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01 mag 2014

Déjà vu

di Luciano Caveri

Il termine "déjà vu" (espressione in francese, usata correntemente anche in italiano, che significa - come noto - "già visto") è stato inventato e utilizzato per la prima volta da Emile Boirac (1851-1917), che si interessò molto a questo fenomeno psichico, che riguarda la sensazione di aver vissuto precedentemente un avvenimento o una situazione che si sta verificando. Compreso un legame con una persona con cui, all'atto della conoscenza, si registra una misteriosa affinità, come se in un altro tempo la si fosse conosciuta. Ne ho già scritto in passato perché mi capita ogni tanto e in luoghi diversi. Anche ieri girando per i carruggi, le strette stradine fra le case, di Genova. Pare che il fenomeno tocchi il 50-60 per cento dell'umanità e dunque è interessante che gli scienziati se ne occupino con le teorie le più varie, evitando quel filone del paranormale che impera su Internet, che è una praterie per le stupidaggini più estreme. Quindi lasciando perdere le storie genere reincarnazione e dunque vite vissute che giustificherebbero il fenomeno (ricordo a una cena una tizia che mi spiegò come mai ero stato un Faraone nell'Antico Egitto!) c'è chi parla di persone che generano memorie dove non ne esistono, attraverso un vero e proprio sforzo, altri parlano di un errore della memoria, chiamato "paramnesia" e cioè si ricorda un evento che non c'è mai stato oppure altri segnalano che si tratta solo di confusione con "elementi simili" a qualche cosa che abbiamo già visto. Naturalmente di teorie ce ne sono molte di più e l'elenco sarebbe lungo. Io penso che mi capiti per due ragioni razionali: l'affinità dei luoghi per cui - pensando al mondo alpino - può capitare di trovare un angolo nuovo che ne evochi uno vecchio per ovvie ragioni di somiglianza; esiste poi il fatto che siamo, in questi nostri tempi, letteralmente bombardati da immagini, specie televisive, che possono tornarti alla memoria ed ingannarti rispetto appunto alla certezza di "avere già visto", di "esserci già stato" e anche di quella parte più inquietante "di avere già vissuto quella medesima situazione che ora si sta verificando". La tesi irrazionale, cui già accennai una volta: è impensabile che nel nostro DNA ci venga trasferita qualcosina dei nostri avi? Nel caso di Genova ci starebbe del tutto, visto che in questa città vissero per secoli, facendo la spola con la natia Moneglia, tanti Caveri. Capisco, mi fermo qui, non chiamate il "118"! E allora fatemi finire in poesia con Giuseppe Ungaretti: «Ogni mio momento io l'ho vissuto un'altra volta in un'epoca fonda fuori di me». Tanti autori letterari - ma ormai anche tanti film - hanno esplorato questa parte del nostro cervello e, per chi ci crede, della nostra anima.