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07 mag 2014

Guardando Renzi

di Luciano Caveri

Seguo, come tutti e con vivo interesse, il tentativo di modernizzazione dell'Italia avviato da Matteo Renzi. Lo faccio in modo laico e senza preclusioni, immaginando che si tratti di un tentativo dopo il quale non so bene che cosa potrebbe esserci. Non mi soffermo sui mali di quello strano Stato che è l'Italia: sono venuti al pettine problemi datati e storicizzati, che sembrano essere arrivati addosso agli italiani come la rosa di una lupara. Renzi ci prova con un giovanilismo pieno di entusiasmo e aprendo un sacco di fronti nella logica – immagino – dei "tanti nemici, tanto onore", specie se mettere molti nel proprio mirino possa fruttare un bottino elettorale cospicuo.

Immagino che presidiare tutti i fronti sia un'opera titanica e devo dire, come preoccupazione, che l'idea di una capacità solitaria di affrontare e risolvere i problemi appare come un lavoro davvero difficile, specie nella complessità della società odierna. Dovessi dare un Consiglio a Renzi, in questa corsa ad ostacoli faticosa, è anzitutto quella di non emulare il celebre «l'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare» del celebre ciclista fiorentino, suo concittadino, Gino Bartali, il "Ginaccio" nazionale. Questa sua espressione colorita è diventato - lo dico bonariamente - uno dei detti significativi della nostra Repubblica. Questo vizio nazionale dell'autoflagellazione e della ricerca più delle cose che non funzionano di quelle che vanno. Una sorta di compiacimento, spesso anche agli occhi del mondo, mentre altri popoli, forse più coesi in una vera coscienza nazionale, tendono a esaltare i propri pregi piuttosto che i propri difetti. Così Renzi sta affrontando, come un lottatore di wrestling dentro e fuori dal ring, diversi avversari: i grandi burocrati, i sindacati, le corporazioni, parte del sistema autonomistico, l'Europa dell'austerità e dovrei lasciare dei puntini di sospensione perché ognuno dei lettori possa aggiungere qualcuno. Da aggiungere, ad esempio, per evitare un'omissione, sono tutti quelli che nel suo partito, il Partito Democratico, considerano questa sua solitudine e la sua logica da entourage ristretto come un vulnus per un partito che aveva sbandierato - anche in logica antiberlusconiana - una filosofia di conduzione collegiale, già evaporata con la scelta del premier di sommare la carica di presidente del Consiglio e di leader del partito. Si sa, poi, che il detto "parenti serpenti" ha una sua ragion d'essere ben nota in politica. Aggiungiamo che anche la circostanza proprio dello staff di "fedelissimi" personali a Palazzo Chigi non aiuta di certo nell'opera di mediazione, cui ogni presidente del Consiglio è tenuto, in un regime politico, come quello italiano, che non è "presidenzialistico" ed il Parlamento può diventare incandescente, quando si sente troppo "scavalcato". Insomma: c’è molta carne al fuoco e toccherà allo chef destreggiarsi per evitare che qualcosa risulti troppo cotto o crudo. Io ho "sfiorato", nella mia breve esperienza di governo a Roma, un mondo burocratico, che pure avevo più a lungo seguito dal mio osservatorio parlamentare. Mi ero convinto che, così stando le cose e senza una vera riforma federalista, l'Italia sia un Paese ingovernabile dal centro. Ma non voglio fare l'uccello del malaugurio, per cui vedremo che cosa ci riserverà il futuro.