blog di luciano

Meloni sfugge ai giornalisti

È sempre stato interessante per me avere due cappelli. Quello del giornalista, visto che l’ho sempre considerata una passione sfociata in quello è sempre stato il mio lavoro, che ho cominciato a fare nel 1978, assunto come praticante alla Rai nel 1980 e poi diventato professionista e lo sono da più di 40 anni. E l’altro cappello è quello di politico e in questo caso gli anni, compresi quelli non elettivi, sono 35.
Per cui ho sempre trovato naturale in quest’ultima attività avere un rapporto con i miei colleghi giornalisti della massima trasparenza e non mi sono mai sottratto alle loro richieste di qualunque genere. Così come - lo state verificando anche ora - ho continuato a scrivere quel che penso su argomenti disparati ed è uno spazio di mia libertà di pensiero, che talvolta mi è valso qualche rimprovero di chi dice "ma dovevi proprio scrivere di quella cosa?”. Dovevo farlo.
Mi incuriosisce molto il fatto che sempre più esponenti politici sfuggono a domande e richieste dei giornalisti, usando direttamente i Social ed evitando le intermediazioni a discapito dei rapporti usuali con la stampa.
Ne scrive Andrea Garibaldi sul sito Professione Reporter di cui é Direttore, dopo una lunga e prestigiosa carriera, con la (il) Premier Meloni nel mirino.
Dice Garibaldi: ”Giorgia Meloni è Presidente del Consiglio in Italia da dieci mesi, e ormai si può dire: c’è un suo stile nei rapporti con l’informazione. Stile che tende al rapporto diretto con gli elettori e al ridimensionamento dei giornalisti.
Un problema, prima di tutto, per i giornalisti stessi, che dovrebbero approntare contromisure.
Meloni non inventa nulla, mette in atto ciò che si chiama “disintermediazione”, la fine del ruolo di mediazione dei giornalisti fra politici e pubblico (nell’interesse del pubblico). Avviato e facilitato dall’avvento dei social. Ma Meloni, più dei suoi predecessori, affonda i colpi”.
La diagnosi è impietosa: ”L’idea di fondo sembra essere quella di guidare l’informazione sull’opera di governo, scegliere, stabilire. Tempi e luoghi. Non un confronto serrato e paritario fra “quarto e quinto potere” -stampa e tv- e governanti, bensì una tendenza continua al controllo di questi ultimi su quelli”.
Racconta a questo proposito una modalità recente che mi era oscura, pur avendo letto le interviste. Spiega Garibaldi: ”L’ultimo episodio vede però ancora i giornalisti sulla scena. Dopo molte insistenze dei giornalisti, Palazzo Chigi cede a un format “tradizionale”. E’ il 14 agosto quando Corriere della Sera, Repubblica e Stampa pubblicano in contemporanea un’intervista a Meloni che è composta dalle stesse domande e dalle stesse risposte, riformulate nell’ordine e nello stile di ciascun intervistatore. Meloni è a Ceglie Messapica, in Puglia, in un resort che ha scelto per le sue prime vacanze da presidente del Consiglio. I tre principali quotidiani italiani hanno spedito loro inviati sul luogo, come si fa da molti anni (genere: “le vacanze del Premier”). Meloni è blindatissima. Dalle pareti del resort non escono notizie. Arriva però l’ok per l’intervista collettiva. I tre inviati (Monica Guerzoni, Emanuele Lauria e Francesco Olivo) non sono ricevuti “a palazzo”, ma si collegano via telefono, per oltre mezz’ora, con le domande concordate fra loro. Una modalità che rispetto all’incontro di persona tiene fuori ambientazione, umori, mimica, toni. Ma è pur sempre una fonte di informazioni di prima mano. E Meloni non chiede di rileggere, come ormai fanno anche politici di terza fila”.
Segue poi un’accurata ricostruzione di questa scelta meloniana dagli esordi del suo Governo sino ad oggi:
“E’ dal 4 dicembre 2022, poco più di un mese dopo la successione a Mario Draghi, che si vede il sentimento di Meloni -e dei suoi spin doctors- nei confronti dell’informazione. Su Facebook appaiono “Gli appunti di Giorgia”, conversazione -a senso unico- con gli utenti sugli atti di governo. Il 31 gennaio 2023, dopo cento giorni a Palazzo Chigi, viene prodotto e diffuso (31 gennaio 2023) sui social un video di 7 minuti intitolato “Cento azioni in cento giorni”, in cui Meloni illustra, senza contraddittorio, le sue prime realizzazioni.
Il 9 di marzo a Cutro, dove sono morti annegati 100 migranti, Meloni affronta i giornalisti per la prima volta con il suo nuovo portavoce Mario Sechi. Succede un fatto curioso. Irritata dalla domanda di un cronista, Meloni chiede: “Qualcuno pensa davvero che il governo o le istituzioni italiane non hanno fatto qualcosa che avrebbero potuto fare?”. Cioè: fa una domanda, anziché dare risposte”.
Ma non basta: “Il 1° maggio arriva il piano sequenza girato a Palazzo Chigi, con Meloni che spiega il taglio ai costi del lavoro e alla fine entra nella sala del governo riunito. Tre minuti e 34 secondi, pronto ed efficace per tv e siti.
Il 7 giugno a Tunisi Meloni vede il presidente Saied, proprio per affrontare il tema migrazioni. Alla fine parla per nove minuti e dodici secondi davanti a un microfono e a un leggìo, alcuni fogli di carta, perfino un flash, fra due portoni di legno e con due vasi di fiori in un corridoio sullo sfondo. Sembra che si rivolga agli spettatori, ma non è così, è una finta conferenza stampa, la sala è vuota, i giornalisti non ci sono. L’appuntamento con i rappresentanti dell’informazione in ambasciata è stato annullato “per il prolungarsi degli incontri con le istituzioni tunisine”. I nove minuti e dodici secondi di monologo finiscono su tutti i canali social di Meloni.
Il 16 luglio Meloni presenta a Termini (con il ministro Sangiuliano) il treno Roma-Pompei. Cinquanta giornalisti -italiani e stranieri- vengono chiusi in un vagone, non possono fare domande, fotografare, filmare. Compresi quelli televisivi, che riceveranno le immagini da Palazzo Chigi. Lo stesso giorno Meloni rivola a Tunisi con Von Der Leyen, Presidente della Commissione europea, e il Premier olandese Rutte, per firmare il memorandum Ue-Tunisia sui migranti. Per i giornalisti, nessuna possibilità di fare domande.
Il 19 luglio Meloni è a Palermo, per ricordare Borsellino. Non partecipa alla fiaccolata, ma depone una corona all’interno della caserma Lungaro, ufficio scorte. I giornalisti vengono invitati ad accreditarsi, poi ricevono un messaggio: la stampa non è ammessa alla cerimonia. E’ la prima volta, nella storia della ricorrenza”.
Garibaldi poi, in modo analitico, si occupa della seconda modalità comunicativa, che le consente di sfuggire alle domanda/risposta con i giornalisti, che definisce la “politica epistolare” e cioè le lettere inviate e poi pubblicate sui giornali, evitando il confronto che immagino sia considerato scomodo.
L’apoteosi del monologo soliloquio la su raggiunge quando: ”Il 9 agosto, gli “Appunti di Giorgia” vanno in onda per 27 minuti su Rainews24, senza interventi della redazione. Per questo il Comitato di redazione di Rainews24 protesta. Meloni parla delle scelte del governo su reddito di cittadinanza, tassa sugli extraprofitti delle banche, giustizia, salario minimo. “Una scelta inopportuna -scrive il Comitato di redazione di Rainews24- in quanto sminuisce il ruolo di verifica e di mediazione che deve svolgere una redazione giornalistica”. Lo stesso Sindacato aveva protestato a febbraio per la stessa ragione…
Insomma: strano modo di agire, sintomo in fondo della preoccupazione del faccia a faccia con i giornalisti, che è invece segno di buona salute di una democrazia.

Cremlino insanguinato

Chissà se l’ennesimo assassinio in Russia servirà come lezione agli ammiratori di Putin sinceri o prezzolati che ci sono in Italia e consentirà loro di liberarsi da certi fardelli e di dire una volta per tutte che siamo di fronte ad un dittatore e ad una dittatura.
Certo l’ultimo ucciso, Evgenij Prigožin, era indubbiamente una carogna, fondatore di quella milizia, la Wagner, che ne ha fatte di cotte e di crude, ma siamo di fronte ad un metodo e non ad un’eccezione.
Putin ha una bella carriera da killer. Lo ha ben ricordato l’agenzia AGI: ”La scia di morti di figure scomode o critiche del Cremlino inizia poco prima della salita al potere di Putin: nel 1998, subito dopo la sua nomina a capo dei servizi di sicurezza (Fsb), Galina Starovoitova, una parlamentare democratica, viene uccisa a colpi di arma da fuoco nella tromba delle scale del suo condominio a San Pietroburgo. Nel 2006, ad Anna Politkovskaya, la giornalista che aveva denunciato gli abusi dell'esercito russo nelle guerre in Cecenia, spetta la stessa sorte sul pianerottolo di casa sua a Mosca. Nel 2009, muore assassinata l'attivista della Ong Memorial, Natalia Estemirova, che si occupava di diritti umani in Caucaso. Stessa fine, lo stesso anno, anche per altre due voci scomode: l'avvocato Stanislav Markelov e la giornalista Anastasia Baburova di Novaya Gazeta.Nel 2015, Boris Nemtsov, ex vicepremier di Eltsin diventato critico della presidenza di Putin viene ucciso a pochi passi dal Cremlino mentre passeggia dopo cena con una donna”.
Si aggiunge poi molto altro: “Altri critici di Putin sono sopravvissuti per miracolo: nel 2020, l'oppositore Aleksei Navalny viene avvelenato su un volo da Tomsk a Mosca, mentre due tentativi di avvelenamento erano già toccati al giornalista e oppositore Vladimir Kara-Murza. In tutti questi casi, si tratta di oppositori espliciti di Putin, persone che denunciavano la cleptocrazia da lui stesso costruita.
Da quando è iniziata la guerra, anche tra i ranghi dell’élite imprenditoriale russa si sono verificate morti improvvise o sospette: due dirigenti dell'industria del gas sono stati trovati morti con biglietti di suicidio; tre magnati russi sono stati uccisi, insieme alle loro mogli e figli, in quelli che sembravano omicidi-suicidi. Altri sono caduti dalle finestre o dalle scale a Mosca o all'estero”. Chissà nel sommerso di un enorme Paese quante vittime e perseguitati senza nome di saranno!
La guerra all’Ucraina mostra in maniera chiara l’attuale paranoia di Putin: ricostruire in qualche modo l’Unione Sovietica con evidente nostalgia per quel comunismo dove è nato è cresciuto.
Ho assistito nella mia vita al difficile percorso dei comunisti italiani nell’aprire gli occhi - per chi lo ha fatto davvero - sul fallimento del comunismo in Russia e nei Paesi satelliti e questo è valso in tutti gli altri Paesi del mondo dove ideali teoricamente nobili si sono trasformati in regimi autocratici liberticidi e violenti. E per favore non si citi la logica, usata da alcuni anche per Putin, di elezioni che legittimano di fatto i dittatori, trattandosi di argomento poco spendibile.e non facciamo il solito benaltrismo antiamericano a giustificazione, che è un metodo ormai ridicolo.
Sui regimi “comunisti” basti pensare ai rimasugli ideologici di Paesi come Cina, Cuba,, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Nicaragua e l’elenco probabilmente è incompleto. Basta riferirsi a Paesi africani che pendono dalle labbra di Russia o Cina nei drammi delle loro classi politiche che si vendono in barba alle lotte legittime del passato per liberarsi dal colonialismo.
Che Putin piaccia ancora e non solo a fantasmi italiani del comunismo che fu, ma anche ad esponenti politici della destra persino neofascista, è la cartina di tornasole che finisce per mettere assieme ogni logica totalitaria. L’assassinio degli avversari politici, buoni o cattivi che si potessero giudicare, diventa una cartina di tornasole di mancanza di democrazia.
E che il popolo russo rimanga sotto questo giogo addolora e stupisce, purtroppo si sa che le macchine della tirannide sanno funzionare molto bene nello spegnere le coscienze, ma proprio la celebre caduta del muro di Berlino, con il suo effetto a scacchiera, dimostra che qualche speranza di liberazione esiste sempre.

Sbarchi a raffica

Un fatto certo è che sulla questione migrazioni è stata messa la sordina, anche se il fenomeno ha assunto proporzioni impressionanti.
Questo è l’incipit di un articolo di Alessandra Ziniti su Repubblica di poche ore fa:”Centomila sbarcati sulla rotta più pericolosa del Mediterraneo a fronte di appena 1.042 arrivati attraverso i cosiddetti canali di accesso legali. Trentacinquemila richieste di asilo negate e solo 2.561 rimpatri”.
Insomma: non hanno funzionato gli accordi con la Tunisia, l’Europa non riesce a trovare l’unanimità per le regole di distribuzione dei migranti, le famose ONG fanno avanti indietro per i salvataggi assieme alle navi militari schierate, i trafficanti guadagnano soldi a palate e raramente vengono condannati per questa sorta di tratta degli schiavi.
Più avanti la stessa editorialista annota: ”Certo, nei prossimi tre anni, il decreto flussi dovrebbe aprire le porte del Paese a 450.000 lavoratori stranieri ma, in assenza di una riforma della legge Bossi-Fini, tutti sanno che si tratterà per lo più di persone già presenti sul territorio e che assai difficilmente domanda e offerta di lavoro si incontrano a distanza”.
Per aggiungere: “Sarebbe decisamente meno populista ma più intelligente destinare intelligenza, programmazione e risorse alla gestione di questi 100.000 arrivati che potrebbero essere oro per l’industria, l’agricoltura, il terziario locale. Se solo fossero trattati come persone umane, innanzitutto, e poi come un enorme potenziale da integrare e formare”.
Non mi sembra una proposta facile da attuare.
Claudio Cerasa sul Foglio spiega bene la contraddizione politica in atto: ”Alcuni sindaci del Pd, lo avrete visto, nelle ultime settimane hanno scelto di esporsi, sul tema, e di criticare con una certa forza l’inazione del governo sull’immigrazione. Tesi: con questi numeri noi non ce la facciamo più. In questo caso, lo specchio del populismo professato nel passato è evidente: con quale credibilità un partito che ha sostenuto l’idea che l’immigrazione non debba essere troppo controllata può lamentarsi del fatto che l’immigrazione oggi non sia troppo controllata? Ovviamente nessuna. Il secondo specchio del populismo, più spassoso, è quello che riguarda la destra, che sul tema dell’immigrazione oggi si trova, pardon, politicamente in mutande: fa la cosa giusta, ma non sa come dirlo. E che cosa fa la destra? Fa tutto quello che ha sempre fatto la sinistra al governo. E che cosa fa la sinistra non di governo quando la destra di governo fa quello che ha fatto sempre la sinistra al governo? Fa quello che la destra faceva quando non stava al governo. Ovvero: dice che così le cose non possono più andare. E quello che fa la destra al governo è chiaro anche se nessuno può rivendicarlo. Collabora con le ong per salvare migranti in mare (persino con la ong che ha mandato a processo il vicepremier di questo governo: Open Arms). Non fa allarmismo sugli sbarchi (dal primo gennaio al primo agosto sono stati 100 mila, l’anno prima nello stesso periodo furono 48 mila). Non protesta se i tiggì della Rai non sbattono l’immigrazione in prima pagina (cosa che la destra chiedeva di fare quando gli sbarchi erano la metà di quelli di oggi). Propone di cambiare la legge Bossi-fini (Fratelli d’italia ha proposto in Parlamento di modificare la legge, cosa che il Pd chiede da anni)”.
Naturalmente il Direttore del Foglio prosegue, motivando questa sorta di paralisi politica, che sarà un tema cardine nelle elezioni europee del 2024, mentre gli sbarchi a raffica - nella loro luttuosa drammaticità e caotica gestione malavitosa - dimostrano la difficoltà di trovare il bandolo della matassa.

Ci mancava il Generale…

Alla fine l’ho fatto: ho letto il famoso tomo di 373 pagine scritto dal Generale Roberto Vannacci. Le polemiche su questo suo libro lo hanno fatto - autore e sua opera (come lui stesso la definisce…) - uscire dall’anonimato e chi ha denunciato certi contenuti di questo suo scritto ha finito per accendere il faro su di lui e su di un libro che nessuno - tranne pochi amatori del genere - avrebbe mai letto. Così gli “accusatori” gli hanno dato un’inattesa popolarità, che probabilmente - anche se lui oggi smentisce, penso in attesa della pensione imminente - lo porterà all’attività politica.
Il libro, dicevo. È una summa di pensieri di chi milita nell’estrema destra e mi permetto di dire - senza logiche di benaltrismo - che sono speculari ad uscire altrettanto criticabili di certa sinistra estrema. Il rischio per entrambi sugli argomenti trattati nel libro è quello di inforcare reciprocamente le lenti distorsive degli ideologismi.
Non si tratta di essere “centristi” o “moderati”, ma di evitare di vedere il mondo senza ascoltare gli uni e gli altri, sfrondando i ben comprensibili eccessi. E nel libro del Generalissimo si mettono le dita negli occhi dei “nemici” con tono aulico fuori moda e con eccessi che talvolta paiono persino grotteschi e oscurano qualche rarissima considerazione condivisibile.
Vannacci si intrattiene su alcuni temi elencati nei diversi capitoli: l’ambientalismo, l’energia, la società multiculturale e multietnica, la sicurezza e la legittima difesa, la casa, la famiglia, la Patria, il pianeta lgbt, le tasse, la nuova città, l’animalismo. Tutti temi che considera di trattare, come enunciato nel capitolo uno. nel nome del “Buonsenso”. Così si esprime: “ Il lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti giornalmente volto ad imporre l’estensione della normalità a ciò che è eccezionale ed a favorire l’eliminazione di ogni differenza tra uomo e donna, tra etnie (per non chiamarle razze), tra coppie eterosessuali e omosessuali, tra occupante abusivo e legittimo proprietario, tra il meritevole ed il lavativo non mira forse a mutare valori e principi che si perdono nella notte dei tempi?”
La “normalità” da lui più volte evocata con tono militaresco si inserisce in una visione piuttosto retriva. Basta un passaggio come questo per capirlo: “Non sono cittadino del mondo, non ho giurato fedeltà ai diritti, ai partiti, alle ideologie, ai popoli o a qualsiasi altra entità che esuli dal mio concetto di Patria. L’Europa non sostituirà mai la mia bella Italia che preferisco, nel bene e nel male, a qualsiasi altro paese solo per il fatto di sentirla mia e frutto, anche solo marginalmente, di quanto tutti i miei avi abbiano fatto negli anni passati”.
Eviterei di usare per definire certi passaggio con il termine “fascismo”, come ha fatto qualcuno, perché il continuo uso di questa espressione rischia di degradarne l’uso, che va sempre salvaguardato proprio perché regimi simili non si ripresentino, anche sotto nuove forme, sul palcoscenico della Storia.
Sul richiamo alla libertà di espressione di cui all’articolo 21, come fanno difensori vari del Vannacci, eviterei di evocarla in questo caso specifico, ricordando i doveri di chi ha ruoli nelle Forze Armate come il Generale, che si sbilancia in tesi che non dimostrano coraggio (come qualcuno sostiene), ma un modo di esprimersi che è privo della dovuta cautela e pone interrogativi su come si faccia ad esercitare il comando quando intrisi di così tanti pregiudizi.
L’avvocato Antonio Caputo ha così commentato, rispetto alla bussola da non perdere mai, su Huffpost: “Nel solco dei principi fondamentali della Carta costituzionale, in primis il principio di eguaglianza e non discriminazione dell'art. 3, base di una sana convivenza tra diversi. D'altronde un padre e maestro del liberalesimo come Karl Popper, nel suo fondamentale saggio sulla libertà, "La società aperta e i suoi nemici", intelligentemente affermò che le libertà trovano un limite fondamentale dato nella stessa necessità di salvaguarle impedendo ai nemici della libertà (necessariamente plurale) di poterle usare per sopprimerle”.
Chi ha applaudito alle tesi del Generale, smentendo un correttissimo Ministro della Difesa Guido Crosetto, puzza di zolfo.

Murgia, fra libri e Social

Ho aspettato qualche giorno per riflettere sul “caso Murgia”, la scrittrice sarda (fiera della sua identità isolana), mancata di recente.
Non l’ho fatto perché troppa retorica è stata riversata sull’onda della sua morte e prima questi era avvenuto sulla sua malattia terminale, che lei stessa scelse di rendere pubblica e di riempire di grandi significati politici e di militanza. Lo ha fatto conscia di essere diventata un’icona per una parte dell’opinione pubblica.
Nell’ultimo tratto della sua vita è avvenuto con discorsi abbastanza estremi sulla famiglia e su quella parola diventata un inno: Queer!
Ha detto e virgoletto: “Una famiglia queer non significa orge e stravizi sessuali. Ma responsabilità reciproca”. E ancora ha spiegato che si tratta di ”nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla”.
Si tratta di una scomposizione della famiglia, in logica più che libertaria, di cui per ignoranza mia non capisco bene l’essenza, ma rispetto da sempre ogni diversità nella logica di qualunque opinione sul tema, sempre che non sia lesiva di diritto fondamentali.
Confesso di aver letto solo un suo libro, quello che la portò al successo, “Accabadora” e che mi affascinò. S’accabadora era - ma sfugge ancora il confine fra realtà e fantasia - una donna che nei secoli passati in Sardegna si incaricava di praticare l’eutanasia ai malati senza più possibilità di essere curati, su richiesta dei familiari o della vittima stessa. 
Poi non l’ho più letta ed è una colpa che colmerò, anche se - diciamoci la verità - era ormai più nota come polemista e protagonista di un impegno legittimo e dunque come scrittrice in maniera inferiore
ed è ovviamente un mio giudizio contestabile.
Ho letto su Linkiesta.it la sempre acuta Guia Soncini, che ha scritto di Murgia e ne citerò alcuni passaggi.
Anzitutto una lunga citazione nella prima parte dell’articolo, anticipata dalla tesi di una letteratura in sé che conta ormai poco: “Ora che persino Umberto Eco è diventato troppo sofisticato, troppo complesso, di troppo faticosa digestione per farne quel finger food culturale che è l’unico ormai tollerato dal delicato stomaco d’un grande pubblico che è intollerante al lattosio, al glutine, alle contraddizioni e alle parole non confermative.
Lo spiegava piuttosto bene il miglior articolo scritto in morte di Michela Murgia, da Michele Serra su Repubblica. «Murgia si è spavaldamente, a tratti perfino allegramente esposta come leader di un “tutto e subito”, e di un radicalismo anche linguistico, che potevano irritare o appassionare. Sicuramente molto spendibili in chiave social, laddove la dialettica è stritolata nella tenaglia degli amici e dei nemici, della ragione tutta da una parte o tutta da quell’altra. Logica binaria anch’essa, vale constatarlo. È molto probabile che la sintesi, l’“andare oltre”, il superamento di quella furente disputa di genere, e sui generi, per lei fosse la letteratura; non perché nei libri “parlasse d’altro”, ma perché ne parlava diversamente, meno condizionata dall’ansia di prestazione che costruisce buona parte del pathos social”.
Insomma lo scrittore che si allarga alla sfera extraletteraria per conquistare spazi rispetto ad un mercato del libro ormai asfittico rispetto al passato.
Ancora Soncini: ”Persino nei casi di grandi successi, quali sono stati i libri di Michela Murgia, i numeri sono quelli che vent’anni fa (per non dire cinquanta) avrebbero caratterizzato un insuccesso. Fino alla prima settimana di agosto, a qualche giorno prima della morte dell’autrice, “Tre ciotole”, il libro che era stato annunciato da un’intervista in cui Michela Murgia aveva detto d’avere poco da vivere, e che era stato primo in classifica per parecchie settimane, e poi era comunque rimasto tra i libri più venduti d’Italia, nei suoi primi tre mesi in commercio di quel libro lì erano state comprate novantamila copie”.
E poi la provocazione: “Molta più gente ha visto un concerto di Ultimo (chiunque egli sia) nella sola Roma nel luglio 2023 di quanta in tutta Italia abbia comprato il libro col più potente lancio promozionale che autrice italiana abbia mandato sul mercato negli ultimi anni. E molta più gente seguiva Michela Murgia su Instagram di quanta ne comprasse i libri.
Michela Murgia è stata coerente fino all’ultimo con la propria identità di rompicoglioni. È morta ad agosto costringendo i suoi cari a tornare precipitosamente da posti mal collegati, ma soprattutto è morta nella settimana in cui Gfk, che si occupa dei rilevamenti delle vendite di libri, è inderogabilmente in ferie, non dando modo agli osservatori di quantificare il valore del decesso per le vendite. I numeri di quel che hanno venduto i libri della Murgia dopo la sua morte li avremo solo lunedì, ma non ci vuole una sacerdotessa di Apollo per immaginarli. 
Lasciati senza Gfk, i poveri editori in settimana dovevano affidarsi all’impressionismo della classifica Amazon, dove un militare che si autopubblica i suoi penzierini, oggetto d’un quarto d’ora di scandalo per aver detto che mica è normale essere busoni, era primo, rendendo vieppiù cogente quella domanda che si faceva Enrico Vanzina secoli fa: come mai i bestseller non sono mai letti dai best reader?”.
E un altro ragionamento colpisce chi i libri cerca ancora di leggerli: “Ogni volta che si parla di libri su un social, il posto dove dice la sua la gente che non sa esprimersi e non ha intenzione d’imparare, c’è sempre qualcuno che protesta: insomma, i libri sono troppo cari. Possono spendere ottanta euro per un concerto ma non venti per un libro? Certo che no: il verbo non è «potere» ma «volere».
Non vogliono essere costretti a fare la brutta fatica di concentrarsi su una pagina. Non vogliono buttare soldi per un’esperienza che non potranno instagrammare (ci siamo fatti distrarre da «resilienza», e abbiamo lasciato che quella gramigna lessicale e posturale che è «esperienza» attecchisse).
Non vogliono perdere tempo con duecento pagine quando basta e avanza l’intervista a Vanity Fair, di cui oltretutto c’è la versione video che si condivide molto più comodamente (e piace molto di più all’algoritmo) della foto alla pagina di giornale (quella sì residuale come e più dei libri)”.
Soncini amarissima in chiusura rompe certo “politicamente corretto”:
“Molto si è parlato, privatamente e pubblicamente, del funerale di Michela Murgia. Del rito di massa e quindi inevitabilmente cafone in cui le orazioni funebri venivano interrotte da applausi come raccordi narrativi d’un qualunque concerto di Ultimo; di tizie che non si erano mai viste che si chiamavano l’un l’altra «sorella» e piangevano insieme per una che pure non avevano mai conosciuto; di Elly Schlein che cantava “Bella ciao” abbracciata a Francesca Pascale; di Roberto Saviano che diceva la sua orazione con una mano infilata nella cinta dei pantaloni.
A colpire me è stato un dettaglio del dopo. Il cameraman del sito di Repubblica era rimasto fuori dalla chiesa a inquadrare il niente, e a un certo punto gli si è piazzata davanti una tizia del Tg1 col mandato più difficile della giornata. Fermava le ragazze che uscivano dalla chiesa chiedendo «c’è qualcuna che è qui perché era una lettrice di Michela Murgia, perché leggeva i suoi libri?». Quelle la guardavano come fosse di trasparenza medusiaca: era uno spettacolo straziante”.
Questo non toglie nulla alla militanza sui Social, alle interviste impegnate e alle conferenze piene di argomenti. Ma la letteratura resta la letteratura.

Parole in arrivo

Niente è più potente della parola: una catena di forti ragioni e di alti pensieri è un legame che non si rompe. La parola, come la fionda di David abbatte i violenti e fa cadere i forti. È l’arma invincibile. Se così non fosse, il mondo apparterrebbe ai bruti armati. Chi invece li tiene lontani? Solo, nudo ed inerme, il pensiero.
(Anatole France)

Lo avevo già scritto che sarei tornato sulle parole e sulla loro capacità/necessità di aiutarci a capire come cambiano le cose.
Se ho ricordato parole destinate al macero in italiano (anche se non bisogna mai dire mai), oggi - guardando cosa capita nei dizionari - vorrei ricordare le parole che hanno avuto dignità di figurare come nuove entrate.
L’occasione è utile per ricordare il come il primo vero dizionario della storia sia quello della Crusca; l’accademia fiorentina che, nata nel 1582 con intenti più o meno goliardici, nel 1612 pubblicò il vocabolario e ancora oggi vigila sulla lingua italiana.
Ma dicevo delle parole assurte a dignità di stampa. La prima mi riguarda per nascita ed è ”Boomer".
Come si legge proprio sul sito dell’Accademia della Crsuca, la parola boomer è un appellativo ironico e spregiativo, attribuito a persona che mostri atteggiamenti o modi di pensare ritenuti ormai superati dalle nuove generazioni, per estensione a partire dal significato proprio che indica una persona nata negli anni del cosiddetto “baby boom”, e cioè nel periodo di forte incremento demografico che ha interessato diversi paesi occidentali al termine del secondo conflitto mondiale, tra il 1946 e il 1964. Presente, anche se mi ribello all’accusa di passatismo…
Spunta poi e ne ho parlato parecchio in questi anni anche per il suo impatto ”Metaverso”. Se nella letteratura di fantascienza già si parlava di mondi artificiali paralleli, oggi esiste davvero un affascinante mondo virtuale, reso immersivo dall’uso di cuffie e visori per la realtà virtuale e la realtà aumentata. Lo si può già esplorare usando il nostro avatar e non è solo un terreno di gioco, ma che permette molti usi.
In qualche modo è collegata a questa un’altra parola ”Algocrazia”, che definisce meccanismi già esistenti in Rete. Attraverso l’uso di algoritmi, cioè i programmi informatici che sono alla base delle piattaforme digitali, si possono manipolare le forme di interazione fra gli utenti con metodi di controllo che possono essere fortemente invasivi della nostra sfera privata.
Molte parole irrompono ormai dall’inglese e le adopriamo correntemente con grande lamentela dei puristi e non caso in altri Paesi - penso alla Francia - sono nate normative per evitare la supremazia dell’inglese e degli anglicismi.
È il caso di ”Fat shaming”. Un termine che indica una forma di discriminazione nei confronti di chi ha un corpo non conforme ai canoni imposti dalla società. Si tratta di una tipologia di body shaming che riguarda nello specifico le persone grasse.
Ed è anche il caso di ”Green washing”, cioè l’ ecologismo o ambientalismo di facciata, che indica la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.Certo è che dal mondo ambientalista, dove alberga anche un parte di Sinistra estrema
riciclatasi con grande spregiudicatezza fallita l’epoca (stavo per scrivere l’epica…) rivoluzionaria, arrivano altri termini che designano tendenze.
Penso a “Transizione ecologica”, una delle parole nuove legate al tema della sostenibilità. E sarebbe - lo dico rozzamente - quel processo di innovazione tecnologica e rivoluzione ambientale che favorirà economie che non tengano conto solo dei profitti economici, ma anche del rispetto della sostenibilità ambientale.
Parole che vanno, parole che vengono.

Avi ed eredi

Qualche tempo fa avevo scritto di aver ricevuto da Maurizio Sella, Presidente del celebre gruppo bancario e finanziario, un libro interessante che incrocia la storia della sua famiglia con le montagne valdostane e con la passione enorme per l’alpinismo, tramandata di padre in figlio.
Nell’occasione avevo segnalato un elemento singolare: esiste ormai radicato dalla seconda metà dell’Ottocento un ramo valdostano dei Caveri proprio a causa del più celebre dei Sella, quel Quintino enfant prodige della politica, imprenditore nel settore tessile e fra i fondatori del Club Alpino Italiano. Fu lui, infatti, a chiedere la testa del mio bisnonno Paolo, Prefetto di carriera, perché era intervenuto nel corso di uno sciopero degli operai biellesi. Fu chiesta e ottenuta la sua rimozione e, dopo un periodo alla Sottoprefettura di Albenga, arrivò ad Aosta e radicò i Caveri ”valdostani”. Il resto della famiglia, originaria di Moneglia ma con attività a Genova (il fratello del mio bisnonno, Antonio, ebbe importanti ruoli politici e universitari) rimase in Liguria.
Il Presidente Sella ha con grande gentilezza risposto alla mia posta elettronica e ne ricordo gli aspetti salienti.
”Vorrei aggiungere - scrive il mio interlocutore - altre notizie alla tesi di laurea, da te citata,  di Arianna Michelini  “La classe dirigente liberale e lo sciopero La relazione della Commissione Parlamentare sugli scioperi del 1878”, relatrice prof.ssa Gigliola Dinucci, presso l'Università degli Studi di Firenze.
 Il professor Guido Quazza e la moglie Marisa Piola Quazza hanno pubblicato, per conto dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Roma, l' «Epistolario di Quintino Sella» ove sono trascritte le lettere di Quintino dal 1842 alla morte, avvenuta in Biella il 14 marzo 1884.
Nel volume, in cui sono state trascritte le lettere dal 1842 al 1865, il sottoprefetto Paolo Caveri è citato più volte in alcune lettere del 1862. Quintino era allora, all'età di 25 anni, per la prima volta ministro delle Finanze. Ecco quanto scrive a Ubaldino Peruzzi, ministro dell'Interno, nella sua lettera del 31 dicembre 1862 che tu citi e di cui trascrivo alcuni passi: « Caro Ubaldino, credo tu sia informato di alcuni scioperi di operai che nocquero nel Biellese alle fabbriche del Mandamento di Mosso.
Il sottoprefetto ha creduto sempre di ingerirsi, e la sua ingerenza (come al solito dell'ingerenza governativa) a mio parere la reso la cosa più pericolosa che non fosse da principio. Le popolazioni operaje del Biellese furono fin qui tranquille e vi sono pochissimi elementi di perturbazione […]
Però ove gli operai si ficchino in capo di essere spalleggiati dall'autorità politica contro i fabbricanti, e questi invece credano di non poter contare sulla imparzialità dell'autorità politica, ne possono nascere sconcerti che coll'andare del tempo si farebbero gravi [...].
Tu vedrai poi nella tua saviezza quel che convenga fare e se, di qui a qualche tempo, una traslocazione del sottoprefetto (persona d'altronde stimabilissima) non giovi a lui ed alla cosa pubblica.»
[Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella Vol. I 1842-1865, Città di Castello, 1980, pp 417-418].
Aggiunge il Presidente Sella: ”Nella stessa data del 31 dicembre 1862 Quintino scrive anche a Paolo Caveri per precisare quali siano le lagnanze degli industriali lanieri verso di lui: ”Pregiatissimo Signor Cavaliere, ricevetti da parecchi fabbricanti di Mosso gravi lagnanze per la questione degli operai e, benchè io non abbia alcun personale interesse in coteste fabbriche del mandamento di Mosso, tuttavia, come deputato di questo mandamento non posso chiuder le orecchie alle lagnanze che mi pervengono. Indi è che mi prendo la libertà di scriverLe apertamente sopra questo argomento di sua natura delicato, e che può farsi pericoloso.
I fabbricanti mi dicono che la Signoria Vostra abbia assicurato gli operai che, quando essi fossero ritornati al lavoro, le multe non sarebbero state applicate che in una misura più ristretta dell'attuale e sarebbero state applicate soltanto a casi straordinari e gravi. I fabbricanti mi assicurano poi (per la conoscenza che ho della materia sono inclinato a crederlo) che essi non hanno fatto simile promessa. Intanto gli operai sono tornati al lavoro fiduciosi, a quanto pare, che non pagheranno più multe e la calma pare rinata, ma evidentemente possono rinascere nuove, e più gravi, difficoltà, quando si debba applicare qualche multa.
Ora Ella non l'avrà a male se sinceramente io Le dirò che non credo utile Sua ingerenza nelle difficoltà che nacquero fra gli operai ed i fabbricanti […]. Io non veggo come debba il governo intervenire fra un capo fabbrica e i suoi operai […]. Infatti quando l'autorità politica entra in questione sopra l'invito d'una sola delle parti facilmente diventa parziale per quella che l'invitò [...]»
[Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella Vol. I 1842-1865, Città di Castello, 1980, pp 418-419].
Prosegue poi la risposta: ”Nelle fabbriche laniere del Biellese, ove era passata dal 1817 la fabbricazione dei panni dalla lavorazione artigianale nelle case a quella con i macchinari della rivoluzione industriale, l'organizzazione produttiva era agli albori e per arrivare ad un buon standard produttivo, gli operai erano per regolamento interno soggetti a pagare multe per gli errori che rovinavano le stoffe.
Le parole di Quintino si rivelarono profetiche: la sua lettera del 28 aprile 1863 al ministro dell'Interno Ubaldino Peruzzi così cominciava:
« Onorevole Signor Ministro. 
Ella non ignora come nello scorso anno siano avvenuti alcuni scioperi tra gli operai dei lanifici della Valle di Mosso (Circondario di Biella); e forse ricorderà come io avessi allora a trovare meno opportuno l'intervento del Sotto-Prefetto il cui contegno, benchè dettato dalle migliori intenzioni, aveva fatto credere agli operai che il Governo li appoggiasse, ed aveva fatto temere ai fabbricanti che si desse incentivo a nuovi guai».
Raccontava poi dei seri problemi sorti in aprile nella fabbrica “Sella e Compagnia” e altre fabbriche circostanti in cui gli operai avevano scioperato perché non volevano più pagare le multe per cui così concludeva «Ora Ella vede onorevole signor Ministro come da un fatto di questo genere a fatti più gravi contro la proprietà e le persone [vi sia] sì piccola distanza che occorre provvedere senza indugio […] Ei mi pare che converrebbe far aprire senza indugio una indagine fiscale sull'avvenuto, e muttare l'attuale Sotto-Prefetto, il quale per desiderio di bene essendosi ingerito nelle quistioni dei salarii ha perduto troppo della sua autorità morale».
[Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella Vol. I 1842-1865, Città di Castello, 1980, pp 444-445].
Poco dopo, il 3 maggio 1863, in una lettera a Silvio Spaventa, segretario generale del ministero dell'Interno, Quintino Sella, preso atto dell'arrivo del nuovo sotto prefetto Del Frate a Biella, così   interveniva a favore del Caveri: « Vidi che mandi il Caveri ad Albenga. Non vi sarebbe modo di dargli una migliore Sottoprefettura? Ne parlai già due volte al Peruzzi, allorquando tu eri col Principe degli Abbruzzi. Il Peruzzi era anche dispostissimo a cercare alcun che di meglio. Vorrei ora ammansire anche te. La Sottoprefettura di Albenga e per popolazione e per importanza è tanto al disotto di quella di Biella, che la traslocazione assume carattere di punizione. Ora è egli opportuno, e per riguardo alla persona e per riguardo alla causa, dar carattere di punizione alla traslocazione del Caveri? Quanto a me non credo. Nell'affare dello sciopero il Caveri mostrò a mio giudizio che non aveva mai studiato codesta quistione, e che in tutti i casi ha più bontà d'animo e rettitudine di intenzioni che penetrazione. Ora il dare alla sua traslocazione carattere di punizione potrebbe essere pretesto ad agitatori di sommuovere anche di più gli operai, e sarebbe strazio grande al Caveri, il quale in un circondario non industriale, od almeno non tormentato da scioperi, può amministrare bene».
[Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella Vol. I 1842-1865, Città di Castello, 1980, pp 448-449].
Insomma Quintino ha anche parole di stima, oltreché di comprensione, per lo sbaglio del suo antenato. Da ultimo, sull'atteggiamento di Quintino nel rifiutare ogni intromissione governativa nelle questioni tra fabbricanti ed operai pesa l'ideologia liberale e Giolitti condividerà e tornerà alla stessa posizione di Quintino agli inizi del secolo XX”.
Quel che è certo - consentitemi la chiosa - è che in fondo l’intervento del mio bisnonno precorse i tempi e oggi è del tutto normale un ruolo prefettizio nelle vertenze sindacali, noto con il termine di ”raffreddamento”. Io stesso, quando incarnai le funzioni prefettizie devolute in Valle d’Aosta al Presidente della Regione, mi occupai alcune volte di questa materia senza ingerenza alcuna.

Il Monte Bianco testimone del cambiamento climatico

Cédric Gras è uno scrittore francese giramondo che conosce bene la montagna. Per Obs ha visitato di recente il Monte Bianco con una premessa illuminante sul tema: ”Cela fait maintenant vingt-cinq ans que je fréquente avec une certaine assiduité le massif du Mont-Blanc. Un quart de siècle qui paraît bien court à l’échelle du temps climatique et des neiges dites « éternelles ». Pourtant l’évidence est là et le constat, sans appel. Ce qui s’opérait auparavant au fil des siècles advient désormais au cours d’une existence. Les métamorphoses que l’on croyait imperceptibles pour les simples mortels s’effectuent dorénavant en l’espace d’une génération. La mienne par exemple”.
Già, con buona pace dei negazionisti questo è quanto qualunque abitante delle Alpi vede coi suoi occhi nel rapporto con la sua memoria.
Citerò alcuni passaggi chiave dell’articolo, ricco e dettagliato, lato francese, ma - si sa - quanto siano artificiali i confini lassù.
Scrive Gras: “Le réchauffement climatique est à l’oeuvre en montagne plus rapidement qu’ailleurs. Les précipitations hivernales ne parviennent plus à compenser la fonte estivale. Il suffit d’un vieil album photo de la vallée pour s’en convaincre. Les clichés sépia montrent des langues glaciaires débordant de leur lit. Il faudrait que je remette la main sur les diapositives du glacier des Bossons que j’avais prises durant mes études de géographie”.
Parecchie le testimonianze: ”Luc Moreau, lui, a fait de la mécanique des glaces son domaine d’expertise. Il s’assied, se sert un thé sur une terrasse face au Mont-Blanc et ne ménage pas plus longtemps le suspense. « A l’altitude de 1600 mètres, la mer de Glace a déjà perdu 3,5 mètres d’épaisseur depuis avril. Les glaciologues du xxie siècle n’annoncent jamais de bonnes nouvelles. » Il reprend : « Ça commence déjà moins bien qu’en 2022, quand la perte annuelle a été de 16 mètres. » 2022 a en effet été une année noire : « Le glacier a minci sur ses 13 kilomètres de longueur, jusqu’en haut, à l’aiguille du Midi. » Je lui demande ce que cela lui fait, à lui, de voir l’immaculé céder à la grisaille des pierriers. « C’est moins de rayonnement réfléchi par la neige et une absorption par les roches de l’énergie solaire, éludet-il, peu disert sur ses émotions mais généreux de sa science. Le même phénomène qui fait des ravages du côté des pôles, où la banquise se fait rare. »”.
Lo scrittore racconta, visitando siti storici del Monte Bianco dell’accelerazione ben visibile nei ghiacci e nelle acque: “Ce jour-là, une autre glaciologue est présente pour la visite des galeries de captage d’Argentière : Heïdi Sevestre. Elancée, cheveux courts, la jeune scientifique a été l’élève de Luc Moreau à Poisy, en HauteSavoie. Elle s’est ensuite installée au Svalbard après une année en Erasmus, tout en revenant régulièrement dans ses Alpes natales dont elle surveille la mue.
« Le “peak water” est prévu pour 2040 », prévient-elle. Comprendre : le « pic de fonte », ce point de bascule entre un surplus de fusion sous l’effet du réchauffement et un tarissement progressif dès lors que les masses glaciaires auront trop maigri. Un seuil fatidique qui marquera une baisse inéluctable du débit des rivières et fleuves en aval.
« A partir de 2040 et peut-être plus tôt, les rivières passeront à un régime plus nival que glaciaire », abonde Luc Moreau. C’est-à-dire qu’elles seront gonflées par la fonte printanière des neiges mais que ce qu’il restera de glaciers ne restituera que peu d’eau en juillet et en août. Le château d’eau alpin ne pourra plus fournir le même volume durant des étés qui s’annoncent plus caniculaires. Or c’est tout leur intérêt que de redistribuer à la saison sèche l’eau stockée sous forme de glace. Le potentiel hydroélectrique pourrait s’en trouver diminué mais c’est surtout en plaine qu’il faudra s’adapter, de l’irrigation des cultures au refroidissement des centrales nucléaires en passant par la consommation quotidienne”.
Questo è quanto bisogna studiare nei diversi settori per reagire per tempo ai cambiamenti senza ansia ma con pianificazioni che devono vedere solidali tra loro tutte le Regioni alpine, unite nello stesso destino nel rispetto di scelte politiche che le devono vedere protagoniste. Togliendo gli alibi a chi ha una concezione della montagna come Wilderness, che sulle Alpi è una castroneria che porterebbe allo spopolamento definitivo, come agognato da chi maldestramente odia l’umanità cui appartiene.
Ancora Gras: “C’est tout un paysage qui mue sous les yeux de ceux qui habitent la montagne. On appelle solastalgie la souffrance éprouvée face à ce bouleversement de notre environnement. Une sorte de nostalgie de la nature telle qu’on a pu la découvrir enfant. (….) Trouverai-je une consolation dans le « verdissement des Alpes », ce phénomène qui accompagne la fin des glaces? Rendez-vous avec Bradley Carlson, un écologue américain diplômé de l’université de Grenoble, guide de haute montagne accessoirement. Il travaille au Centre de Recherches sur les Ecosystèmes d’Altitude (Crea), une structure associative dédiée à l’adaptation de la biodiversité alpine. « En comparant avec les photos aériennes de 1950, on note une remontée moyenne de la forêt de 30 mètres par décennie environ, note-t-il sans une pointe d’accent, d’autant que la fin du pastoralisme a permis le reboisement des pâturages. » Les plantes déménagent vers de plus hautes altitudes et colonisent les zones minérales mises à nu par le retrait des glaces. Un chambardement de l’étagement alpin et une extension du domaine de la chlorophylle. (….) Dans le sillage de la flore, les animaux remontent eux aussi les côtes pour se maintenir dans des conditions optimales. Une migration verticale des espèces, insectes en tête, de plusieurs dizaines de mètres par décennie. Elles explorent de nouveaux territoires loin des fonds de vallées anthropisés. Une aubaine pour les lagopèdes, chamois et autres lièvres variables qui sont concurrencés par les espèces ordinaires prenant elles aussi l’ascenseur”.
La conclusione è triste e vale purtroppo per tutte le montagne del mondo: ”L’humanité ne souffrira pas tant des quelques degrés de réchauffement que de leurs conséquences, à commencer par la peau de chagrin des glaciers alpins. Ceux qui ne sont pas sensibles à la beauté écrue des séracs et honnissent les sports d’hiver devront au moins se résoudre à cette réalité. Sans glaciers, nos étés auront terriblement soif”.

Lupi ed orsi: la politica del rinvio

È molto interessante rilevare come in Italia di fronte ad un problema si scelga di non scegliere. Si preferisce in molti casi aspettare, come se l’attesa da sola sortisse qualche decisione. Anzi, come sempre laddove la politica latita si lascia spazio alla giurisprudenza come ormai evidente potere sostitutivo, di cui poi si lamenta per gli eccessivi ruolo e incidenza.
Mi riferisco ad un tema “antipatico” e cioè alla storia dei grandi carnivori sulle Alpi, lupi e orsi.
Nel caso valdostano si tratta solo dei lupi, mentre gli orsi riguardano in particolare il Trentino, ma è inevitabile e già certificabile l’espansione piano piano nelle vallate vicine.
Ne parlo per l’ennesima volta e lo faccio sapendo che tocco la sensibilità di certo animalismo, sia radicale che semplicemente alla moda, che dice in sostanza: questi predatori sono tornati, lasciateli vivere in pace e abituatevi alla loro presenza. Aggiungono più o meno: passata l’epoca in cui li avete sterminati, la modernità di pensiero vi obbliga a cambiare le vostre vite e il vostro lavoro in loro funzione.
Mi pare di aver riassunto correttamente la posizione, difesa strenuamente ogni volta che si cerca di spiegare le nostre ragioni. Lupi ed orsi sono tornati grazie a fondi comunitari assai generosi, che hanno spinto - moltissimo per il lupo, visti i soldi in ballo - per riavere questi animali in effetti uccisi in passato dai montanari.
Il problema è che, in assenza di competitori in natura perché sono predatori primari o superpredatori , questi animali si riproducono in maniera impressionante ed essendone vietata la caccia la loro espansione non è controllata dall’uomo, il solo a poterlo fare. Questo significa che attività tradizionali come l’allevamento del bestiame contano danni crescenti e qualunque barriera come reticolati elettrici e cani pastori non bastano per arginare le predazioni. Esistono in più crescenti paure nelle popolazioni locali e anche nei turisti che devono fare i conti con la la loro presenza. Certo fanno più paura gli orsi già dimostratisi letali, ma anche i lupi incutono un legittimo timore e dipingerli come innocui è ridicolo perché la pericolosità è incisa nelle cronache del passato. Ma chi non ci vuole sentire dipinge questi animali come docili agnellini cui non infliggere un limite al suo incremento demografico e la colpa dei loro comportamenti di predazione sta nei nostri comportamenti!
Quando le autorità locali pretendono risposte dalla autorità nazionali ed europee su prende tempo e il Piano Lupo atteso da Roma per prelievi ragionevoli per gli eccessi dei grandi predatori giace inanimato. Le delibere per abbattimento di orsi confidenti, cioè che minacciano l’uomo, o assassini, perché hanno ucciso, finiscono per essere bloccate dalla Magistratura amministrativa, che entra a piedi uniti nelle decisioni politiche. L’Europa sa bene che dovrebbe essere modificata la normativa di protezione assoluta di lupi e orsi ma aspetta anche lei per evitare le polemiche degli animalisti, mentre Paesi dell’Unione si muovono in proprio. Questo non vuol dire stragi, ma prelievi ragionati sulla base dei comportamenti dei singoli lupi.
Ora una legge provinciale di Bolzano non impugnata dal Governo (e dunque a quel modello ci si potrà adeguare come Speciali) potrebbe aprire uno spiraglio, consentendo abbattimenti del lupo anche senza i pareri dati entro un certo tempo prefissato da quello strano ente nazionale che è l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), emanazione del Ministero dell’Ambiente.
Un bel misto di caos politico-amministrativo che consente di non decidere e chi lo scrive viene indicato da minoranze chiassose come un cattivo che non vede l’ora di veder scorrere il sangue di animali santificati in una evidente logica di rottura fra Montagna e Pianura.
Questo è l’aspetto politico più rilevante, perché dimostra una crescente incomprensione fra chi vorrebbe una montagna alpina disabitata e “selvaggia” e chi ritiene che debba essere viva ed abitata, pur nel mantenimento degli equilibri naturali. Una sfida culturale e politica da affrontare una volta per tutte.

Senza danza della pioggia…

Pensa che polemiche, quali Comitati nascerebbero, quanti firmatari di una petizione, marce silenziose di protesta, denunce a tutte le magistrature terracque, sit-in con cartelloni e via di questo passo con catene di Sant’Antonio sui Social con flash mob e profluvi di comunicati stampa attaccanti.
Se…se uno si svegliasse un mattino e dicesse: abbiamo in Valle d’Aosta un gruppo scientifico che sta studiando modalità per far nevicare dal cielo in annate in cui a pensarci non è la Natura. Non mi riferisco alla santa neve dei cannoni artificiali, ma alla neve neve.
Ci pensavo - devo precisare che scherzo, anche se mai dire mai - rispetto ad un articolo di Le Monde.
Si occupa di un pallino dei cinesi il giornalista Lan Wei: ”Modifier artificiellement la météo, faire tomber la pluie et répondre ainsi aux besoins de sa population et de son économie : telle est l’ambition affichée par l’Agence météorologique chinoise, qui a lancé son premier plan national en ce sens fin 2019. La presse étrangère s’en est émue, pas les Chinois, tant le « ren gong zeng yu », ou le renforcement artificiel des précipitations, était déjà une pratique courante dans le pays”.
Poi spiega il giornalista: ”La technique employée consiste à ensemencer les nuages afin de provoquer les précipitations avec l’injection de particules de sel ou d’iodure d’argent par avion, roquette ou appareil diffusant la fumée depuis le sol. Cela fait plus d’un siècle que les scientifiques étudient les dispositifs de modification météorologique et la Chine se positionne aujourd’hui comme le leader mondial de cette pratique. Historiquement, les ressources en eau sont très inégalement réparties dans le pays – la moitié nord en dispose de moins de 20 %. Mais, avec la pression du réchauffement climatique, même les provinces du Sud ont gravement souffert de la sécheresse de 2022”.
Il tema è ben noto in molte altre zone del mondo, pur con diversa gravità. E ricorda che questa storia di ”bombardare” il cielo è una storia di cui avevo già letto nel passato remoto.
Cosa capita? Così l’articolo: ”Chaque ville chinoise dispose d’un plan local d’ensemencement des nuages, dont la mise en œuvre est assurée par les fonctionnaires et chercheurs, en coopération avec les militaires. Entre juin et novembre 2022, l’ensemencement effectué par 241 vols d’avion et 15 000 lancements de roquettes aurait provoqué « 8,56 milliards de tonnes de pluies supplémentaires » dans le bassin du fleuve Yangtze, d’après Le Quotidien du Peuple”.
Non si tratta di scelta solitaria: ”Mais la Chine est loin d’être la seule à vouloir exploiter les nuages à son avantage. Etats-Unis, Emirats arabes unis, Russie, Arabie saoudite, Afrique du Sud, Thaïlande, Mexique… Plusieurs pays ont des programmes visant différents objectifs : diminuer l’impact de la sécheresse sur les activités agricoles, sécuriser l’approvisionnement en eau potable, lutter contre les feux de forêt, conserver et restaurer les écosystèmes… En France, l’ensemencement des nuages est réalisé dans une vingtaine de départements par l’Association nationale d’étude et de lutte contre les fléaux atmosphériques et l’entreprise Selerys. Le but est de prévenir des dégâts potentiels dus à la chute de grêlons dans les champs agricoles au printemps et en été ».
Insomma: l’ambizione di controllare di più anche certi fenomeni atmosferici potenzialmente disastrosi, come ben vediamo anche sulle Alpi.
Ma Wei scrive più avanti anche dei dubbi in merito a certe pratiche: ”Si beaucoup rêvent de faire pleuvoir à souhait, l’homme ne peut pas créer de précipitation ex nihilo. Selon des scientifiques des Nations unies, auteurs d’un livre sur les tentatives d’exploitation non conventionnelle d’eau (Unconventional Water Resources, Springer, 2022), il est à ce jour « impossible de fabriquer un orage artificiellement ou d’altérer les vents pour transporter les vapeurs d’eau vers une région », car l’énergie nécessaire à de telles opérations serait beaucoup trop importante”.
Dopo aver elencato altri dubbi il reportage così chiarisce ancor meglio verso la fine l’andamento delle ricerche: ”Malgré leur efficacité relative, les opérations continuent dans le monde, non sans susciter des controverses. Par exemple, dans l’ouest des Etats-Unis, face à une crise de l’eau aggravée par le réchauffement climatique, le gouvernement fédéral a annoncé en mars un investissement de 2,4 millions de dollars (2,2 millions d’euros), destiné à multiplier les campagnes d’ensemencement des nuages dans les sept Etats du bassin du fleuve Colorado. Beaucoup qualifient ces programmes de « bataille des nuages », raconte Kathryn Sorensen, directrice de recherche à l’université d’Etat de l’Arizona et spécialiste des politiques de l’eau. En effet, cette pratique peut être considérée comme « un détournement efficace de l’humidité atmosphérique » au détriment des Etats ou pays voisins ».
Ma le sperimentazioni proseguono con qualche dubbio su certe sostanze adoperate: ”Dès 2006, le Centre international de recherche sur le cancer a classé le dioxyde de titane – toutes tailles confondues – comme « cancérogène possible pour l’homme ».
Dans le monde, il n’existe aucune réglementation sur l’emploi des substances chimiques à des fins d’ensemencement des nuages. Pourtant, certains chercheurs pointent les risques que présente l’iodure d’argent. Une étude publiée en 2016 dans la revue Ecotoxicology and Environmental Safety indique que l’accumulation du composé peut « modérément affecter » les écosystèmes terrestres et aquatiques.”.
Questione da seguire, insomma, con grande cautela, nella logica dei principi di precauzione, ma chissà se, affinando le modalità di intervento, non si riesca davvero a trovare soluzioni pulite ed efficaci.

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