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05 giu 2014

Dietro a "Repubblica"

di Luciano Caveri

Oggi, Festa della Repubblica, mi sia consentita qualche riflessione istituzionale, pur ben sapendo che l'affezione popolare verso questa ricorrenza è pari a zero. Segno plastico di quanto il senso identitario degli italiani si esprima più nel calcio che nelle celebrazioni ufficiali. Non lo dico per polemica, ma è un dato di fatto facilmente sostenibile e documentabile. Ricordo alla Camera dei Deputati, specie nel lungo lavoro alla Commissione Affari Costituzionali, straordinaria palestra per capire i meccanismi istituzionali, le lunghe discussioni su quella riforma della Costituzione nel suo Titolo V che portò, fra l'altro, alla riscrittura dell'articolo 114: "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato". Ha scritto, in un suo commento, il costituzionalista Marco Olivetti, di recente diventato membro della Commissione paritetica Stato - Valle d'Aosta: «A prima vista, la disposizione in commento sembra oscillare fra l’ovvio e il paradossale: nessun significato in termini di "dover essere", nessun sollen specifico sembra potersi trarre da una norma di questo tipo, la quale, però, va a sostituire la ben più precisa e neutra disposizione precedente, che si limitava a stabilire che "La Repubblica si riparte nelle regioni, nelle province e nei comuni", ed è sicuramente espressione di un’ambizione più ampia». Spiega Olivetti: «L'idea che il nuovo articolo 114, 1° comma, intende veicolare è infatti quella di una statualità che nasce dal basso, dal livello di governo "più vicino" al cittadino (il comune) e si svolge progressivamente in enti territoriali di maggiori dimensioni, disposti come cerchi concentrici». Avendo partecipato alla discussione, anche nelle parti meno resocontate, confermo come l'aria dei tempi - influenzata dai temi del federalismo e della sussidiarietà - fosse quella. In un'impostazione "federalista", oggi smantellata e dimenticata, non si "osò" troppo (difatti votai contro) e dunque la controriforma in corso nei fatti e nelle proposte di riforma non ha avuto ostacoli proprio nella Costituzione attuale per la debolezza dell'impianto. Ha ragione dunque Olivetti nel rilevare queste debolezze: «Ma se per questo aspetto l'ambizione della disposizione sembra essere quella di spezzare l'equivalenza Repubblica - Stato , essa appare d'altro canto restrittiva rispetto a quelle ricostruzioni, adombrate già prima di questa riforma, a mente delle quali il termine "Repubblica", contenuto in talune disposizioni del testo originario della Carta costituzionale (come l'articolo 3, 2° comma), non sarebbe stata solo un sinonimo della parola Stato (e, più in generale, l'insieme degli apparati pubblici, comprensivi degli enti territoriali minori), ma avrebbe indicato anche l'insieme delle formazioni sociali in cui si articola la società civile: sicché, dicendo che la Repubblica è costituita solo dagli enti pubblici territoriali, l'articolo 114 avrebbe fatto registrare un passo indietro rispetto a tale interpretazione, dislocandosi su un assetto forse non statalista, ma comunque "pubblico-centrico". Se poi si pone mente a tutti i casi in cui la Costituzione utilizza il termine Repubblica come sinonimo di Stato (ad esempio legge della Repubblica, governo della Repubblica, Senato della Repubblica, Presidente della Repubblica...), ci si accorge come sia difficile prendere sul serio l'articolo 114 1° comma e ritenere che esso riempie di significato la parola "Repubblica" contenuta in tali disposizioni costituzionali». Ma la contraddizione, in questo ragionamento molto interessante, emerge chiara nel rapporto con uno dei primi articoli della Costituzione. Osserva sul punto Olivetti: «Non meno contraddittorio si rivela l'articolo 114, 1° comma, se letto in parallelo con la disposizione di principio di maggior rilievo contenuta nella Costituzione in materia di autonomie, vale a dire l'articolo 5, laddove esso afferma che "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali…". Da un lato appare evidente, infatti, che se la Repubblica riconosce a promuove le autonomie territoriali, le identifica al tempo stesso come qualcosa di "altro da sé", e che quindi è piuttosto difficile che lo stesso testo costituzionale affermi poi, alcuni articoli più avanti, che essa (la Repubblica) non "si riparte" meramente in regioni, province, ecc., ma è da esse "costituita": il che vorrebbe proprio far intendere che la Repubblica si identifica nelle autonomie allo stesso modo in cui si identifica con lo Stato e che, quindi, le autonomie stesse non sono, per la Repubblica, "altro da sé" . Ma, al tempo stesso, occorre riconoscere che il senso dell'articolo 114, 1° comma, o quantomeno il suo intento, coincide con quello che una autorevole dottrina attribuiva all'articolo 5: quello di "accentuare il significato politico-costituzionale attribuito a queste autonomie" e riassumere ed anticipare il senso delle restanti disposizioni del titolo V in materia di autonomie, offrendo "elementi notevoli per la loro interpretazione"». Credo che quanto esposto mostri come la Costituzione non possa o forse non debba essere facilmente riformata "a pezzi", perché poi i "tacconi" non sempre coincidono con il contesto. E' quanto si vorrebbe fare anche oggi con una riforma del Senato inutile e dannosa, perché mancante di un contesto reale (genere una vera Camera delle Regioni) e legata a logiche di risparmio ben altrimenti ottenibili (perché lasciare 630 deputati!). Lo stesso vale anche e soprattutto, dopo la soppressione delle Province, giusta e legittima, ma anch'essa appesa nel vuoto, per il futuro del regionalismo, oggetto oggi di un atteggiamento aggressivo e centralista dello Stato. Appoggiato anche da un "municipalismo" complice dello Stato centralista in una logica antiregionalista stupida e autolesionista. Ne vedremo delle belle: allacciamoci, come autonomia speciale valdostana, le cinture di sicurezza, anche perché agli attacchi esterni contribuisce l'atteggiamento da tempo passivo e catatonico di chi, nelle istituzioni locali, dovrebbe reagire non solo con discorsi ufficiali o da comizio, ma con fatti concreti, che risultano non pervenuti.