "Telecom Italia" non ha i miliardi necessari a sistemare la peggior rete d'Europa? Sentiamo che cosa dice "Cdp". C'è da rattoppare il bilancio dello Stato con qualche finta privatizzazione? "CdP" comprerà senza esitazione. Tutti però, Governo in testa, fingono di non vedere la dura realtà: la "CdP" è come la zia facoltosa che ha lasciato tutto alle Orsoline, residuando ai nipoti il dolore, quello vero. Questo è il vero nodo che il Governo Renzi dovrà affrontare nei prossimi mesi, insieme a quello dei vertici: la Cassa è solo apparentemente ricca. Vanta un attivo patrimoniale di 314 miliardi, ma di questi solo diciotto sono suoi (in gergo si chiama patrimonio netto, è la somma del capitale sociale e delle riserve), gli altri 296 miliardi sono debiti. La Cassa però esprime una forza lobbistica senza pari, per cui è difficile trovare qualcuno disposto a dire che il re è nudo. La stessa "Banca d'Italia" usa toni insolitamente delicati per far notare che a nessuna banca è consentito investire in partecipazioni azionarie un solo euro più del patrimonio netto: significherebbe mettere a rischio soldi non propri. A fronte dei diciotto miliardi di patrimonio netto, "CdP" ha in portafoglio partecipazioni per trentadue miliardi: tra esse i pacchetti di controllo dei tre gioielli quotati in Borsa, "Eni", "Terna" e "Snam". Raccoglie risparmio e lo presta ma non è una banca, come la pipa di Magritte. Burocrati e giuristi se vanno d'accordo fanno miracoli. Ma di chi sono i soldi con cui il presidente Franco Bassanini e l'amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini se la tirano da ricchi e potenti? Dei piccoli risparmiatori che affidano magre finanze alle "Poste" in cambio del rendimento minimo di buoni fruttiferi e libretti. Nel 2013 il cosiddetto "popolo delle vecchiette" ha affidato a "CdP" 242 miliardi, remunerati con 5,4 miliardi, al tasso medio del 2,1 per cento. Ecco la magia: "Cdp" gira i soldi in gran parte allo Stato, comprando "Bot", "Cct" e "Btp" ed alimentando un conto presso la Tesoreria. Nel 2013 ha prestato al Tesoro 173 miliardi, incassando interessi per 5,9 miliardi, al tasso medio del 3,4 per cento, superiore del sessanta per cento a quello pagato alle "Poste". Se il Tesoro piazzasse direttamente i suoi titoli alle vecchiette risparmierebbe 2,3 miliardi. Invece lascia il pizzo alla "CdP". Fatto sta che nel 2013 la Cassa ha casualmente fatto 2,3 miliardi di utile netto. Così sappiamo chi paga i lussuosi propositi di "CdP". E si spiega perché Bassanini, dopo una vita da politico iscritto a tutti i partiti, adesso che è banchiere parla da onnipotente. In una napoleonica intervista al Foglio - dopo averci indotto a credere di essere l'unico umano in grado di farsi ascoltare da Matteo Renzi per più di qualche minuto ("da alcuni mesi ha costruito un rapporto speciale con il segretario del PD - telefonate, sms, consigli, cene") - ha lanciato il guanto di sfida: "Noi ci mettiamo in gioco. Possiamo triangolare con il governo per stimolare la crescita. Possiamo riprodurre da un certo punto di vista il vecchio modello "Iri". La "CdP", quando sarà, vedrete che non si tirerà indietro"». Ecco, insomma, dove potrebbe andare l'intervento nella siderurgia, per cui qualche riflessione sulla bontà dell'eventuale scelta andrebbe fatta. E per chiarezza ulteriore: questo modello è ripetibile laddove la crisi industriale morde o si tratta di interventi eccezionali, scelti a discrezione del Governo? Se si pensa alla crisi delle piccole e medie imprese industriali valdostane si capisce che il rischio è quello di avere da parte dello Stato due pesi e due misure.