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14 nov 2010

Vedendo la prima neve

di Luciano Caveri

Ci sono delle leggende metropolitane che sarebbe bello se fossero state vere. Penso alla balla, straordinariamente immaginifica e frutto di uno svarione di qualche linguista, che gli esquimesi abbiano ben quindici modi diversi per di dire "neve", mentre di parole ne hanno solo due. E da noi, "neve", "neige", "nei" da dove viene? Ecco una definizione breve da un dizionario etimologico: "En ancien français noif, du latin nĭvem, accusatif de nĭx, de même sens. La forme neige est analogique de neiger, du latin populaire *nĭvīcare (cf. it. nevicare). Le mot provient de l’indo-européen commun snoygʷʰos que l’on retrouve dans l’anglais snow, l’allemand Schnee, le russe снег (sneg), le tchèque sníh, le polonais śnieg, le sanskrit स्नेह (snēha), le lituanien sniegas, le vieux prussien snaygis, le gotique snaiws, le gaélique irlandais snechta/sneachta, le grec ancien νιφας (niphas), le gallois nyf, le vieux norvegien snjór...". La neve, che mi piace tanto essendo nato e cresciuto sino ai miei vent'anni in un ciclo da "neige d'antan", non è affatto monocorde. Lo dimostra la lettura della voce "nei" nel dizionario del "patois" con espressioni piene di sonorità come "pavioule" o "flocon de nei" o "flopon" (fiocchi più grandi) o "failloutsin" (fiocchi piccoli e rari) e si potrebbe andare avanti a lungo a dimostrare come una lingua di montagna sappia essere ben descrittiva e talvolta poetica di fronte ad un fenomeno naturale consueto.