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06 mar 2013

La compassione per il rosicatore

di Luciano Caveri

Il "rosicatore" è sempre esistito: è quello che si rode dentro e si tormenta di rabbia e di invidia. Internet ed i "social media" sono una prateria per chi coltiva certi sentimenti così negativi e spesso si sfoga, appunto, con la costanza di un roditore, rosicando e rosicchiando attraverso quelle vetrine insperate che il Web offre a chi sarebbe destinato all'anonimato. «In futuro ciascuno avrà quindici minuti di fama», disse nel 1968 l'artista Andy Warhol con quella che è stata letta "ex post" come una sorta di profezia. Oggi c'è chi usa il proprio veleno interiore per mostrarsi, facendo dell'invidia una bandiera. Capisco che l'occasione è utile per un distinguo: usiamo spesso l'invidia come se fosse un sinonimo di gelosia, ma non è affatto così. Ne scrisse alcuni anni fa il sociologo Francesco Alberoni, imbattibile sul "Corriere della Sera" nelle sue sintesi: «Nella gelosia ci viene sottratto un oggetto d'amore che noi consideravamo nostro. Ma non ci viene portato via, a forza, da un ladro o da un rapitore. Il nostro amato è d'accordo nel farsi portare via, sta dalla parte del rapitore. La gelosia, perciò, ha la forma di un triangolo in cui al vertice ci siamo noi e all'altro lato loro: la persona che amiamo e il rivale, uniti dalla complicità . L'espressione "sono geloso di" si riferisce tanto al primo quanto al secondo. La gelosia non ha un solo oggetto, ne ha sempre due. Invece è assente il pubblico, la folla, la società. Io posso essere geloso anche nella più assoluta solitudine. L'invidia, invece, ha un oggetto solo e, in compenso, ha bisogno di un pubblico. Io sono invidioso di qualcuno che mi ha superato davanti a una collettività, a un'opinione pubblica che applaude lui e non me. Prima eravamo allo stesso livello, avevamo lo stesso valore sociale. Per esempio, io pensavo di essere simpatico e di cantare bene come Fiorello. Invece lui, a un certo punto, ha successo e io no. Lui va in televisione, è ammirato da tutti, e io no. Allora mi domando perché. Che cosa ha in più di me? Che cosa gli fa meritare tutto quel successo? Non c'è una ragione. Vuol dire che il mondo non premia in base ai meriti, alle capacità. Provo un senso di impotenza e di ingiustizia. Mi tormento e cerco di dire a me stesso che gli altri sbagliano. Ma loro continuano ad applaudirlo. Allora cerco di convincerli del contrario, cerco di screditarlo. Lo faccio anche per convincere me stesso. Ma è una lotta impari, nessuno mi crede. Allora anch'io sono preso dal dubbio. E mi vergogno di quello che faccio. Mi vergogno di essere invidioso». Brutta storia e pessimo sentimento, insomma, che dovrebbe forse farci derubricare la costernazione, per chi è intriso di invidia e ci infastidisce, in compassione umana. Per altro, meglio fare invidia che pietà.