blog di luciano

La politica guerriglia

Vivono in città stravolte dalla cementificazione e dall’inquinamento, dove la vita è diventata impossibile, e poi - malgrado la loro grama condizione cittadina su cui non sempre si mobilitano - con uno scatto di orgoglio firmano petizioni contro una pista di sci sul ghiacciaio, che in gran parte non sanno neppure dove sia. Lo fanno per qualunque cosa li infastidisca, immaginando una montagna disneyana, in cui questi montanari che ci vivono sono una “rottura” che turba la Natura. Lassù dovrebbe essere un luogo selvaggio, senza questi Homo Sapiens alpini che “rompono”.
Molti in questo loro estremismo sono influenzati dagli esperti certificati della montagna, di cui - quando leggi le storie personali - ti chiedi come diavolo abbiano fatto a riciclarsi dalle loro vecchie radici protestatarie sessantottine e post sessantottine. Queste eredità contestatarie li hanno trasformati a pieno in guru delle vette e dintorni. Loro hanno sempre ragione e ha torto chi la montagna la vive davvero. E certo la grave colpa ce l’abbiamo nell’aver lasciato spazi a chi piano piano si è impadronito di argomenti su cui, sproloquiando, sono ormai diventati degli intoccabili in forma di oracoli. La logica: imporre regole e indicare programmi da confusi battitori liberi, il cui leitmotiv resta quello di essere contro e dire di No.
L’avversario è il buon selvaggio, in primis incarnato nei politici locali, dipinti come speculatori in pectore, interpreti di nuove forme di cretinismo, perché abbacinati dai soldi e dal desiderio di stravolgere i propri luoghi natii. Persone regolarmente scelte in democratiche elezioni che sarebbero così stupide da segare il ramo su cui sono sedute.
Torniamo alle petizioni, perché così scrivendo mi sono fatto già qualche nemico in questa combriccola di professori che spiegano alle popolazioni cosa debbano fare nel seguire quanto loro vogliono. Quando si scatena la polemica delle truppe si va avanti come primo attacco con le petizioni militanti.
Ma si sa che questa della petizione e della firma sono come un’arma spuntata, la cui logica va svelata. Per altro è possibile che tanti dei firmatari facciano parte della vasta platea di chi non vota più alle elezioni, ma per contro sono iscritti a Change.org (sigh!).
Una piattaforma che comunque declina responsabilità sulla raccolta firme con formule del tipo “Le petizioni e le campagne su Change.org rappresentano le differenti opinioni di milioni di persone. Non ci assumiamo la responsabilità per le loro opinioni, né monitoriamo i contenuti sotto il profilo della rispettiva legalità o esattezza”.
Sito aperto, dunque democratico, ma le clausole di sgravio da qualunque implicazione dimostrano che non si escludono rischi di tracimazione…
Una firma non si nega a nessuno, si potrebbe dire e verrebbe voglia di rispondere pan per focaccia a certi moderni Soloni con un profluvio di petizioni sulle loro questioni.
Ma proprio le le petizioni, ormai allargatesi a dismisura su qualunque argomento dello scibile umano, crollano sotto il peso di un loro utilizzo in eccesso sino a sfiorare di tanto in tanto il comune senso del ridicolo.
È bene in più ricordare nell’occasione la magia moltiplicatrice delle scatole cinesi, frutto di certi militanti a tempo pieno che nascondono dietro vesti candide l’animo da guastatori da guerriglia mediatica e pure populista. È una piccola falange macedone, assolutamente minoritaria alle elezioni, che però ha capacità miracolistica di moltiplicare pani e pesci con una guerriglia mediatica che ne amplifica le forze. Per cui, quando orchestrano campagne, usano un effetto domino: un gruppo comincia e si chiama A, si aggiunge B con diversa denominazione e più o meno gli stessi componenti, che lasciano a loro volta il testimone al Comitato di sodali denominati C e poi arriveranno D, E, F, ma sono sempre le stesse facce con cappelli diversi.
Intanto in Consiglio regionale spuntano la force de frappe rossoverde (due) con interrogazioni, interpellanze e mozioni e gli amici giuristi preparano pareri pro veritate (la loro…) e non manca mai chi sceglie le denunce di vario genere nelle differenti giurisdizioni, perché la via giudiziaria ha un effetto di lunga durata per via dei tempi della Giustizia e questo tiene in caldo le polemiche.
Un meccanismo ben oliato che trasforma nani politici in giganti, agevolati da raffiche di comunicati stampa con giornalisti che - specie se amici - non tengono conto di criteri proporzionalistici e pubblicano, senza forma alcuna di contraddittorio, quanto scritto con ripetitività assillante. Così grida isolate sembrano cori poderosi grazie all’accurata propaganda da agit-prop.
Penso che a questa macchina infernale non ci si debba assuefare e anzi si debbano contrastare queste azioni abilmente concertate in una logica di perenne e diuturno attacco.
“Non ti curar di loro…”: lo abbiamo detto spesso e invece credo sia ora di disvelare in modo sistematico ai cittadini le attività e le informazioni distorte che rischiano di stravolgere la realtà, lordando l’immagine di comunità intere.

Il silenzio delle campane

“Convoco, signo, noto, compello, concino, ploro: arma, dies, horas, fulgura, festa, rogos.
Io raduno, segno, noto, stimolo, canto, compiango: le guerre, i giorni, le ore, i temporali, le feste, gli incendi.
(Iscrizione su una campana)”

Leggo questa storia delle campane di Fontainemore, paese di montagna e, comunque la si giri, mi colpisce ma non mi stupisce. Mi sembra significativa dell’aria dei tempi in cui in molti casi si sfalda l’aspetta comunitario, che è fatto di tradizioni del passato. Fra queste figura il tempo scandito dai campanili, di cui siamo eredi e a nostra volta dovremmo trasferire la profonda ragione culturale e non solo di fede a chi verrà.
Ha scritto il monaco Enzo Bianchi: “Povere campane: da linguaggio comune, da strumento di comunicazione eccezionale, da «difensori civici», quando non sono scomparse del tutto o ridotte al silenzio, vengono trascinate sul banco degli imputati per inquinamento acustico!”.
Riassumo in questo filone quest’ultima storia che colpisce ed è avvenuta, come dicevo in premessa, nel paese della Valle del Lys. Dapprima c’è stato un divieto allo scampanio notturno delle campane della chiesa parrocchiale, ottenuto dalle autorità ecclesiastiche in risposta alle richieste di un recente residente che lamentava di essere disturbato dal loro ripetuto suono, che gli impediva di dormire. Ora - se ho ben capito - la stessa persona vorrebbe limitarne all’essenziale l’uso anche di giorno per via dei suoi turni di lavoro, che prevedono anche un suo eventuale sonno diurno. Insomma: campane à la carte, come desidera il signore. Certo il suo diritto a dormire va contemperato con il radicamento delle campane nella coscienza popolare, ma ci vorrebbe modus in rebus e non la richiesta così reiterata di silenziare...
Par di capire, tuttavia, che si tratti di una posizione solitaria, dimostratasi comunque efficace sino ad ora e la battaglia forse diventerà persino giudiziaria. Spiace che questo avvenga e trovo che sia un errore ogni demonizzazione (scusate il gioco di parole) di quelle campane, che suonano non solo nel Capoluogo, ma nelle diverse frazioni di Fontainemore dotate di quelle cappelle di frazione che sono il segno di una ramificata devozione popolare
Ricorda in un suo libro sul Medioevo Johan Huizinga: “C’era un suono che riusciva sempre a sovrastare tutto il fragore dell’esistenza affaccendata e che, per quanto disordinato e tuttavia mai confuso, sollevava temporaneamente ogni cosa in una atmosfera di ordine: il suono delle campane. Le campane erano nella vita di tutti i giorni come spiriti benigni ammonitori che, con voce familiare, annunciavano ora lutto, ora gioia, ora riposo, ora ansia, ora chiamavano a raccolta, ora esortavano”.
Vale la pena di ricordare - lo fa il sito turistico della Regione Valle d’Aosta- di come la parrocchia attuale sorga laddove ci fu una prima chiesa, da cui potrebbe persino derivare il toponimo che dà il nome al Comune: Fontainemore: “La tradizione dice che nel 543 il monaco San Mauro, attraversando il colle della Barma, giunse da Oropa in un minuscolo paese della Valle del Lys. Qui si mise a pregare nella piccola piazza, da dove sgorgò una vena d’acqua. Egli esortò la popolazione a edificare una cappella in onore di Sant’Antonio Eremita, cosa che avvenne infatti nel VII secolo. E’ così che fu dato al paese il nome di “Fontaine Maur” Fontainemore, per ricordare il Santo e la fonte”.
Che chiunque si trovi ad abitare in questo paese lo sappia e sopporti le campane per il loro significato che va al di là del semplice suono.

Parole in politica

La politica italiana concentra, per responsabilità dei politici e dei commentatori che se ne occupano, determinati periodi a parole specifiche. Facile immaginare che la più gettonata in questa stagione sarà “premierato”. Il Governo Meloni, motu proprio in una logica dirigista e autocentrata (la Meloni pensa al suo futuro…), ha lanciato una svolta presidenzialista che non stupisce e su cui avrò modo di esprimermi quando la riforma approderà alla discussione parlamentare.
Questa storia delle parole mi ha sempre appassionato e noto con piacere che ormai si usa in modo diffuso quello stesso metodo che molti di noi usavano – io lo facevo per l’Università – con schemini riassuntivi, oggi maturati in nuove modalità espressive. Ad esempio il Graphic Recording, che una società che se ne occupa per seminari, conferenze e – beccatevi l’inglese – per speech e talk così definisce: “Le idee espresse da uno speaker vengono amplificate a beneficio del pubblico grazie alla loro visualizzazione in tempo reale, sketchandole su grandi superfici di carta o con la proiezione di un disegno digitale”.
Confesso che sketchandole non so bene cosa significhi, ma immagino che abbia a che fare con sketch nel senso di schizzo, disegno.
Mi ha fatto sorridere ricordare quanto scritto per Treccani alcuni anni fa da Michele A. Cortelazzo, che fotografava termini significativi, che hanno segnato la politica italiana e ne scrisse Enrico Letta, dimostratosi nel tempo migliore come politologo che come politico: “Vaffa, rottamazione, ruspa. Tre parole, tre progetti politici a declinarle, tre leader forti a incarnarle: Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini». Si tratta, secondo quanto commenta Letta, di messaggi elementari, ma di successo, che distruggono una regola fondamentale del confronto politico democratico: il riconoscimento reciproco delle forze politiche. «Rivolgersi all’avversario, quale che sia, evocando il vaffa, volendone fare rottami o minacciando di usare la ruspa, sottintende, nemmeno troppo indirettamente, l’intento opposto: la piena delegittimazione. È, dicevo, un fenomeno inedito nella storia repubblicana»”.
Ancora oggi, specie su rottamazione, c’è chi ancora indugia e più o meno risuona quanto disse, anni fa, proprio Renzi, che fu poi, malgrado l’età, abbastanza…rottamato.
Lo cita Cortellazzo: “L’uso di Renzi della parola rottamazione (ed affini), risale almeno al 2010, quando l’allora sindaco di Firenze la utilizza in un’intervista a Umberto Rosso apparsa il 29 agosto nelle pagine fiorentine di «Repubblica»: «Dobbiamo liberarci di un'intera generazione di dirigenti del mio partito. (…) Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi». In quei mesi, Renzi utilizza tutta la famiglia lessicale legata al verbo rottamare: per esempio, pochi mesi dopo (5 novembre 2010), dice a Marco Odorisio del «Corriere della sera»: «Capisco che i tacchini non manifestino grande entusiasmo per il Natale, e che qualche rottamando si sia risentito. Ma io parlavo di rottamazione delle carriere politiche, mica delle persone».
Il termine resta brutto e nacque negli anni della motorizzazione in Italia e dunque nei gloriosi anni Sessanta ed era – lo ricorda sempre lo stesso autore per Treccani - ‘raccogliere rottami di metallo per riutilizzarli in fonderia’ e poi, nel senso più particolare di ‘portare a demolire un’auto vecchia e inquinante’; mentre è degli anni Novanta la diffusione del significato, ancora più specifico, di ‘favorire la demolizione di auto vecchie e inquinanti, concedendo un incentivo economico, pubblico o privato, per l’acquisto di auto nuove’ (e da qui ulteriori estensioni nell’ultimo ventennio, in riferimento a diversi tipi di sanatorie a pagamento, come la rottamazione delle cartelle esattoriali, per quella che ufficialmente si chiama «definizione agevolata delle pendenze fiscali»).
Spiega Cortellazzo: “Il salto semantico fatto fare da Renzi è stato quello di attribuire rottamare e rottamazione non più a cose o entità astratte e collettive, ma a persone. Certo, come abbiamo visto, con l’esplicita sottolineatura del fatto che intendeva parlare delle carriere politiche e non delle persone. Ma ben presto, soprattutto nei giornali, rottamare è stato proprio riferito alle persone.
Resto convinto che ci voglia rispetto per le persone e che il passaggio delle competenze deve avvenire con un’alleanza fra le diverse generazioni. Il resto rischia di essere solo retorica con uno scopo preciso: liberarsi di avversari per farsi spazio.

Parole in politica

La politica italiana concentra, per responsabilità dei politici e dei commentatori che se ne occupano, determinati periodi a parole specifiche. Facile immaginare che la più gettonata in questa stagione sarà “premierato”. Il Governo Meloni, motu proprio in una logica dirigista e autocentrata (la Meloni pensa al suo futuro…), ha lanciato una svolta presidenzialista che non stupisce e su cui avrò modo di esprimermi quando la riforma approderà alla discussione parlamentare.
Questa storia delle parole mi ha sempre appassionato e noto con piacere che ormai si usa in modo diffuso quello stesso metodo che molti di noi usavano – io lo facevo per l’Università – con schemini riassuntivi, oggi maturati in nuove modalità espressive. Ad esempio il Graphic Recording, che una società che se ne occupa per seminari, conferenze e – beccatevi l’inglese – per speech e talk così definisce: “Le idee espresse da uno speaker vengono amplificate a beneficio del pubblico grazie alla loro visualizzazione in tempo reale, sketchandole su grandi superfici di carta o con la proiezione di un disegno digitale”.
Confesso che sketchandole non so bene cosa significhi, ma immagino che abbia a che fare con sketch nel senso di schizzo, disegno.
Mi ha fatto sorridere ricordare quanto scritto per Treccani alcuni anni fa da Michele A. Cortelazzo, che fotografava termini significativi, che hanno segnato la politica italiana e ne scrisse Enrico Letta, dimostratosi nel tempo migliore come politologo che come politico: “Vaffa, rottamazione, ruspa. Tre parole, tre progetti politici a declinarle, tre leader forti a incarnarle: Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini». Si tratta, secondo quanto commenta Letta, di messaggi elementari, ma di successo, che distruggono una regola fondamentale del confronto politico democratico: il riconoscimento reciproco delle forze politiche. «Rivolgersi all’avversario, quale che sia, evocando il vaffa, volendone fare rottami o minacciando di usare la ruspa, sottintende, nemmeno troppo indirettamente, l’intento opposto: la piena delegittimazione. È, dicevo, un fenomeno inedito nella storia repubblicana»”.
Ancora oggi, specie su rottamazione, c’è chi ancora indugia e più o meno risuona quanto disse, anni fa, proprio Renzi, che fu poi, malgrado l’età, abbastanza…rottamato.
Lo cita Cortellazzo: “L’uso di Renzi della parola rottamazione (ed affini), risale almeno al 2010, quando l’allora sindaco di Firenze la utilizza in un’intervista a Umberto Rosso apparsa il 29 agosto nelle pagine fiorentine di «Repubblica»: «Dobbiamo liberarci di un'intera generazione di dirigenti del mio partito. (…) Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi». In quei mesi, Renzi utilizza tutta la famiglia lessicale legata al verbo rottamare: per esempio, pochi mesi dopo (5 novembre 2010), dice a Marco Odorisio del «Corriere della sera»: «Capisco che i tacchini non manifestino grande entusiasmo per il Natale, e che qualche rottamando si sia risentito. Ma io parlavo di rottamazione delle carriere politiche, mica delle persone».
Il termine resta brutto e nacque negli anni della motorizzazione in Italia e dunque nei gloriosi anni Sessanta ed era – lo ricorda sempre lo stesso autore per Treccani - ‘raccogliere rottami di metallo per riutilizzarli in fonderia’ e poi, nel senso più particolare di ‘portare a demolire un’auto vecchia e inquinante’; mentre è degli anni Novanta la diffusione del significato, ancora più specifico, di ‘favorire la demolizione di auto vecchie e inquinanti, concedendo un incentivo economico, pubblico o privato, per l’acquisto di auto nuove’ (e da qui ulteriori estensioni nell’ultimo ventennio, in riferimento a diversi tipi di sanatorie a pagamento, come la rottamazione delle cartelle esattoriali, per quella che ufficialmente si chiama «definizione agevolata delle pendenze fiscali»).
Spiega Cortellazzo: “Il salto semantico fatto fare da Renzi è stato quello di attribuire rottamare e rottamazione non più a cose o entità astratte e collettive, ma a persone. Certo, come abbiamo visto, con l’esplicita sottolineatura del fatto che intendeva parlare delle carriere politiche e non delle persone. Ma ben presto, soprattutto nei giornali, rottamare è stato proprio riferito alle persone.
Resto convinto che ci voglia rispetto per le persone e che il passaggio delle competenze deve avvenire con un’alleanza fra le diverse generazioni. Il resto rischia di essere solo retorica con uno scopo preciso: liberarsi di avversari per farsi spazio.

No alla bambinizzazione dei cani

Mi sono convinto, guardandomi attorno in altri Paesi, che solo in Italia siamo di fronte ad un fenomeno così esteso di “bambinizzazione” dei cani. Lo avevo usato questo neologismo lo scrittore Michele Serra in una sua intervista, in cui presentava un libro “Osso” per Feltrinelli, in cui racconta la storia di un nonno, di una nipotina e di un cane. Così disse: “La bambinizzazione degli animali domestici, sostitutivi dei bambini che non si fanno più, non mi piace. Le bestie sono bestie ed è il motivo per cui le trovo straordinarie. Dovremmo riscoprire il contatto con il mistero, cani e gatti sono eredi del lupo e della tigre".
Invece è evidente una singolare trasformazione in particolare del cane attraverso una sua umanizzazione (Papa Francesco ha usato questo termine ed è stato aggredito…) non solo affettiva ma persino fisica, che non ha nulla a che fare con l’amore per gli animali domestici che ho sempre avuto e curato. Anzi, dirò di più: ho avuto cani e gatti che mi sono serviti per crescere da bambino a ragazzo e poi da adulto sono stati come membri della famiglia. Sempre rimanendo animali non umanizzati in modo grottesco, stravolgendo nei rapporti la loro natura, mancando così di rispetto alla loro e alla nostra condizione
Ci pensavo in queste ore a Milano di fronte a esempi ripetuti di cani-bambini, ormai diventati la normalità in uno stravolgimento che spaventa.
Ognuno naturalmente può far quel che vuole della sua vita e persino strumentalizzare la vita di animali, cui si fa recitare una parte non loro, violandone di fatto i diritti e la natura nel nome dei nostri interessi.
Ma a maggior ragione ci pensavo nel corso di due visite che sarebbero educative per chi confonde le cose e lo scrivo forse peccando di candore.
La prima è stata al Museo della Scienza e della Tecnica, certo un passo indietro rispetto al mondo digitale in cui viviamo e alle prospettive incredibili dei mondi virtuali ed immersivi come il
Metaverso. Ma la sua fisicità, fatta di oggetti tangibili e dell’evoluzione immaginifica di tecniche di produzione, è sicuramente arricchente anche per bambini ormai abituati a vivere in un altrove e hanno bisogno di adoperare i loro sensi nella realtà. Quel che conta è vedere alla prova la straordinaria capacità innovativa del cervello umano e dei suoi progressi. Capirlo serve anche ad afferrarne il lato oscuro per comprenderlo.
Altro esempio educativo è la Pinacoteca di Brera, che racconta di una ricchezza artistica di straordinario valore. Con il picco di personalità di Leonardo Da Vinci e della sua capacità di spaziare in materie diversissime, esempio I inventore e precursore. Anche in questo caso bisogna far aprire gli occhi alle persone, specie coloro che hanno visioni del mondo vagamente masochistiche.
Sia chiaro: l’umanità ha i suoi torti e lo vediamo, come esempio, negli scenari sanguinosi di guerra e la violenza intrinseca in troppi nostri comportamenti, ma questo non deve far dubitare dell’ingegnosità,dell’intelligenza, della genialità degli esseri umani.
Vorrei per questo, capendo le moltissime ragioni che spingono certe famiglie a rinunciare alla nascita di bambini, che ci fosse un discrimine chiaro tra il mondo animale e noi esseri umani, che pure abbiamo noi stessi una natura animale dentro la Natura nel suo complesso. Ma è indubitabile la progressiva differenziazione dell’essere umano dagli altri animali quale frutto di un lungo processo in cui molti fattori hanno interagito tra loro. Emergono - e mi limito a qualche punto - le particolarità nostre, come il linguaggio articolato, l’intenzionalità condivisa, la capacità di insegnare, il pensiero simbolico e astratto, il progresso culturale, l’autocoscienza.
Siamo complessi, difficili, contraddittori, autolesionisti, litigiosi e via di questo passo.
Ma è bello pensare a quel che ha scritto Vasco Pratolini: “L'uomo è come un albero e in ogni suo inverno levita la primavera che reca nuove foglie e nuovo vigore”.

L’antisemistismo svela i finti democratici

Non si può nella vita tenere il piede in due scarpe, cari antisemiti di una Sinistra estrema o del sedicente Progressismo (quelli di stampo neofascista mi stupiscono meno, avendo l’odio per gli ebrei nel DNA).
Spesso sono gli stessi che celebrano con commozione la Resistenza e fanno grandi proclami sulla Costituzione antifascista e ricordano il giorno della Memoria l’orrore dei lager. Per poi contraddirsi.
Meglio di tutti lo ha ricordato come lezione di vita il grande Mattia Feltri, giorni fa, nella sua rubrica:”Perché a Chicago, durante una manifestazione propalestinese, sono stati aggrediti degli ebrei? Perché sugli usci delle case abitate da ebrei a Varsavia si disegna la stella di David? Perché nei cortei pacifisti romani si dichiara Israele stato nazista e terrorista? Perché i partecipanti agli stessi cortei strappano la bandiera di Israele dalla Fao? Perché nei cortei pacifisti milanesi si chiede di aprire i confini per andare ad ammazzare gli ebrei? Perché nell'aeroporto di Makhachkala, Dagestan, si organizza una caccia all'ebreo? Perché fuori dallo stesso aeroporto un bambino dice di essere andato lì per veder uccidere gli ebrei? Perché una ragazza esibisce un cartello con la stella di David infilata nella spazzatura per far pulizia nel mondo? Perché nelle università americane si inneggia al pogrom di Hamas come igiene mediorientale? Perché a Tunisi si assalta la sinagoga e si dà fuoco ai testi sacri? Perché a Lione la sinagoga viene vandalizzata? Perché a Berlino una sinagoga è colpita da una bomba molotov? Perché i ragazzi di Sydney chiedono la riapertura delle camere a gas? Perché nella metropolitana di New York si scrive di uccidere gli ebrei? Perché in Circassa si sollecita di espellere tutti gli ebrei? Perché a Stanford un professore mette gli studenti ebrei in un angolo? Perché a Seul si inneggia alla soluzione finale contro gli ebrei? Perché nessuno si sogna né si sognerebbe mai (e ci mancherebbe) di dire o fare altrettanto con i palestinesi? Perché con gli ebrei sì e coi palestinesi (e ci mancherebbe) no? Perché, se non è precisamente antisemitismo? Il nostro solito, vecchio, mai scomparso antisemitismo?”.
Sull’Express Anne Rosencher impicca l’aggregazione della Sinistra francese (dove sulle case degli ebrei sono state dipinte stelle di David!) ormai antagonista e molto vale per l’Italia: “Depuis quelques jours, des Français ayant voté La France insoumise (LFI) aux dernières élections jurent qu’on ne les y prendra plus. Dans quelle proportion ? Nous verrons vite. Mais le constat s’impose dans les conversations : les ergotages honteux de LFI, qui n’a pas su qualifier de terroriste l’attaque du Hamas contre les civils israéliens, ont sidéré nombre de ses électeurs, quelle que soit leur opinion sur le conflit israélo-palestinien et sur la riposte israélienne. Depuis le 7 octobre, à mesure que les images documentaient l’attaque anti-juifs la plus barbare depuis la Shoah – pogroms, enfants kidnappés, familles massacrées, viols… –, les chipotages et les justifications de la maison Mélenchon ont révélé le pli idéologique de ce mouvement.
Ça n’est pas faute de l’avoir dit ni de l’avoir écrit. Voilà des années que LFI pratique les accommodements avec l’islamisme et l’antisémitisme. Mais il se trouvait encore beaucoup d’électeurs à gauche pour se convaincre que c’était là autant de dérapages isolés, de clins d’oeil tactiques, voire de « maladresses » ; ou que seul le social comptait. Par l’atrocité et l’ampleur des massacres qu’elle s’est employée à minimiser ou à relativiser, la réaction officielle de LFI aura dessillé nombre d’électeurs de bonne volonté. Et cette fois, Jean-Luc Mélenchon ne pourra pas compter sur la mémoire courte de l’opinion ni sur le zapping de l’actualité pour pratiquer sa politique de scandales intermittents. Cette fois, sa faute est historique, indélébile”.
La direttrice striglia poi il Partito Socialista francese che balbetta di fronte a certe posizioni odiose del leader della Sinistra unita francese.
Il passaggio conclusivo dell’ editoriale è memorabile: ”Leurs explications emberlificotées (« changer les choses de l’intérieur », « préparer une Nupes sans Mélenchon »…) illustrent à la perfection la citation de Camus : «Il y a toujours une philosophie pour le manque de courage». Il y aura bien un avant et un après 7 octobre 2023 pour la gauche française”.
E per quella italiana nelle componenti che sono simili a Melanchon e compagni.

Le persone scomparse che restano

Ho più volte raccontato di come da bambino provassi disagio per le festività di inizio Novembre dedicate ai morti. Questa idea della morte con la quale è già difficile fare i conti a tutte le età, era nell’infanzia una specie di fantasma che mi turbava, applicandolo al pericolo che i miei genitori morissero d’improvviso.
Con il tempo impari che nella morte delle persone non esiste una regola e non c’è una giustizia che colpisca con chissà quale lucida razionalità. Le religioni offrono spiegazioni varie, ma preferiscono spostare la dimensione al dopo di noi e alla speranza ancorata alla fede che ci sarà un domani.
Viene in mente la famosa scommessa del filosofo Blaise Pascal. Secondo il suo ragionamento non si può giungere alla conoscenza dell'esistenza di Dio usando solo la ragione, dunque la cosa saggia da fare sarebbe vivere la nostra vita come se Dio esistesse, perché con una vita del genere noi avremmo tutto da guadagnare e nulla da perdere. Se vivessimo come se Dio esistesse, ed ovviamente per Pascal esiste, guadagneremmo il Cielo. Se non esistesse, non avremmo perso nulla. Se, d'altra parte, vivessimo come se Dio non esistesse, e invece esistesse davvero, allora guadagneremmo l'inferno e la punizione, e perderemmo il Cielo e la beatitudine. Se si soppesano le opzioni possibili, la scelta razionale di vivere come se Dio esistesse è, secondo il ragionamento di Pascal, chiaramente la migliore.
Quel che ne ho ricavato, sin da quando studiavo Filosofia al liceo e poi con qualche esame sulla materia all’Università con altri autori che si occupavano del mistero della vita e del suo contrario, è quanto sia difficile dominare certe questioni così complesse e alla fine ci si debba davvero affidare alla forza speculativa del pensiero umano nelle sue diverse forme. Scegliere una strada a cui credere fa tremare comunque la nostra razionalità di fronte a misteri come la morte.
Passati ormai tanti anni da quando ero bambino e finivo nel giro dei cimiteri, assisto a queste celebrazioni con la convinzione non ipocrita che le persone care, ma anche quelle che non lo sono state e che abbiamo incontrato nel bene e nel male, siano parte di noi.
Ha scritto Marcel Proust meglio di quanto potrei fare io: ”Le persone non muoiono immediatamente, ma rimangono immerse in una sorta di aura di vita che non ha alcuna relazione con la vera immortalità, ma attraverso le quali continuano ad occupare i nostri pensieri nello stesso modo di quando erano vivi”.
Certo esiste una specie di graduatoria, perché non tutte le persone scomparse sono uguali. Alcune tornano spesso nei pensieri, altre arrivano e se ne vanno attraverso un oggetto, un ricordo, un luogo. È una specie di cimitero dentro di noi, che non ha nulla di cupo, perché il tempo addolcisce le cose e smussa gli angoli.
Leggevo giorni fa un’intervista all’anziano regista Pupi Avati, che diceva: ”Sul computer ho una lista di 250 nomi di persone care che mi hanno lasciato: la sera li leggo tutti, li evoco, e li sento venire per aiutarmi a superare le mie angosce”.
Ammesso che sia vero, non so se sarei capace di farlo, mettendolo per scritto. È vero però che mi capita di pensare a Tizio o Sempronio in una sorta di memoria mentale che rievoca momenti della mia vita. Non sempre ciò avviene solo con persone cui ho voluto variamente bene, ma anche con chi ho disprezzato e con chi mi hanno fatto dei torti. La vita non è solo rosa e fiori e la livella,, come Trilussa chiamava l’ineluttabile fine che ci rende tutti uguali, colpisce anche chi meriterebbe solo il nostro oblio e invece torna anche lui nei ricordi che si affollano.
Questa sorta di caotiche presenze è comunque il segno che molti morti per noi restano presenze sino a che noi stessi non lo diventeremo per gli altri.

Macron e la scrittura inclusiva

La mia generazione è stata scossa dalle fondamenta quando è spuntato il fenomeno – ovviamente politicamente corretto – della scrittura inclusiva e cioè dei tentativi di affermare i diritti femminili, che nei testi scritti sarebbero frustrati dallo strapotere del maschile. Tema da affrontare e penso lo si debba fare, a differenza di certe scelte operate, senza stravolgimento della lingua.
Lo abbiamo visto con il genere femminile nelle professioni, che ha un suo perché, anche se poi emergono orrori come “Assessora” o “Direttora” (io sono giornalista e non rivendico giornalisto). Vi è poi la lotta al maschile sovresteso per cui bisogna salutare con “Ciao a tutti e a tutte” per essere equi.
Ma l’idea più balzana si evidenzia in questo elenco, che traggo dal sito Ilmiolibro:
“1) *, l’asterisco: da anni utilizzato soprattutto all’interno di collettivi studenteschi e gruppi socialmente attivi di sinistra. La realizzazione grafica è la seguente: “Car* Amic*”; “Compagn*”; ecc. La pronuncia non è però facilmente definibile, poiché trattandosi di un simbolo non rientra tra i suoni di nessuna delle lingue viventi.
2) @, la chiocciola: soluzione adottata soprattutto in Spagna (e bocciata dalla Real Accademia), ma anche abbastanza di frequente in Italia. La realizzazione grafica è di questo tipo: “Car@ Colleg@”, “Sono tutt@ invitat@”; ecc. Come l’asterisco, anche la @ non ha una sua realizzazione fonetica all’interno di una lingua, ad eccezione dell’at con cui la leggono gli anglofoni, che è comunque difficile da sostituirsi in una pronuncia italiana.
3) ǝ, la schwa: questa e rovesciata di cui si parla sempre più frequentemente permette delle realizzazioni grafiche piuttosto complicate, a causa della sua assenza, per ora, dalle tastiere qwerty e azerty. La realizzazione nello scritto è la seguente: “Signorǝ”; “Benvenutǝ”. A differenza degli altri simboli, la schwa, da sempre utilizzata negli studi linguistici per le trascrizioni fonetiche, ha una sua realizzazione a livello di pronuncia: ovvero un suono indistinto tra la a e la o (esattamente lo stesso fonema prodotto dalle parole troncate in napoletano, come “jammǝ”, “Napulǝ”, ecc.).
4) /, lo slash: al momento, è la soluzione più apprezzata nei testi ufficiali, sebbene all’interno di un testo letterario/saggistico o di un semplice articolo di giornale, genera una grandissima confusione a livello grafico. La realizzazione di questa opzione, infatti, produce risultati di questo tipo “Le/gli invitate/i”; “La/il bambina/o”, ecc. Lo stesso accade nella pronuncia, in cui si dovrebbe sostituire lo slash con o/oppure o ripetere il nome due volte modificandone la desinenza.
5) L’escamotage…ovvero il ricorso a formule alternative e gender-neutral per evitare di infliggere modifiche strutturali alla lingua. Ne sono un esempio l’utilizzo di forme non marcate in italiano come: “gente”, “persone”, “utenza”, ecc. Non si tratta di una vera e propria alternativa, dal momento che si tratta di formule già previste dall’italiano standard, ma richiede comunque un momento di riflessione preliminare per riuscire a eludere il vincolo della marca di genere”.
Ora, come una luce negli eccessi micragnosi che nulla hanno a che fare sull’indiscutibile parità uomo e donna (ma oggi dobbiamo anche a complicare le cose e cioè chi pone fra i due), si è espresso il Presidente francese, come riporta Le Monde: “Emmanuel Macron a appelé lundi 30 octobre à « ne pas céder aux airs du temps » s’agissant de la langue française, et à « garder aussi les fondements, les socles de sa grammaire, la force de sa syntaxe ». «Dans cette langue, le masculin fait le neutre. On n’a pas besoin d’y ajouter des points au milieu des mots, ou des tirets ou des choses pour la rendre lisible», a-t-il ajouté, assénant, lors d’un discours prononcé à l’occasion de l’inauguration de la Cité internationale de la langue française, à Villers-Cotterêts, que la langue française « forge la nation ».
 Le chef de l’Etat s’exprimait alors que l’interdiction de certains éléments de l’écriture inclusive fait l’objet d’une proposition de loi examinée au Sénat”.
In effetti il Senato, tratto dallo stesso giornale, ha votato il testo, come sintetizza France Info: “Les sénateurs ont adopté à 221 voix contre 82 une proposition de loi de la droite visant à "protéger" le français "des dérives de l'écriture dite inclusive". Elle prévoit de bannir cette pratique "dans tous les cas où le législateur (et éventuellement le pouvoir réglementaire) exige un document en français", comme les modes d'emploi, les contrats de travail, les règlements intérieurs d'entreprise. Sont également visés les actes juridiques, qui seraient alors considérés comme irrecevables ou nuls si le texte venait à devenir loi.
Le texte de la sénatrice Les Républicains Pascale Gruny interdit aussi les "mots grammaticaux" constituant des néologismes tels que "iel", une contraction de "il" et "elle", ou "celleux", contraction de "celles" et "ceux". "L'écriture inclusive affaiblit la langue française en la rendant illisible, imprononçable et impossible à enseigner", a martelé l'élue, soutenue par son collègue Etienne Blanc, dénonçant une "idéologie mortifère".
Ma il Governo francese non sembra del tutto convinto per un eccesso di severità della legge e la Sinistra francese – di questi tempi sotto scacco dell’ala estrema – protesta vibratamente. Ora toccherà affrontare il tema all’Assemblée Nationale, se la normativa sarà messa all’ordine del giorno.
Può essere che il Senato francese estremizzi, ma la logica sembra essere – in casi come questo - estremismo contro estremismo…
 

Sorridere con Halloween

Anche oggi, come capita ogni anno, ci dovremo sorbire le reprimende di chi non sopporta Halloween e fin lì tutto legittimo, perché nessuno obbliga nessuno a giocare ai travestimenti mostruosi, alle zucche illuminate, alle ragnatele sospese e ai pipistrelli che volano.
Diverso, invece, è chi usa l’occasione per spiegare ai bambini che Halloween non va bene e che anzi si finisce per svilire la celebrazione dei Morti ricordata dal cristianesimo che, non a caso, si svolge nel medesimo periodo. Diamo per scontato, prima dia parlarne, almeno due cose. La prima: indubbio che Halloween è avvolta da una forte cappa di interessi commerciali, che avvolgono per altro qualunque altra occasione o festività e perciò meglio non fare gli schizzinosi. La seconda: non è colpevolizzando bambini e genitori che si fa un’operazione valida per ricordare le proprie tradizioni da rispettare, che è altro argomento.
Ha scritto Elisa Belotti su Thesubmarine: “L’accusa principale che viene rivolta ad Halloween è di essere una festa estranea alla tradizione cattolica italiana. Ma c’è chi si spinge più in là e le associa al satanismo, basandosi sulla convinzione che i costumi utilizzati e i simboli legati alla morte avvicinino a un presunto elemento demoniaco. Si giunge addirittura a paventare “conseguenze anche gravi sul piano spirituale, ma anche sul piano dell’integrità psicofisica” dovute al contatto con il mondo dell’occultismo, come sostiene padre Francesco Bamonte, presidente dell’Associazione Internazionale Esorcisti.
Mi pare un eccesso, pensando alle brutture che il mondo contiene, senza l’ombra di un sorriso: “In realtà il nome stesso di Halloween mostra un lato spirituale comune al cristianesimo. Hallow e-en è infatti la forma contratta di All Hallows Even, cioè vigilia di Tutti i Santi. “Infatti, originariamente era celebrata in primavera,” specifica la teologa Sandra Letizia, “la festività di Tutti i Santi fu probabilmente spostata al primo giorno di novembre per facilitare la conversione dei pagani che vivevano nell’attuale Regno Unito e che in quel periodo dell’anno celebravano il capodanno Celtico, Samhain — letteralmente “fine dell’estate.” In origine si trattava quindi di una festività celtica che segnava la conclusione dell’estate e rimarcava il movimento ciclico in cui alla vita, simboleggiata dal rigoglio di una stagione, segue la morte”.
Ben sappiamo come il nostro cattolicesimo abbia fatto la scelta vincente di impastare la propria dottrina, appoggiandosi anche su usi, costumi e tradizioni preesistenti e lo ricordo come elemento positivo.
Scrive don Andrea Lonardo, direttore dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma: «I cristiani – grandi maestri della gioia e del festeggiare – inventarono la festa dei santi (e la commemorazione dei morti) per celebrare il fatto che la morte era vinta e che il duro male era ormai sconfitto. Di questo dobbiamo parlare ai bambini, spiegando il nome Halloween». Prosegue don Lonardo, «i celti cattolici (gli antichi irlandesi) iniziarono a celebrare l’illuminazione della notte, le zucche che mettevano in fuga il male, il cielo che visitava la terra, i dolcetti che i morti portavano ai loro discendenti come segno del loro amore sempre presente e della loro intercessioni per i loro cari presso Dio, la sconfitta del male»
Il frate scrittore Alberto Maggi aggiunge: “Perché i super cattolici hanno paura del riso? Per costoro, che indubbiamente vivono una loro spiritualità, questa s’intende come qualcosa contrapposta al corpo, alla carnalità, alla materia, qualcosa che entra in conflitto con la felicità umana, quasi che per essere spirituali occorra rinnegare una parte importante ed essenziale della propria vita, quella dei sensi e del piacere. La spiritualità per costoro sembra relegata al mondo dello spirito e non della materia, del divino e non dell’umano, del religioso e non del profano, dell’eterno e non del temporale”.
Insomma: essere tolleranti vuol dire anche capire il successo di Halloween non vivendolo “contro”.

L’ultimo e decisivo tratto

Ora mi auguro che la parte finale non si dimostri inutilmente lunga. Come scelta annunciata, in questi ultimi periodi, non ho più scritto della ormai celeberrima “réunification” (so che il termine non piace a tutti, ma ha almeno il pregio di dire che cosa si vorrebbe fare).
Questo sacrificio da parte mia, che amo dire pane e pane e vino al vino e ritengo che la chiarezza anche brusca resti un pregio, l’ho fatto dopo aver notato un rallentamento e certe curve inutili in una vicenda naturale, che mi pareva semplice nella sua necessità.
Ho sempre rispettato dubbi e mal di pancia di chi chiedeva tempo e pazienza e lo faceva per saggezza del tipo “La gatta frettolosa fa i gattini ciechi”. Ho apprezzato meno chi manifestava perplessità più barocche e meno propositive, ma ci sta anche questo in politica, dove la razionalità si mischia legittimamente a sentimenti, passioni e ambizioni, che la rendono - come la boxe e per chi è onesto - una “noble art”.
Ora spero che, chiusa positivamente l’assise unionista, si entri con l’apposita Commissione e giusto impegno verso il pilotaggio dell’ultima fase, che mi auguro si esaurisca in tempi rapidi, perché ora il tempo stringe e ogni forma di decantazione sarebbe inutile, quando il solco è stato tracciato.
Il mondo gira vorticosamente e ci aspettano in questo mondo cui apparteniamo più burrasche che cieli azzurri, per cui bisogna agire. So bene che c’è chi vorrebbe derubricare a poca roba gli sforzi nobili del mondo autonomista nel ricomporre il puzzle attuale. Non sono affatto “baruffe chiozzotte” come da celebre titolo di una commedia scritta da Carlo Goldoni, che è diventato modo di dire. Si tratta di insinuazioni da parte di chi non ci ama e alimenta polemiche pretestuose e qualcuno ci casca. Milito personalmente fra coloro che pensano che non esistano alternative allo stare assieme in un solo movimento autonomista. Questo movimento non può che essere per ragioni storiche e di buonsenso l’Union Valdôtaine, specie per chi anche andando altrove era - e io mi sento fra questi - rimasto saldamente sul terreno autonomista o meglio federalista. Per cui non mi sono mai sentito per così dire un “fuoriuscito”, che da vocabolario è chi - termine nobile ai tempi del Risorgimento e della Resistenza - si trova a dover scappare all’estero per motivi politici dal Paese di appartenenza.
Ma tutto questo ormai è passato e abbiamo nuove tappe davanti. Le divisioni vanno sepolte e l’unità di intenti è ovviamente temuta dai molti nemici esterni ed interni che ci combattono, perché non credono al valore della nostra Autonomia e alla forza della nostra identità, come ben visibile dai loro comportamenti e da un uso della politica dalla logica inquisitoria e giudiziaria, mai di quella propositiva e di confronto.
Bisogna rimettersi assieme, guardare avanti e questo non vuol dire rinnegare la storia di ciascuno di noi e non riconoscere torti e ragioni, senza indugiare. Le vicende politiche e personali vissute, ormai dietro le spalle. Esiste ormai un interesse comune che dev’essere il collante per difendere la Valle d’Aosta e motivare la nostra comunità di cui siamo espressione per una guida sicura verso il futuro.
Troppi incapaci e dilettanti che vedo in giro aspettano di prendere in mano al posto nostro la Valle per spingerla verso il baratro di una normalizzazione politica nei ranghi della confusa partitocrazia italiana.
Non dobbiamo consentire che ciò avvenga e per questo bisogna lavorare per il futuro. Un disegno coerente, che parte dal lavoro fatto e da dossier delicati da affrontare, che metta assieme le migliori energie della piccola comunità valdostana con una sfida immediata. Si tratta di sconfiggere la mancata partecipazione che si manifesta non solo con l’affermazione dell’astensionismo al voto, ma anche con una crisi più generale della democrazia e dell’impegno civile che può essere letale per un piccolo popolo come quello valdostano (non ripeto nulla sulla letale crisi demografica). Uscire dal proprio particolare e partecipare ad un dibattito sulle mille cose da fare è una grande e difficile ambizione o meglio una grande speranza per un Movimento autonomista pluralista e intergenerazionale. Già oggi, più che mai, bisogna capire che cosa sarà di tutti noi.

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