Una malattia che inquieta
Ci sono temi più difficili di altri da trattare: penso ai dati da brivido sul numero di tumori e di conseguenza di ammalati con questa patologia in Valle d'Aosta.
L'altro giorno, una persona mi apostrofava su questo tema quasi a lasciar intendere che dietro questi preoccupanti dati statistici si nascondesse, celata alla popolazione dalle "autorità", chissà quale segreto. Purtroppo non ce ne sono.
Ricordo, qualche anno da, di essere rimasto senza fiato quando - ad una conferenza avvincente ad Aosta - il Professor Umberto Veronesi spiegò come in futuro una persona su due avrà a che fare con questa malattia.
Basta guardare nel cerchio delle proprie conoscenze per verificare quanto questo scenario sia una minaccia reale, anche se oggi sono in molti a guarire e sono lieto che si sia costruita quella Cobaltoterapia ad Aosta che diminuirà le dolorose trasferte fuori Valle.
Talvolta, nell'accogliere la notizia di una persona conosciuta colpita dal cancro, non si può che essere colti da una certa angoscia, come un accerchiamento che inquieta. E, malgrado i progressi della scienza con studi e cure, restano evidenti misteri da svelare sui perché del cancro e cresce l'attesa di soluzioni per capirne le ragioni (credo che si definisca eziologia) e per avere medicine migliori, specie laddove - come purtroppo da noi - vi è una forte incidenza.
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Commenti
Leone? No, no... Cancro
Chi ha vissuto l'esperienza di una malattia oncologica, non ne parla volentieri. I motivi che conducono a una scelta del genere sono molteplici, mutano a seconda dell'umore del giorno e possono valere anche più d'uno contemporaneamente. C'è il mattino in cui ti alzi ben disposto, convinto che, per quanto male si veda già ogni giorno al mondo, non sia il caso di rincarare la dose infliggendo ad amici e colleghi un supplizio fatto di racconti a tinte fosche. C'è il giorno in cui sei sceso dal lato sbagliato del letto e, semplicemente, pensi che la loquacità appartenga a un assicuratore, o a un promotore finanziario, ma non certo a te, quindi taci e basta. Per non dire, poi, di tutte le volte in cui penseresti pure di trovarti di fronte a un interlocutore in grado di sostenere una conversazione sull'argomento, ma temi che il desiderio di comunicare possa venire interpretato come volontà di essere compatito, pertanto stai zitto.
Insomma, se l'hai avuto, che tu sia di buono, cattivo o mediano umore, le mandibole, sul tema cancro, faticano a sbloccarsi. Se sembro parlare con cognizione di causa, è perché nel settembre 2008 mi è stato diagnosticato ciò che medicalmente viene definito “carcinoma tiroideo”. Un tumore, maligno, alla ghiandola tiroide. La stessa malattia, per esemplificare, che ha colpito Pippo Baudo. Il mese successivo sono stato operato, lasciando sul piatto del chirurgo la tiroide. Dopo altri tre ho sostenuto una terapia a base di Iodio-131. In sostanza, le eventuali cellule maligne rimaste nella loggia tiroidea, assolutamente da azzerare poiché in grado di causare la ripresa della patologia, vengono “ablate” dalle radiazioni emanate dal farmaco (sotto forma di pillola). Potrà apparire paradossale, perché si tratta della stessa sostanza associata ad un gran numero di tumori riscontrati nell'area circostante la centrale nucleare di Chernobyl, dall'indomani dell'incidente del 1986, ma funziona davvero così. Il trattamento viene compiuto in regime di isolamento (reale, non proprio come quello del “Grande Fratello”) e prevede - quale seguito del ricovero ospedaliero - una “quarantena” dalla durata variabile (calcolata sulla base della dose di iodio resasi necessaria), stante la necessità di proteggere i familiari dal fondo radioattivo presente nel proprio corpo una volta dimessi. Dopo diversi controlli, eseguiti nel 2009, nello scorso novembre il mio quadro è stato valutato “compatibile con remissione clinica di malattia”. Insomma, se in questi casi non si troverà mai un medico pronto a scrivere “guarigione” su un referto, si tratta comunque della situazione in cui consiglierà senza remore di andare a festeggiare.
Se ne parlo tanto apertamente, non è per apparire spavaldo, né per gonfiare il petto in segno di una vittoria che, peraltro, non trovo corretto (e non riesco ad) avvertire come tale. Sono cosciente di essere stato, anzitutto, fortunato. La tiroide non è vicina a nessun organo vitale e ciò, unito alla lentezza delle neoplasie che la colpiscono, porta a un numero di successi clinici elevato rispetto alle altre forme di cancro. Intraprendere un percorso di cura su basi del genere aiuta, quantomeno la psiche, ma sentirsi annunciare l'esistenza di una percentuale, per quanto bassa, di “casi dalle conseguenze fatali” fa scattare comunque una sorta di bomba ad orologeria interiore. Con un'aggravante, che nei film di Arnold Schwarzenegger il pubblico troverebbe geniale, ma che in quello della tua vita avresti volentieri fatto a meno di includere. Non sai da che cifra parta il timer, né se il conto alla rovescia finirà effettivamente con lo zero, o se i “nostri eroi” (in questo caso, non bicipiti d'acciaio, ma in camice bianco) riusciranno a disinnescare l'ordigno in tempo utile. Da protagonista, a spettatore della tua vita, nel giro di due frasi su un referto. Questo fa male. La malattia no, perlomeno non a quello stadio. Lei non si annuncia, sta nei ranghi del tuo organismo meglio del peggior imboscato. Non una virgola che sfugga più di tanto alla consuetudine, non un sintomo per cui non si riesca a trovare una spiegazione plausibile, senza ricorrere al consulto di un medico (e intanto il tempo passa). Il carcinoma che mi è stato asportato misurava 8,5 cm (sì, centimetri) per 5,5. E' emerso proprio per quello, poiché ha raggiunto le dimensioni di una pallina da golf ed è divenuto visibile il rigonfiamento alla base del collo. Però, a pensarci bene, vuol dire che era lì da anni, non da mesi. In tutto quel tempo, non un problema serio che fosse uno (i valori delle funzionalità tiroidee misurati tramite prelievo del sangue erano perfetti!). Forse un po' di stanchezza (difficile da attribuire ad altro, quando si fa un mestiere abbastanza assorbente) e una vaga difficoltà nel deglutire (probabilmente, il carcinoma iniziava a premere sulla trachea, ma - anche in questo caso - difficile pensarci, quando ti ingoi gli hamburger à la Poldo, in un boccone solo). Forse, ma proprio a volerci fare attenzione.
La verità qual è? Semplice: che per trascinarti con sé nel giro di qualche mese, come malauguratamente è accaduto a tanti, e come - nell'attimo dell'annuncio della malattia - ignori se toccherà anche a te, la bestia si guarda bene dall'emettere anzitempo il suo urlo sinistro. Lo fa solo dopo averti affondato i denti nella carne, nel momento in cui, se non sarà troppo tardi per riuscire a rimandare indietro i titoli di coda, diventerà maledettamente difficile non farli scorrere troppo velocemente. La forza del cancro sta tutta in questo: lui ti serve le carte, dopodiché non sta alle regole condivise in ogni Casinò del mondo. Il banco, in questo caso, gioca per primo e tu, obbligato a “vedere”, puoi solo sperare di avere una mano migliore della sua.
Qualcuno impreca il cielo, la scienza, o la divinità che gli riesce più confacente odiare, lamentando come in decenni non si sia venuti a capo del segreto più intimo delle forme tumorali, quello che minerebbe la loro invincibilità, segnando il primo vero punto a favore della medicina nella lotta a queste patologie. Onestamente, e nonostante l'esperienza vissuta, non mi stupisce. Il genere umano è prossimo a mandare un suo rappresentante su Marte, ma non ha spiegazioni per le coliche dei neonati. E' riuscito a sviluppare un “cocktail” di farmaci in grado di bloccare l'Aids, ma non efficace fino al punto di debellarlo (solo oggi si inizia a parlare di vaccino). Siamo animali sociali, ma con dall'insana tendenza alla sopravvalutazione. Esistono cose che non conosciamo, che forse proprio il sinistro aumento dei tumori aiuterà a decrittare, ma ad oggi non possiamo che prendere atto di come, per alcune patologie oncologiche, specie quelle dalla propagazione maggiormente rapida, non si sappia più di ciò che era chiaro già vent'anni fa.
Le righe che state leggendo nascono proprio per questa ragione. Non possiamo sapere quanto la ricerca impiegherà a fornire le risposte che tutti auspichiamo. Però, dobbiamo, nel frattempo, modificare il nostro comportamento. I tumori, vista la loro incredibile progressione (e anche su ciò bisognerebbe interrogarsi), colpiranno sempre più le persone con la stessa facilità (e, ahimé, con analoga probabilità numerica) di patologie decisamente banali. Non bisogna avere timore di parlarne. Se il cancro ha un vantaggio medico, occorre sfilare dal suo mazzo almeno quello culturale, che lo ha fatto chiamare per decenni, a bassa voce e col capo chino, “brutto male”. Nei mesi della malattia, molti si sono interessati alle mie condizioni e tengo a cogliere l'occasione per ringraziare tutti. Alcuni si sono manifestati direttamente. Altri, forse, ignorano che io sia al corrente del loro interessamento (poiché avvenuto presso terze persone, in modo discreto). Altri ancora, hanno optato per una somma delle due, chiamandomi dopo essersi informati presso parenti o conoscenze comuni. Comprendo, e apprezzo, le scelte e l'attitudine di ognuno, anche di coloro che ho trovato la forza di irridere (non sempre) bonariamente poiché la loro tristezza (comprensibile, ci mancherebbe) non si specchiava, in quelle occasioni, nella mia convinzione di un funerale non esattamente prossimo.
Eppure, parlarne, cercando di chiamare sempre le cose con il loro nome, ma senza precipitare gli eventi (avere diagnosticato un cancro non corrisponde matematicamente a morte, anche se si tratta ancora dell'epilogo maggiormente frequente), serve. E' utile soprattutto come accumulo di una “riserva” di carburante interiore in vista di ciò che si manifesterà, se non già durante la cura, magari nel periodo immediatamente successivo alla malattia: la depressione. Combattere un cancro richiede energie. E' una Saigon personale, per usare una metafora bellica. A corpo e mente, viene richiesto molto, per parecchio tempo. Sia in termini di sollecitazione operatoria/reazione alla cura, sia in fatto di smaltimento di una mole di pensieri che imballerebbero il personal computer dal processore più potente sul mercato. Sta scritto che, a un certo punto, possa succedere qualcosa di analogo allo spegnersi repentino delle luci di una galleria, mentre la state percorrendo, cercando pure di mantenere una velocità sostenuta, animati dall'ovvio desiderio di uscirne il prima possibile. Trovarsi al buio, oltretutto a margine di qualcosa che è già ampiamente spiacevole, e che convince di essere transitati nella schiera dei creditori del destino, fa paura, e rappresenta una prova nella prova. In determinati momenti, la lucidità alla quale vi siete aggrappati per guadare il pantano apparirà meno nitida a chi vi circonda, ma non a voi, e ciò renderà ancora più complicate le cose, in una spirale di tristezza e smarrimento destinata solo, almeno nelle vostre sensazioni, a sprofondare ogni giorno di più. Però, la strada per riaccendere la luce passa proprio attraverso il riconoscere questa situazione, ammettendola e facendolo presente a chi, attraverso quanto scienza e conoscenza mettono a disposizione, potrà aiutarvi a riconoscere l'interruttore e raggiungerlo (premerlo, starà sempre e soltanto a voi, com'è giusto che sia).
Infine, qualche parola va dedicata a una visione sufficientemente diffusa di coloro che hanno vissuto un'esperienza del genere. Si dice che passare indenni attraverso il calcolo delle probabilità del cancro porti a rivedere la scala di valori personale, eliminando il superfluo e ri-attribuendo di conseguenza le proprie priorità. E' vero, ma non immediato e, comunque, dal momento che la stessa revisione non avrà toccato coloro che ritroverete dopo la malattia, al di fuori del nucleo familiare (al bar, sul lavoro, o in altri contesti), ciò costituirà un elemento di difficoltà ulteriore. Rifiuterete quanto riterrete superfluo, senza che però esso sia scomparso dalle vite di chi (fortunatamente) non ha conosciuto direttamente la patologia. Ci si sente come gli unici vedenti in un esercito di ciechi. Gradualmente, si arriva a percepire la situazione per quella che è realmente (non è colpa vostra se avete avuto un tumore, ma nemmeno dei vostri colleghi se non l'hanno avuto), tuttavia non si tratta di un processo immediato. Occorre tentare di essere onesti con se stessi, dicendo gentilmente basta a quei compromessi (tanti o pochi che fossero) che facevano parte di un'esistenza precedente, per la quale, dopo un tumore, si perde immancabilmente d'interesse. Attenzione, non significa che si sia legittimati a prendere chiunque a calci nelle palle, solo perché non ha avuto la stessa malattia (anche se, in qualche caso, ci sono andato vicino e me ne scuso sentitamente). Si tratta di cominciare a scrivere su una pagina bianca, ponendo in cima al foglio due concetti capitali: la morte è parte della vita (quale suo momento finale); "guardare" e "vedere" sono sinonimi solo linguisticamente. Qualche sociologo potrebbe chiamarla “Vita 2.0”, ma in realtà corrisponde al togliere dallo zaino sulle vostre spalle oggetti inutili e pesanti, che rendono difficile camminare speditamente e impossibile correre. E dopo un tumore, una volta riaccesa la luce, tornati a vedere il sorriso dei propri cari, ve ne verrà una gran voglia, credetemi.
Sono tanti...
i pensieri che vengono dopo la lettura. Quel che più mi ha colpito - a parte che tutto mi ha colpito - è l'incapacità culturale nostra di stare vicini a chi è malato. Non per cattiveria ma per una sorta di goffaggine che ci impedisce di essere naturali.
Questa malattia sociale va insegnata in qualche modo, senza aspettare di trovarsi in fila con il numerino in mano.
Grazie Chris!
Devo ringraziare Christian, il suo raccontare mi ha fatto venire voglia di affrontare e "tirare fuori" una mia esperienza.
Durante il servizio obbligatorio allo Stato, sono stato vittima di un avvelenamento. Nel tempo lo supero, ma mi rimane l'obbligo dei controlli di routine. Ormai ventisettenne, durante una di queste "diagnostiche" il medico indugia, prende tempo, troppo... Che c'è? Prende ancora tempo e riguarda gli esiti precedenti: non c'era nulla... prima. Insomma si trattava di una "macchia grande", tridimensionale, a forma di stella su di un rene, ergo: nefrologo con una certa urgenza. Il tempo che mi ha separato dalla prenotazione alla visita è stato breve ma pregno di sensazioni. Pensavo a tante cose e pretendevo solo una cosa: «battezzate con nome e cognome 'sta cosa. Poi ci pensiamo al da fare».
Mi visita e mi fa ricoverare «in fretta» (è più delicato) in ospedale. Diagnosi: accertamenti ecc. ecc. Nel reparto "urologia" ero l'unico che aveva la prostata sana, gli altri erano "quasi" malati routinari da somma di genetliaci.
Fastidiosa l'attenzione del personale verso questo "ragazzo" che, sento dire sottovoce «forse ha un cancro». Non lo avevano mai detto apertamente. Mi sono venuti i brividi, ma ero un po' incosciente perché, non sposato e fidanzato, facevo i conti solo con me stesso.
Ho reagito spronando i medici a identificare "l'inquilino" sul mio rene. Anche perché, oltre che indesiderato, faceva male.
Mi fanno tutti gli accertamenti possibili, anche faticosi e 'sta benedetta "stella" non ha circolazione. Decidono altri accertamenti e, non si sa come, la mia inquilina si sveglia, prende vita e ha circolazione sanguigna. Mi guardano come un fenomeno da baraccone e mi propongono un "piccolo intervento" per vedere di cosa si tratta, da vicino. «E' pericolosa?» La risposta un po' balbettata è un «non dovrebbe». Bene, grazie e dimettetemi.
Questa esperienza mi ha cambiato e, soprattutto, ho assaggiato un sapore diverso. Mi è servito per cambiare atteggiamento verso chi è stato ed è meno fortunato di me. Ho imparato che è la comprensione e non la pietosa accondiscendenza che aiuta chi è nei guai. La vicinanza, anche senza tante parole, è utile. Ricordo un caro amico che non c'è più, che faceva i numeri a colori per venire a trovarmi tutti i giorni due volte al giorno. Mi portava "borsate" di allegria e di voglia di reagire.
Ne ho anche messa un po' da parte, per i momenti difficili.
Grazie, Roberto...
penso che anche a questo serva il blog, quando si appuntano storia di vita vissuta che ci arricchiscono reciprocamente.